Considerazioni non richieste su Limonov
Uno legge un libro bello, chiaro, semplice anche nelle parti complicate, dettagliato senza essere pedante, scorrevole pure quando fa excursus geopolitici su luoghi tipo l’Uzbekistan, godibile perfino quando cita Solženicyn (quello che col suo famoso libro-denuncia sul gulasch svelò finalmente al mondo cosa ci mettono dentro a quella brodaglia arcipelagosa ‘sti ungheresi zozzoni) o Brodskij (quello delle magliette dry fit a cinque euro del Decathlon) e si sente bene, benissimo, chiude il libro ed esulta per la lingua media di questo autore (e di questo traduttore, Francesco Bergamasco) che il lettore lo rispetta veramente, cioè non lo tratta come un idiota solo perché non conosce la storia dell’ex unione sovietica, ma anzi lo considera un suo pari di intelletto, con in più la bontà di presupporre che questo suo pari d’intelletto certe cose magari non le sa, e allora, per fargli capire chi è questo Limonov, che storia è la sua storia, gli racconta, gli ricorda, gli spiega con pensieri nitidi — e in una lingua piana — tutto quello che non sa (o se uno vuole essere magnanimo con se stesso, ha dimenticato di sapere). È un libro miracoloso, Limonov. A leggerlo si entra in una specie di stato di grazia innaturale di Nižinskij, e sembra possibile apprendere qualsiasi cosa senza sforzo, al punto che a metà libro uno interrompe la lettura e corre in edicola a comprare il metodo De Agostini per il cirillico.
Dietro un libro così c’è una complessità enorme, quindi è ovvio che apra a dibattiti sui massimi sistemi, e il bello del libro è proprio che questa complessità non la riduce, non ci pensa neanche. Con sforzi che devono essere costati chissà quanto a Carrère (e che però per fortuna non si vedono affatto), la sua complessità la esibisce tutta, senza sconti, affidando la semplificazione allo stile. È la lingua che rende Limonov un libro godibile a ogni lettore: a quello che si gusta il dipanarsi tra le pagine di mezzo secolo e più di storia sovietica, come a quello che si imbatte nella parola Transnistria e tutt’al più gli vengono in mente Lapo Elkan e Piero Marrazzo che vanno a mignotte.
Ecco perché Limonov è un romanzo e non è una biografia: un libro risolto dalla lingua può essere solo un romanzo, nient’altro. Il fatto che Limonov sia la biografia di un vivente autentico (e pure bello dinamico) non sposta nulla. Walter Siti l’anno scorso ha pubblicato un libro, Resistere non serve a niente, che al contrario è la biografia di un vivente mai esistito. Dovrebbero essere due libri all’opposto, invece sono quanto di più simile. Entrambi mettono in scena il narratore, che è a tutti gli effetti un personaggio, ed entrambi descrivono il rapporto che lega il biografato (un bastardo a tratti con e a tratti senza gloria) al biografizzante (un intellettuale vagamente sfavato dalla vita). Siti e Carrère sottopongono l’autentico Eduard Limonov e l’immaginario Tommaso Aricò al medesimo procedimento: li immergono in un libro, e quando li tirano fuori uno è diventato una pura fantasia in carne e ossa e l’altro è diventato una persona in carne e ossa di pura fantasia.
Che poi dev’essere qualcosa che sta girando dentro l’aria che respirano gli artisti, questa ibridazione, questo giochino metaletterario, post-moderno e post-umano, e magari li fa starnutire forte ogni volta che si ritrovano tra loro, e finisce che si scambiano il virus del post-laqualunque, perché ovunque ti giri, in questo periodo, ti trovi in mezzo a questa commistione di dati storici e immaginazione, di vero che diventa falso e falso che diventa vero.
In libreria c’è anche L’ultimo ballo di Charlot, un libro di Fabio Stassi che ricostruisce la vita di Charlie Chaplin, ed è praticamente anche questa una biografia, solo che in certi punti è inventata e in certi altri è reale, e pure là c’è un biografo, anzi un autobiografo, che è Chaplin stesso, che scrive una lettera al figlio, e davvero diventa difficile capire dove finisce la ricostruzione documentale di Stassi (che è uno con la vocazione dello storico) e dove comincia la fiction (che c’è, a voglia se c’è, ma è così verosimile da sembrare più autentica della biografia vera).
E al cinema c’è Tornatore, che ha girato un film su originale e copia, falso e autentico, un film canonico, di genere, anzi del genere per eccellenza, il thriller, un film che sembra una puntata dell’Ispettore Barnaby dilatata, lussuosa e girata da un maestro del cinema, piena di quadri autentici che però sono copie, persone che recitano se stesse e maschere prima vestite e poi nude. Con a complicare tutto, il fatto che se uno conosce un poco il cinema di Tornatore, in questo film finisce per leggerci un messaggio chiaro e forte, che poi sarebbe questo: la Sicilia dei miei film è falsa? È una Sicilia da cartolina? E certo, scimunito: è un genere cinematografico, la mia Sicilia. E mi viene pure bene. Perché questo film qua, La migliore offerta, che cosa ti sembra che è? È un film di genere, bestia. Non lo vedi come mi è venuto bene?
A Tornatore questo film è venuto bene per lo stesso motivo per cui a Carrère è venuto bene Limonov: è pulito. Non ci sono trucchetti, non si cerca nessun effetto che non sia prevedibile, anzi proprio previsto dallo spettatore/lettore. Sono due opere che funzionano proprio perché dichiarano le buche, come al biliardo: rinterzo ad effetto con birillo centrale, poi prendono la stecca e fanno filotto.
Hanno scelto di aderire a un genere (la biografia, il thriller), e di rispettarne i canoni, e così useranno il linguaggio di quel genere (anzi useranno il più essenziale tra i linguaggi ammessi da quel genere) per dirti esattamente quello che già hanno annunciato di volerti dire (in aperta e totale violazione della famosa regola Show Don’t Tell, cosa che già fa godere come gnu striati), con il risultato — questo sì imprevedibile- di sorprenderti proprio per il loro rigore, la loro insistenza nel non volerti stupire.
Tu li starai a sentire perché la storia dell’eroe maledetto contro il mondo (Limonov) e quella del giocatore di scacchi di Allan Poe (La migliore offerta) sono sempre belle, se uno le sa raccontare con tutti i crismi. E poi li starai a sentire perché ascoltare cose nuove ti sarà più facile dentro una storia vecchia. Loro, gli autori, ti porteranno dritto dove hanno detto di volerti portare, ti puoi fidare. Dopo però saranno fatti tuoi.
Quando avranno finito di raccontare e se ne saranno andati, la messe di temi, spunti, questioni che hanno sollevato mentre tu, ipnotizzato dalla storia, te ne stavi là a berti ogni parola, dovrai sbrogliartela da solo. E per fortuna non ci riuscirai mai.
«Il Post», 17 gennaio 2013