»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Un «eroe» del nostro tempo? No, di un altro pianeta

Marco Caneschi

Che dire? Che dire di un libro dove si narrano le gesta di un tizio che ha combattuto con i Serbi di Krajina e le tigri di Arkan? Teppista a Kharkov, cecchino a Sarajevo e fondatore del partito nazional-bolscevico? Il problema è che se ci fermiamo a questi indizi, siamo fregati e la repulsione prevale. Limonov però ha fatto tanto altro e soprattutto è una cosa: un relitto umano. Ma fiero di appartenere a questa condizione, di avere toccato sempre l’abisso più infame e la bruta perdizione, averli cercati come un guerrigliero senza pace. Mai sereno con se stesso, figuriamoci con gli altri.

Limonov mai ha sopportato le mediocrità e le furbizie, i NikitaMichalkov, i Rostropovič, i Iosif Brodskij, i Michail Gorbačëv, perfino gli Aleksandr Solženicyn e i Sakharov. Anzi, proprio per questi ultimi due il destino più blando per lui dovrebbe essere il plotone di esecuzione. Meglio Stalin e tutti i difensori con il sangue della santa madre Russia al tempo della grande guerra patriottica, come chiamano a quelle latitudini la seconda guerra mondiale. Onore a chi è in grado di compiere imprese virili, infischiandosene della vita. E ovviamente della morte. È già più simpatico? Non saprei.

So soltanto che un mago di certe storie come Carrère, di cui, ricordo, Adelphi ha ripubblicato lo scorso anno anche lo sconvolgente «L’avversario», mostra una capacità e una pazienza encomiabili nel portare a galla ogni sfaccettatura di questo tizio, dalle sue indubbie capacità letterarie e poetiche alle sue crisi mistiche, alle sue cadute gossippare, alle sue pulsioni omosessuali, alle sue nevrosi sessuali, alle sue profondità. Limonov più che simpatico o antipatico, amabile od odioso, alla fine diventa insondabile ed è Carrère che porta il lettore a una dimensione di neutralità nei suoi confronti inizialmente improponibile.

Per farvi un esempio banale, ditemi chi non prova qualche simpatia alla fine del film di Michele Placido per Renato Vallanzasca. Va bene… c’è Kim Rossi Stuart che è bello, bravo e ha già reso amabile un killer della Magliana come il «Freddo». Però è così. A proposito, il regista Saverio Costanzo ha annunciato che farà un film su Limonov ispirato proprio da questo libro e ammaliato dal personaggio. Che, sono certo, ne uscirà alla grande. Eppure resta una carogna nostalgica dei tempi della Čeka e del Kgb, pronto a crepare per rozzi ideali. Ma se si è pronti a morire, non c’è niente da fare, yin e yang, siamo pronti pure ad ammazzare.

Lo sento, sto buttando giù una recensione sconclusionata. Vorrei vedere voi, dopo avere trangugiato questo Limonov a partire da una cantina durante un bombardamento in Ucraina. Per colpa dei suoi pianti, i genitori, con lui in braccio, furono cacciati da questo rifugio e scamparono per miracolo ai proiettili tedeschi. Un rifugio nascosto, laggiù in un sottoscala… e in questo ambiente ha provato, metaforicamente a rientrare. Ecco la sua tensione verso il fondo del fondo, ecco perché il periodo più felice della sua vita è stato quello della prigionia. Carceri russe. Vissute da prigioniero politico con accuse gravissime come «terrorismo». Divisa d’ordinanza con temperature invernali pazzesche, inutilità totale dei compiti assegnati dalla direzione, soggetto al più capriccioso colpo di testa di un secondino alle prese con una sbornia da vodka. Limonov è stato felice lì come non mai, ha perfino raggiunto il nirvana, perché ha dimostrato che neppure la situazione più ignobile lo poteva piegare.

Allora, l’inizio e la fine del libro sono all’insegna dell’ingiustizia che quest’uomo non procura ma invece subisce. L’ingiustizia di essere scaraventato con i suoi genitori sotto le bombe naziste in barba alla fratellanza socialista e proletaria per un pianto — cosa vuoi che faccia un bimbo se non piangere — e l’ingiustizia di accuse inventate dalla polizia e dai servizi segreti putiniani contro un uomo che, partito dopo l’esperienza delle guerre balcaniche con la velleità di destabilizzare le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale alla maniera del folle barone von Ungern-Sternberg, si è invece innamorato, come ogni persona innocua e sensibile, dei panorami e dello sciamanesimo dell’Altaj.

Ecco il punto: Limonov ha somministrato morte, non intendo fisica, o non solo fisica, certamente morale e psicologica, fra sensi di colpa vissuti e trasferiti e sentimenti degradati a carcasse imputridite, ma ingiustizia, almeno secondo il suo punto di vista, no. Anzi, la sua coerenza nello stare dalla parte degli ultimi, che possono essere anche i peggiori rancorosi ma anche ultimi non per demeriti propri, è stata la sua costante.

Se per Limonov mi sono barcamenato fra sensazioni ambigue e contraddittorie, come lo sono i suoi stessi eroismo e slancio vitale, il libro non lascia adito a dubbi: è strepitoso e Carrère ti scaraventa dentro all’uomo e, più in generale, alla storia dell’Unione Sovietica e della Russia dopo la dissoluzione del Pcus, dalla prima all’ultima riga, sovrapponendo i due piani alla perfezione. Ogni tanto lo scrittore francese accenna alla sua biografia con calibrati anelli di congiunzione fra il suo carattere e quello del russo, fra ciò che li distingue, fra ciò che distingue Russia e Francia, in sostanza est e ovest. È grazie a questi accenni che ci accorgiamo di non essere come loro, nonostante la caduta di muri e cortine di ferro: noi abbiamo certe categorie mentali e loro hanno le proprie, noi ragioniamo in un modo e loro all’opposto dinanzi al solito fatto o fenomeno, noi parliamo di «destra» e «sinistra» e loro neanche sanno che significano, noi abbiamo un capitalismo e loro ne hanno inventato un altro che fa impallidire. Stando così le cose, non possiamo ergerci a giudici e moralisti neanche di fronte a un Limonov. È un altro pianeta.

Detta in termini più letterari: se il romanzo è il terreno dove trovano cittadinanza gli infiniti risvolti umani, dove si possono rovesciare verità, certezze e punti di vista — e più sferra salutari cazzotti nello stomaco e più ci piace — che stiamo a fare gli schizzinosi dinanzi a una vita stessa vissuta come un romanzo? Che, peraltro, non è edizione Harmony quanto piuttosto un capolavoro dostoevskijano.


«Critica Letteraria», 06.02.2014

Eduard Limonow

Original:

Marco Caneschi

Un «eroe» del nostro tempo? No, di un altro pianeta

// «Critica Letteraria» (it),
06.02.2014