Come un barbaro ai confini dell’impero
Un mio amico diceva che quando vai al cinema se il film ti è piaciuto dici «sono andato a vedere quel film…», se invece non ti è piaciuto di solito si dice «mi hanno portato a vedere quel film…»
Ora vorrei scrivere una recensione del libro di Carrère che si chiama «Limonov», perché ogni rivista letteraria on line che si rispetti ha una recensione del «Limonov» di Carrère. Però intanto non so dire se l’ho letto o me l’hanno fatto leggere. E non so cosa pensarne. Anzi, ne penso molto, ma non so cosa vorrei che si sapesse che ne penso. Che è poi il motivo per cui si pubblica una recensione.
Il libro di Carrère è una biografia di un personaggio vivente con cui la vita dell’autore in qualche modo si intreccia. Carrère, giustamente, fa di questo intreccio un elemento di ricchezza del libro, rendendo esplicito il suo punto di vista, forse anche troppo. Nel senso che alla fine poi i contatti, reali o immaginari, tra i due non sono poi così rilevanti da giustificare una presenza dell’autore così massiccia. Ma non importa, perché alla fine è un romanzo e nel romanzo il metaromanzo ci sta.
È una biografia, un romanzo e anche un libro di storia. E forse quello che c’è di più interessante, almeno per me, è il tentativo di ridiscorrere del passato recente dell’Europa, Russia compresa, con un punto di vista. Non si sa ancora bene quale sia questo punto di vista, ma almeno è un tentativo, uno dei primi forse, di raccontarlo con le parole di chi non è venuto fuori dalla seconda guerra mondiale ed è già andato oltre la caduta del muro. Quindi, per me, una prima bozza di narrazione autonoma di quello che la generazione precedente non è arrivata a narrare se non, appunto, come un «post» (post guerra fredda, post comunismo, post ideologico ecc.). La generazione dei padri, nostri e di Carrère, che ha ragionato di «fine della storia» con tanta protervia che ancora la generazione successiva continua a chiamare «post» la sua stessa contemporaneità e non riesce a vederla in chiave storica. Ecco di questo rendo onore a Carrère. E anche del fatto che sa scrivere e non mi sono annoiato.
Limonov però non è un personaggio storico importante. Non è nemmeno un artista importante. Non è nemmeno un artista bravo, probabilmente. E quanto alla politica, è ancora meno importante e bravo che in tutto il resto. Insomma, detto come va detto, per quanto sia un personaggio che ha vissuto passaggi storici fondamentali per il suo paese e per il mondo intero, per quanto sia un personaggio che ha vissuto letterariamente la propria vita, riuscendo più volte a sfiorare anche il mondo della grande letteratura, per quanto abbia dato alla politica un ruolo fondamentale nella sua vita, Limonov è storicamente, letterariamente e politicamente pressoché insignificante. E umanamente... forse umanamente è un eroe, una vittima o solo un cialtrone. Oppure tutti e tre.
E se parliamo di libri, ma di libri seri, ce n’è uno che questo di Carrère mi ha ricordato, che parla di un personaggio che attraversa eventi storici burrascosi e conosce personaggi importanti della letteratura e della politica e continua ostinatamente a combattere per la sua causa rivoluzionaria, perfino quando si trova in carcere nella sua stessa patria sovietica, perseguitato dal potere della burocrazia comunista. Ma mi vergogno quasi a citare Victor Serge.
La vita di Limonov attraversa le periferie desolate delle città proletarie dell’Unione Sovietica, il grigiore penoso dell’isolamento intellettuale e della repressione brezneviana e poi vive il sogno americano e l’abbrutimento estremo nei bassifondi, l’alta società parigina, le carneficine balcaniche e il nazionalismo slavo. Carrère mette su una carrellata di atmosfere consuete allo spettatore occidentale europeo, da «Educazione siberiana» a «Good bye Lenin», passando per «Le vite degli altri» con qualche scena da «Il grande Gatsby». Parla del suo Limonov chiedendo al lettore benevolenza per il suo personaggio, un po’ come Cervantes, che dio mi perdoni, però quello di Carrère non è un antieroe inventato per prendere in giro gli eroi della letteratura, esiste davvero e gli eroi veri se ne fregano di lui. E anche Limonov come una specie di Don Chisciotte al contrario, si trova davanti a giganti e mostri a cui immagina di contrapporsi con armi finte, però nel caso di Limonov sono i giganti e i mostri ad esistere e lui a combatterli solo nell’immaginazione.
Ma Limonov è anche simpatico, a tratti perfino affascinante. E questo è quello che è riuscito meglio a Carrère e anche ciò per cui lo detesto. Non tanto perché mi ha fatto riuscire simpatico un personaggio che rappresenta ciò che non dovrebbe ispirare simpatia. Anche per quello. Però soprattutto perché dietro questa sua scelta di parlare di Limonov e di parlarne così si nasconde ancora un residuo di quel modo europeo di guardare l’esotico, con paternalismo e superiorità intellettuale. In quella simpatia c’è una traccia di compassionevole indulgenza verso ciò che rende Limonov irreparabilmente «diverso» da noi, la sua russità. Quell’essere un animale diverso rispetto al quale noialtri dobbiamo sospendere il giudizio, sulle sue idee retrogade, sulle sue amicizie fasciste, sul suo narcisismo, sulla sua spregiudicatezza politica, sul suo sentimentalismo provinciale.
E Limonov stesso, sembra guardarci da dentro il romanzo della sua vita con gli occhi da animale in gabbia, che ci considera e ci fa sentire dei frocetti senza palle, inconsapevoli della durezza della vita vera che si svolge oltre cortina. Vive il suo personaggio e accusa implicitamente il suo autore, e i suoi lettori, di avere avuto la fortuna di nascere con il culo al caldo, ma resta inevitabilmente subalterno al nostro mondo, bramando ardentemente quel caldo dove noi teniamo il culo come un barbaro ai confini dell’impero in decadenza. Passando la vita a scandalizzare borghesi che invidia e che si divertono di lui.
Per questo forse alla fine Carrère cerca uno sbocco diverso per il suo Limonov, cerca di proiettarlo altrove, gli fa sognare le steppe dell’Asia centrale dove il pastore errante dovrebbe alla fine riposare in un mistico distacco dalla realtà. Ma non convince. Perché Limonov è ancora lì, con le sue pistole caricate a salve ed un canestro pieno di parole con cui svela al mondo intrighi molto più grandi di lui, che se potesse sarebbe lui stesso ad ordire, ma il mondo non lo prende sul serio. O forse un giorno gli spara.
Forse mi sono fatto prendere la mano. Però lo consiglio ai miei amici, come ha detto Limonov al direttore del carcere che gli chiedeva come gli era sembrato l’istituto durante i due anni della sua detenzione.
E ringrazio, con questo, l’amica che me lo ha fatto leggere. Che forse è un’amica immaginaria e l’ho letto da solo.
«Mr Dedalus», 3 giugno 2015