»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Così LIMONOV di Carrère è diventato il libro dell’anno. Ovvero: voglio una vita esagerata alla Limonov

Luigi Locatelli

Tutti ne parlano, qualcuno l’ha letto, molti lo leggeranno. Biografia (quanto realistica?) di Eduard Limonov, oltraggioso autore russo dalla vita esagerata: teppista, poeta, barbone a New York, scrittore di successo a Parigi, soldato nelle guerre balcaniche, fondatore di un partito fascio-bolscevico. Un intellettuale-uomo d’azione un po’ d’Annunzio e un po’ Mishima, non senza qualche ribalderia sessuale. Ma è vera grandezza la sua? Forse il vero eroe di questa storia non è lui, ma Carrère.

Quando ho letto Limonov (qualche settimana fa) non pensavo di leggere il libro dell’anno. Non che non valga lo status acquisito nel frattempo. Semplicemente, mai mi sarei aspettavo che sarebbe diventato un caso: citato con compunzione in tutti i salotti e le serate e i crocchi più o meno radicali e più o meno chic, votato sul Corriere della Sera e La Repubblica da critici e addetti ai lavori di scrittura come massima opera letteraria dell’appena spentosi 2013. Non me l’aspettavo, perché il russo, profondissimamente russo Eduard Limonov, scrittore, ribelle, teppista, agitatore e fondatore di un gruppuscolo politico dai contorni indecifrabili, e molto altro ancora, il Limonov di cui Emmanuel Carrère traccia una specie di biografia (una specie), non è esattamente il personaggio che piace alla nostra casta intellettuale egemone. Per una ragione soprattutto: non ha un conclamato pedigree gauchiste, anzi ha flirtato e — non pentito — continua a flirtare con le peggiori esperienze nazi e nazionaliste, è alle testa di un partitino che si proclama nazional-bolscevico con falce e martello inscritti in una grafica e in una simbologia che ricordano quelle della svastica. Non esattamente un rappresentante del politically correct, anzi la sua programmatica negazione. Eppure Limonov è diventato il libro indispensabile, amato, delibato, citato, consigliato. Qualcosa è successo nel conformismo delle mode culturali e di chi le indirizza, e non me ne sono accorto, qualcosa che ha squarciato il velo della convenzione e dell’esclusione verso certi personaggi e certi mondi: un velo sottile, impalpabile, eppure resistentissimo. Dubbio maligno: che quella falce e martello abbia agito da potente lasciapassare nel salottino buono nonostante tutto il resto? O invece l’interesse per il libro e per il suo protagonista è genuino?, e allora non resterebbe che rallegrarsene per come la morsa del bacchettonismo e del pensiero omologato si stia allentando. Certo meraviglia come da molte parti solitamente bene informate di fatti e misfatti il personaggio Limonov sia atterrato come un alieno, mai sentito prima, mai conosciuto e incontrato. Eppure, mon Dieu, non è che non fosse mai arrivato niente di suo nella nostra pur periferica Italia delle lettere. Di questo strano ibrido tra scrittore e uomo d’azione qualche volta si era pur parlato sui nostri giornali, e qualche suo libro era stato tradotto, penso al Libro dell’acqua (Alet ed.) che la mia sempre molto ben informata amica Silvia Bergero mi aveva consigliato qualche annetto fa, penso a Il diario di un fallito (Odradek ed.) e all’oltraggioso, almeno nel titolo, Il poeta russo preferisce i grandi negri (Frassinelli, 1985, ormai introvabile). Solo che il nostro non aveva sfondato la barriera del disinteresse, dell’indifferenza, fors’anche del silenzioso ostracismo, nonostante l’impegno e l’avallo di gente come lo slavista Mauro Martini, che nel 2004, proprio in occasione dell’uscita di Il diario di un fallito, considerato anche da Emmanuel Carrère il miglior libro di Limonov, aveva scritto una recensione-presentazione a parer mio fondamentale (la trovate qui). Ma così va il mondo dei su e giù culturali, mondo di capricci, di innamoramenti improvvisi e altrettanto improvvisi disamori, e visto che stavolta la giostra si è fermata su un nome che merita, afferriamo l’attimo e godiamocelo. Che Limonov sia, allora. Emmanuel Carrère di mondo slavo se ne intende, conosce il russo, è figlio di quella signora che risponde al nome di Hélène Carrère d’Encausse, ieri accademica, oggi anche accademica di Francia, figlia di un russo bianco fuggito dai bolscevichi e riparato a Parigi, storica della Russia e celebre per molti libri, ma soprattutto per quell’Empire éclaté del ’78 (titlo italiano: Esplosione di un Impero? La rivolta delle nazionalità in Urss) in cui vaticinava l’imminente deflagrazione dell’Unione sovietica a causa delle tensioni etniche innescate dalle sue troppe nazionalità. Dieci anni dopo l’Urss sarebbe esplosa davvero, anche se non per le ragione che lei aveva identificato. Ma bastò comunque a procurarle fama imperitura quale oracolo e come colei che, unica, aveva intuito ciò che altri si ostinavano a non vedere o a ritenere impossibile. L’interesse per la Russia è dunque affare di famiglia, e non stupisce che Emmanuel Carrère sia approdato adesso a questo Limonov, che non è solo la ricostruzione di una vita e di un destino, ma un viaggio dentro e al termine della stessa russicità (o russitudine?). Eduard Limonov nasce nel 1942 in una cittadina ucraina col cognome Savenko (Limonov è un nom de plume che gli verrà inventato quando intraprenderà la carriera letteraria), figlio di un uomo della Ceka. Uno che ha attraversato molte stagioni all’inferno e molte identità e storie, sempre fedele però alla sua vocazione o scelta di «schierarsi con il male», di stare dalla parte sbagliata o se preferite di camminare sulla wild side della vita. «È stato teppista in Ucraina, idolo dell’underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell’immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperado», riassume (ed era ardua impresa) Carrère. Il quale lo incontra la prima volta durante la sua stagione parigina, poi lo perde di vista, non ne sa più niente o quasi, salvo ritrovarselo a Mosca in pieni anni Duemila a una manifestazione di dissidenti anti-Putin. Riprende i contatti, decide prima di scrivere un articolo, poi un libro su di lui. Lo sottopone a una lunga intervista, raccoglie testimonianze di chi l’ha conosciuto, consulta documenti (anche video), soprattutto rilegge i suoi libri, che non sono mai di finzione, ma sempre e solo autobiografici, resoconti di pezzi vissuti, perché Limonov è capace soltanto di raccontare se stesso, essendo la sua stessa esistenza la sua massima invenzione, la sua opera maggiore. E già questo apre uno squarcio sul narcisismo e l’autoreferenzialità del personaggio. Si segue appassionati la ricostruzione di Carrère perché mai come in Limonov si invera e acquista senso l’ovvietà secondo cui la vita è un romanzo. Tant’è che leggiamo e seguiamo affascinati, a volte sbalorditi, a volte disgustati, le avventure e giravolte del signor L. La sua prima mossa, in quel buco ucraino in cui si è trovato a nascere e crescere in pieno stalinismo, è di far parte della teppa che anche lì alligna nonostante il feroce controllo sociale, la seconda è di fare il poeta, quando capisce che per chi compone versi ci può essere rispetto e un certo status sociale (e ancora rimaniamo stupefatti di un mondo, di un paese, in cui la figura del poeta era massimamente rispettata e godeva di una reputazione altrove inimmaginabile). Da lì passa a Mosca, dove si installa nella marginale ma florida tribù dei letterati e intellettuali undergound, quelli dei samizdat, più tollerati dal regime che repressi, e circonfusi dell’aureola del dissenso e dello sfiorato martirio. Conosce la bellissima Tanya, che ruba a una star del cinema, ed è con lei che nei primi anni Settanta decide di lasciare l’Urss e tentare l’avventura americana a New York. Non sarà quel che Limonov sperava. All’inizio — siamo nel 1975 — lui e Tanya vengono accolti nel giro alto, riescono ad entrare nel salotto buono dell’intellettualità e del beautiful people della moda e del gusto, sono quasi adottati da Alexander Lieberman, mitologico e potentissimo art director della Condé Nast (che vuol dire Vogue) e dalla moglie, entrambi russi di origine, ma poi verranno scaricati, scagliati fuori. Affamati, impoveriti, saranno costretti a una vita da paria, non senza abiezioni. Lui non sfonderà mai in quella cerchia, Tanya non diventerà mai la top model che sognava di essere, il mondo di Vogue resterà loro inaccessibile. Leggendo dei rapporti tra Limonov e Lieberman, viene in mente quanto del leggendario art-director disse Diana Vreeland dopo essere stata licenziata da lui nel 1971 dal trono di direttore di Vogue America: «Lieberman non ebbe il coraggio di guardarmi in faccia. Lui non ti guardava mai negli occhi, si metteva sempre di profilo. Gli dissi: ho conosciuto russi neri e russi di colore rosso, tu sei il primo russo grigio» (intervista riportata nel film Diana Vreeland, l’imperatrice della moda). È qui che Limonov tocca, come più volte gli è capitato e capiterà, il fondo, con successiva deriva nichilista che Carrère apparenta a quella del protagonista di Taxi Driver, una vita ridotta a puro impulso, cieca animalità. È la fase che anni dopo Limonov racconterà nel suo Il poeta russo preferisce i grandi negri, titolo oltraggioso inventato dal suo editore parigino che, non a torto, puntava sullo scandalo, e non del tutto inapppropriato comunque, visto che le scene a oggi più famose restano quelle in cui Eduard si fa voluttuosamente sodomizzare nei più bui angoli di Manhattan da afroamericani. Poi arriva finalmente (in Francia però) il successo di scrittore, poi il ritorno in Russia, e la breve ma discussa stagione nelle guerre balcaniche a fianco dei serbi. Lo si accusa non solo di essere stato amico del secessonista serbo-bosniaco Karadzic, ma di aver anche impugnato le armi e di aver fatto il cecchino durante il famigerato assedio di Sarajevo. Accuse che lui ha sempre smentito, ma che hanno contribuito a forgiare la sua leggenda maledetta. La leggenda di un intellettuale che è però anche uomo d’azione, che sa usare il cervello ma conosce anche il mestiere delle armi, in cui la separazione tra spirito e corpo, e tra alto e basso, sembra annullarsi. Sulla scia, del resto, di figure affascinanti quanto perturbanti, Gabriele d’Annunzio (il d’Annunzio fiumano in particolare) e lo Yukio Mishima capo di un gruppuscolo teso alla restaurazione imperiale giapponese. Di questa pasta, di questa stoffa è fatto Limonov, anche se l’impressione è che di costoro ricalchi le gesta in tono minore, senza mai correrne gli stessi rischi, e fors’anche con una qualche astuzia e paraculaggine di troppo. L’ultima stagione limonoviana è quella di dissidente anti-Putin, capo fondatore del partito nazional-bolscevico che riesce a mettere insieme la nostalgia per la grandeur sovietica passata ai più estremi e furiosi russo-nazionalismi. Destra? Sinistra? Lui mescola tutto, è l’una e l’altra cosa, ed è questo che abbacina noi personcine così bon ton di questo così perbene occidente europeo. Limonov, come l’acrobata sospeso sull’abisso, non ha paura — o almeno così ci fa credere — di farsi agente e attore dell’orrore, del sangue, della violenza. Con i suoi ragazzotti-seguaci dal cranio rasato e dai muscoli gonfi e lucidi che lo adorano come un guru o un piccolo dio se ne va in una qualche parte del CentroAsia ad addestrarsi in vista forse (forse) di una qualche pazza e assai estizzante insurrezione o rivoluzione, dandisticamente votata alla sconfitta (ma non succederà, perché arriveranno prima ad arrestarlo, e lui finirà in carcere per molti mesi accrescendo ulteriormente il suo status di eroe martire). In un momento dei suoi bui anni Settanta newyorkesi si ritrova una sera — o così scrive — con un fucile in mano puntato su Kurt Waldheim, l’allora discusso segretario Onu ospite sulla terrazza di un vicino, basterebbe premere il grilletto per far passare Limonov alla storia (che è ciò che davvero e più profondamente desidera), ma non lo fa. Ecco, l’incompiutezza, l’azione vagheggiata e in fondo mai davvero radicalmente perseguita. Il libro di Carrère non riesce, nonostante tutto, a costruire un nuovo mito. Limonov è un nichilista, un anarcoide (o un anarca, nel senso che gli dava Jünger, altro scrittore con cui ha qualche affinità), un ribelle, un teppista, un dissidente punk, un angelo nero, ma non riesce mai nella sua ostentata differenza a diventare immane, enorme, titanico, bigger than life. La sua è una vita di estremismi che sfiorano il limite ultimo ma non lo valicano mai. Il dubbio è: ci troviamo di fronte a un vero eroe o solo a una ben riuscita messinscena della propria grandezza? Propenderei, a fine libro, per la seconda. In fondo, la cosa meglio riuscita a Limonov, il suo migliore successo, è stato quello di indurre un autore come Emmanuel Carrère a scrivere di lui. La vera consacrazione di Limonov non è data dalle sue azioni, per quanto rocambolesche siano state, né tantomeno dalla sua opera letteraria, ma da questo libro su di lui che però lui non ha scritto. Onore a Carrère, che si rivela in questa operazione essere il vero titano, colui che tenta la missione più temeraria e impossibile, riuscendoci. Lo fa consegnandoci un lavoro che non è solo importante per il personaggio che racconta, ma per il coraggio con cui mescola i generi letterari e i modi della scritura. Limonov sembra a momenti un cantiere aperto, dove l’autore di volta in volta sperimenta linguaggi e approcci, passando dall’inchiesta giornalistica alla biografia alla suggestione romanzesca, tant’è che non è chiaro — ma va bene così — quanto Limonov sia reale e quanto creatura di Carrère. Il quale ai fatti del suo personaggio mescola anche i propri, in lunghe e parecchio interessanti digressioni su di sè (gli anni in Indonesia con una ragazza dal fisico prorompente), la propria famiglia, il milieu letterario-intellettuale parigino cui appartiene. Un attraversamento di generi che Carrère attua senza fastidiosi proclami avanguardistici, senza fanfare (il che, per un francese, è una rarità), senza soprattutto darcelo a vedere, e invece con la massima naturalezza e una certa signorile nonchalance. Che poi, a ben guardare, questo è un libro spalancato sì sulla figura di Limonov, ma, attraverso di lui, sulla Russia profonda, quella che non conosciamo e di cui facciamo fatica anche solo ad ammettere l’esistenza. Pur nei suoi apparenti estremismi, Limonov incarna assai bene una certa media sensibilità popolare russa, è davvero, pienamente, un russo medio. Non per niente quando torna in patria, già scrittore (abbastanza) affermato in occidente, sceglie di viaggiare nei suoi spostamenti attraverso quel che resta dell’ex impero sovietico in treno in terza classe, mescolato alla «gente». Pensa come loro, è naturalmente sintonizzato con loro, solo che lui certe cose può scriverle e proclamarle apertamente affinchè tutti sappiano, e son cose abbastanza sgradite a noi europei bon ton, cose che rimescolano molte certezze e luoghi comuni. Ha l’ardire di dirci che vivere sotto Stalin non era poi così tremendo, che i cekisti (come suo padre) non erano delle carogne, solo gente che svolgeva con zelo e delle volte perfino con bonomia il proprio mestiere di controllore e garante dell’ordine sociale, e che sì, si stava peggio quando si stava meglio, perché l’Unione Sovietica non era quel cesso immondo di illibertà e repressione, ma un sistema che sapeva anche garantire qualcosa a tutti, pane e lavoro, e l’orgoglio di appartenere a una potenza. Limonov è duro e sferzante con gli intellettuali dell’underground ai tempi dell’Urss, non ha la minima stima nemmeno dei grandi dissidenti come Sakarov, ancor meno di due totem come Josif Brodskij (che detesta fino all’odio) e Solgenitsin. Non basta: dice e scrive tutto il male possibile di Gorbaciov, ritenuto responsabile della dissoluzione dell’Urss. Non ha nostalgia del comunismo, ma della grandezza imperiale sovietica sì, «di quando facevamo paura al mondo». Naturalmente la sua bestia nera, come per gran parte del popolo russo, è Boris Eltsin, colui che — a suo parere — negli anni Novanta ha consegnato il paese all’instabilità economica, alla debolezza geopolitica, allo scandaloso arricchimento delle oligarchie e delle mafie. Confrontandoci con lo scomodo Limanov molte nostre certezze sulla Russia di ieri e di oggi rischiano di esplodere, ed è un esercizio intellettuale salutare che vale la pena praticare. Ecco, quello che non riusciamo a capire (e anche Carrère, mi pare) è perché mai Limonov non abbia salutato in Vladimir Putin, come hanno fatto invece molti suoi connazionali, l’uomo che ha restaurato l’ordine interno e ridato una dignità internazionale alla patria, e ne sia stato invece fin dall’inizio un deciso oppositore con il suo partito nazbol. Ma qui si entra nel gorgo delle pulsioni narcistiche che governano il nostro, insofferente fin dalla sua adolescenza a ogni leadership e a ogni protagonismo che non non fossero i suoi. Restano fuori, dal libro di Carrère, le ultime imprese che hanno riportato in cronaca lo scrittore-uomo d’azione Limonov. Come il suo arresto lo scorso 31 dicembre 2012 insieme ad altre 25 persone per una manifestazione non autorizzata in piazza Triumfalnaja a Mosca. «Arresto del dissidente Limonov», hanno titolato i nostri media, che se lo viene a sapere lui, che la parola dissidente la odia, gli sparerebbe contro come fece ai tempi delle guerre balcaniche. Più succoso invece, e in linea con le sue passate ribalderie sessuali, quel che gli accadde quando, era l’aprile 2010, finì su internet in un video porno che lo ritraeva in un’orgia con una ragazza e altri tre uomini (uno scrittore satirico, il direttore dell’edizione moscovita di Newsweeke un politico impegnato contro l’immigrazione clandestina: una perfetta miscela di destra e sinistra assai limonoviana). Con tanto di momento-clou in cui un Limonov ormai quasi settantenne masturba uno dei signori presenti (dal sito A Good Treaty: «The three men were pictured having sex with an unidentified woman. In the video, Potkin masturbates by himself and Shenderovich and Limonov masturbate together»). Pare, una trappola, una classica honey trap, ordita da chi non tollerava la sua militanza politica diciamo così antisistema. E diventata però un ulteriore mattone all’edificazione del mito Limonov uomo contro, con il nostro che torna a qualche sporcaccionata come quando se ne andava in giro per Manhattan a farsi inculare dai negri (riuso questo parola sdoganata dal Tarantino di Django Unchained). Che poi, se ho ben capito leggendo quanto riporta Carrère, di sodomizzazioni subite ce ne son state sì e no un paio, non poi così tante. Ma son bastate per titolare il memoir di quegli anni Il poeta russo preferisce i grandi negri e trasformare Limonov per sempre in Grande Trasgressore e sovvertitore dell’ortodossia sessuale. Esagerati. In fondo, solo di due sodomizzazioni si tratta. (Mi viene in mente adesso che la sodomizzazione subita è parte integrante anche della vita e del mito di un altro intellettuale che, come Limonov, ha unito scrittura e azione, e che azione, il Thomas Edward Lawrence meglio conosciuto come Lawrence d’Arabia. Il quale, se ricordo bene, fu violentato in un carcere turco).


«Nuovo Cinema Locatelli», 09.01.2013

Eduard Limonow

Original:

Luigi Locatelli

Così LIMONOV di Carrère è diventato il libro dell’anno...

// «Nuovo Cinema Locatelli» (it),
09.01.2013