«Limonov». Emmanuel Carrère
Ho vissuto a Napoli per qualche anno ma non mi è mai capitato di passarci l’ultimo dell’anno. Non so se l’usanza di gettare i piatti e gli oggetti vecchi dal balcone sia uno stereotipo della napoletanità o pratica diffusa nella realtà. So però che dell’anno scorso (2012) mi sono rimasti quattro o cinque libri da commentare (che non ho capito per quale strana associazione ha molto a che fare, il commentare intendo, con il lanciarli da un balcone, come sperando che qualcuno passi di sotto e ne venga colpito). Limonov è uno di questi. Questo libro è considerato da moltissimi lettori che stimo — sulla rete e non — il miglior libro del 2012, in assoluto una delle prove migliori di Carrère, e io, essendo un lettore come tanti, vengo spesso a contatto con questa auctoritas letteraria (quella delle riviste, dei quotidiani, delle persone sapienti che mi circondano), e quindi non ho potuto fare a meno di leggerlo, incuriosito.
Io — non voglio mettere le mani avanti — sono una persona arrogante e sono rimasto segnato dai pochi buoni libri che mi è capitato casualmente di leggere nel corso della mia esistenza. Quando leggi un buon libro ti sembra che non succeda niente intorno e dentro di te, non ci sono particolari scintille, nè tantomeno rimani sospeso a mezz’aria come prova dell’avvenuta illuminazione, non diventi più intelligente nè più onesto. A dirla in parole povere, leggere buoni libri è una fregatura. Quando li inizi a leggere è come se ti stessi fottendo con le tue stesse mani. Magari dei pochi libri buoni che hai letto ti rimane poco in testa, ma sarai costretto per tutta la tua vita a ricercare quella stessa sensazione di apertura al mondo che ti ha provocato la lettura di un’opera d’arte. Questi libri ti rendono tossicodipendente dalla vita. Ultimamente, per dire, mi è successo di essere toccato nel profondo (che è un modo di dire, essere toccati nel profondo, molto da sceneggiatura di film d’amore hollywoodiani) da I detective selvaggi di Bolaño (intorno a pagina 140, se non ricordo male). Mi è successo di mettermi quasi a piangere per la bellezza di quelle pagine, anche se non la capivo completamente, la bellezza, e non la riuscivo a contenere nella mia testa, tutta la bellezza in una volta sola. E così vado a ricercare la medesima sensazione in altri libri, scegliendoli nel buio e nel caso, una volta fidandomi di una persona stimata, un’altra prendendo per buono un commento arguto su internet, un’altra ancora facendomi guidare da un libro in cui si parla di un altro libro. È un gioco a perdere il mio, perché è quasi sicuro che mi capiterà poche altre volte di provare delle good vibrations, eppure continuo a farlo. Una piccola parentesi: ci sono anche libri che leggo per documentarmi, per esempio, ma quelli non entrano direttamente in questo discorso.
Limonov l’ho letto perché mi sono fidato di vari commenti trovati sulla rete (praticamente tutti «quelli che contano» l’hanno letto, tutti quelli che scrivono sulle riviste l’hanno letto; gira voce che la migliore recensione sia comparsa su Il Foglio, e quindi magari pure Giuliano Ferrara ne ha sentito parlare, per dire a volte dei benefici del passaparola). È un buon libro, sicuramente nel 2012 in Italia non sono stati pubblicati molti altri titoli che possono rivaleggiare con questo per storia narrata e bravura dell’autore. Però rimane questo, Limonov, un libro scritto bene con una storia particolare. Dovrebbe in qualche modo testimoniare anche del rapporto tra l’autore e le vicende narrate, moralmente e stilisticamente, però secondo me non ci riesce. Non ci riesce perché dell’autore Carrère non ho visto molto nè ho percepito il suo travaglio di parigino del quarto arrondissement nel trattare la storia di un disperato russo, a parte qualche aneddoto sulla mamma storica della Russia che lo portava da piccolo in giro per Mosca, a cenare con intellettuali russi. Carrère entra in scena solo quando Limonov fa veramente delle cazzate, tipo stare dalla parte di assassini nella guerra jugoslava, oppure sparare simpaticamente con una mitragliatrice. Vaccate a parte (in cui come un fabiofazio qualunque deve «prendere le distanze» dal suo interlocutore), Carrère ritorna dietro le quinte, concentrando l’attenzione del lettore sulla vita di Eduard Limonov (grazie anche ad una scrittura piana che ti chiede solo di andare al prossimo rigo, e al rigo successivo ancora, e poi di voltare pagina, così da rendere la lettura molto «piacevole»). Questo libro non è autofiction come quella di Walter Siti (questa sì, una scoperta stupenda del «mio» 2012), non si occupa di testare la realtà attraverso il proprio corpo e la propria vita di scrittore. A tratti sembra una bella biografia (anche se ne ho lette poche nella mia vita, e quella di Siciliano su Pasolini è la più bella), niente di più. Per dire, anche Open del duo Agassi-ghostwriter è stato molto apprezzato dai lettori di bocca buona, ultimamente. E a pensarci mi viene da dire che abbiamo bisogno di questi libri, che noi lettori degli anni Dieci ricerchiamo due cose: una scrittura che non rompa troppo le palle, che non richieda troppi sforzi di concentrazione chè il tempo è poco e noi non abbiamo molto tempo, e delle storie di sfigati che ce l’hanno fatta. Abbiamo bisogno di gente che ci continui a dire che va tutto bene, che anche loro hanno avuto i loro bei problemi ma che, in qualche modo, se la sono sfangata. Sarà per la crisi, anzi, per la Crisi. E tutta quest’ansia di essere confortati ci porta a vedere capolavori da tutte le parti e in tutte le arti. Limonov è un buon libro paragonato alla produzione editoriale del 2012, non possiamo chiedere di più.
Penso che la via giusta per noi lettori sia ribellarci a questa retorica che ci propina Agassi, la Egan, e altri autori già citati a sbafo in questi miei commenti, spacciandoceli per giunta come autori di grande levatura artistica. Io, per conto mio, continuerò a scoprire autori come Siti o Mari, o fortunati-dopo-la-morte come Bolaño. Basta avere un minimo di intuito, le belle letture verranno anche in questo 2013.
«Liber Docet», 7 gennaio 2013