»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Parla Emmanuel Carrère (di Limonov e di sé)

Marta Perego

Marta Perego ci fa entrare nella casa parigina di Emmanuel Carrère, scrittore amatissimo, enigmatico, autore di libri bellissimi e inquietanti, da «Limonov» a «Baffi«.

Vorrei raccontarvi il segreto di uno scrittore che sta conquistando i cuori dei lettori di tutto il mondo, con un libro che parla di un personaggio — controverso, antipatico, folle, a cui finisci per affezionarti anche se non vorresti- come Eduard Limonov. Me l’aspettavo bohemien, charmant e viveur, questo Carrère — come avevo letto da tante parti. Invece no. Mi si è presentato un uomo gentile, affabile, sorridente. Un uomo che ti colpisce per la sua serenità raggiunta, per la gratitudine con cui te ne parla. Per la sua limpida consapevolezza: è come se ti dicesse costantemente «sono diventato così, grazie a lei»… E tu capisci che in quel caos di finzione, realtà, letteratura e vita può esistere un senso e un collante. Che, nel caso di Carrère, ha i capelli neri raccolti e lo sguardo abbassato.

«Credo di scrivere per migliorarmi come essere umano. Per diventare più consapevole, e un uomo più consapevole è un uomo più libero».

All’inizio è tutto una luce corposa e bianca. Divani grigi, un tavolo trasparente, un camino smaltato. Di bianco. C’è un solo libro appoggiato, «Madness Invisible» — Follia invisibile- della giornalista di guerra Janine De Giovanni, che — scoprirò poi- racconta l’esperienza traumatica della corrispondente di Vanity Fair in Sierra Leone. Raggiungere la casa di Emmanuel Carrére è stato abbastanza semplice (anche perché erano tre giorni che non facevo altro che guardare Google Maps per non sbagliare… pensavo… «caspita sono arrivata fino a Parigi ci manca solo che non trovo la casa..»). Abita a due passi dalla fermata della metropolitana che dà sulla Place Franz Listz (una piazza bellissima, con al centro una chiesa in stile in neoclassico, in cima ad una scalinata). Il quartiere, al decimo arrondissment, è elegante, ma non troppo. Lo definirei piuttosto «discreto» o «quietamente signorile». Intorno tanta neve — a Parigi non nevica spesso e quando succede i parigini sono tutti presi da una irrefrenabile joie de vivre, anche Carrère ne era contagiato — che rende l’atmosfera ancora più… sì… incantata. E bianca…

L’appartamento di Carrére è un attico con grandi vetrate che danno sui tetti parigini. Entra una luce fortissima che sbatte sui mobili anni Settanta.

Emmanuel ci viene incontro, ci fa accomodare e chiede subito «Volete un caffè?».

Sorride sincero come se, davvero (e credo fosse contento sul serio), gli facesse piacere preparare un caffè a questa giornalista italiana che gli piomba in casa — con tanto di operatore, telecamera e moon boots-, il sabato pomeriggio. Indossa un paio di jeans e un pullover blu. Avevo letto che fosse affascinante, ma non credevo così. Ha degli occhi scuri che ti scrutano, capelli un po’ scompigliati e quelle rughe che tanto donano, agli uomini mannaggia a loro, quando compiono i cinquant’anni. Annuisce quando parli, ascolta e con serietà ti dice «Adoro questo quartiere, è tranquillo, è il posto giusto per me. Ora».

Una bimba bionda bellissima di circa sei anni entra saltellando. È sua figlia che si mette a sistemare i cuscini, da brava donnina di casa. «Enchantè Madmoiselle». Sulla porta c’è invece un ragazzo alto, biondo e bello anche lui. «Lui è il figlio della mia compagna».

Caspita, come fate ad essere tutti così meravigliosi- penso.

Il caffè arriva dopo 15 minuti. «Sa a me piace tostarlo, cerco di mangiare il più sano possibile».

Gli dico che io sono una sua grande fan, che ho letto quasi tutti i suoi libri e che il mio preferito è stato «Vite che non sono la mia». «Sì, anche secondo me è il mio migliore. È dove ho ritrovato me stesso». Risponde.

Non smette mai di sorridere. Si siede, si fa sistemare il microfono. Accetta di buon grado che io gli faccia le domande in inglese (il mio francese è davvero terribile). Di lui avevo letto che lo chiamavano il dandy destroy. Che faceva impazzire i giornalisti. Che era irrintracciabile, mai puntuale… viveur, bevitore, distratto. Certo, avevo anche letto «Vite che non sono la mia»(un libro che mi ha distrutta di dolore. «Sono contenta che l’abbia fatta piangere- mi dice lui scherzando- vuol dire che ho realizzato il mio scopo»), del suo amore per la sua compagna Hélène e del cambiamento che lei aveva portato nella sua vita. Ma chissà perché siamo sempre portati a non credere a quello che leggiamo. Per lo meno, io tendo sempre a pensare che gli scrittori, anche quando decidono di inserire loro stessi nei romanzi, mentano sempre, un po’. Che in fondo la fiction vinca sempre sulla verità e che l’atto stesso di raccontare porti in sé, per definizione, una bugia. «Per me la finzione può creare la realtà- mi dice invece lui a metà della lunga intervista che mi concede, quasi un’ora, non la smette di raccontarsi, di giocare con le domande, di voler rispondere- anche se oggi nei miei libri non creo più storie immaginarie, io penso che inserire il punto di vista dello scrittori crei una verità. Non credo nella neutralità dello scrivere, credo in quello che io penso, io vedo, io sento».

Carrère ha scritto circa 12 libri. I primi erano romanzi di fiction, alcuni sono diventati dei film come «L’amore sospetto» (il libro in realtà si intitola «Baffi») con Vincent Lindon, nei panni di Marc Thilliez un uomo che un giorno, quasi per scherzo, decide di tagliarsi i baffi che ha sempre portato. Ma nessuno se ne accorge, né la moglie né gli amici, anzi, gli continuano a ripetere che, per loro, lui non ha mai avuto i baffi. Parte così per un viaggio, tra Hong Kong e Macao alla ricerca della sua identità. Un romanzo che è una via di mezzo tra la dissimulazione della realtà alla Philip Dick (Carrère su di lui ha scritto anche una bella biografia- saggio intitolata «Io sono vivo e voi siete morti») e i temi pirandelliani («uno dei miei autori preferiti, ho letto tutto di lui. Un grande maestro»).

Emmanuel ha esordito nel 1982 con una biografia, «Werner Herzog», il grande regista tedesco che poi ha intervistato, lo racconta anche in «Limonov» e a me alla fine dell’intervista- «Una delle esperienze più terribili della mia vita. Mi rispondeva come se nemmeno mi vedesse. Credevo che almeno avesse visto il libro…». Ma è nel 2000 che arriva la svolta, con «L’avversario», un romanzo scritto alla maniera di Truman Capote in «A sangue freddo» (un non fiction novel per dirla come gli studiosi di letteratura). È la storia del falso medico, Jean- Claude Romand, che nel 1993 dopo 18 anni di bugie alla moglie e alla sua famiglia -fingeva ogni mattina di andare al lavoro- per paura di essere scoperto decide di sterminare tutti, non riuscendo, soltanto, a uccidere se stesso. Carrére manda una lettera al carcere, incontra Romand e, come aveva fatto Capote, decide di raccontare la sua storia in un romanzo.

«Il mio approccio non è tanto diverso da quello di un giornalista. I miei libri sono un po’ dei reportage. Ma io non nascondo mai il mio punto di vista. È il mio racconto dei fatti».

I suoi libri hanno una gestazione lunghissima. «Sono come un pittore di fronte al suo modello, ci vuole del tempo per cercare il posto giusto in rapporto a quello che si è scelto di raccontare. Faccio almeno tre versioni di un libro, per cercare di essere il più chiaro e semplice possibile, dato che di solito mi occupo di argomenti complessi». Per scrivere «L’avversario» Carrère ci ha messo sette anni, «Limonov», quattro.

«Ho conosciuto Limonov negli anni Ottanta, quando è venuto a Parigi nelle vesti di scrittore. Un po’ bohemien, un po’ viaggiatore. Mi sembrava un po’ un Jack London russo. E io mi sono detto: come faccio a non incontrare uno cosi? Allora l’ho intervistato all’epoca e poi siamo rimasti in contatto, quasi amici. Ho seguito le sue avventure. Poi c’è stata la caduta del comunismo, lo scioglimento dell’Unione Sovietica e lui da scrittore si è trasformato in guerrigliero. Ha combattuto nei Balcani, a fianco dei Serbi. Poi ha fondato il partito nazionalbolscevico che è un partito seguito da un sacco di skinhead arrabbiati. Davvero una vita bizzarra… poi un giorno l’ho incontrato a Mosca. Io ero là per altri motivi e scopro che lui è diventato il leader dell’opposizione democratica seguito e rispettato da persone eccezionali come Anna Politkoskaia. Ho avuto la conferma che lui fosse un personaggio straordinario e ho voluto indagare ulteriormente su di lui. Ho scritto un reportage per una rivista, ma sentivo che non era abbastanza. Dovevo scrivere un libro, non solo su di lui. Ho capito che la sua vita mi dava la possibilità di raccontare la Russia, la storia della Russia e il caos della Russia post-comunista ma anche scrivere un romanzo d’avventura alla maniera di Alexandre Dumas. Limonov è un personaggio controverso ma che ha un’energia quasi romantica. Un eroe insomma, di un romanzo d’avventura».

Limonov è un romanzo costruito su tre livelli: nel primo c’è la vita di Eduad Limonov, nel secondo c’è la storia della Russia (dagli anni Cinquanta alla caduta dell’Urss fino a oggi), nel terzo la vita di Carrère che si intreccia con quella di Eduard. «La cosa più importante per me come scrittore è che il lettore non si senta perduto di fronte alla complessità degli argomenti, il mio scopo è stato raccontare nella maniera più chiara e semplice possibile, ma comunque completa, fatti storici e politici. La parte più complessa è stata senza dubbio tutto quella relativa alle guerre nei Balcani, da una parte perché è stato un periodo molto confuso e poi perché è la fase di vita di Limonov in cui lui, come personaggio, mi è più antipatico. Lui è sempre energico, vitale, eccetera, ma in quella fase ha delle idee politiche che sono totalmente in contrasto con le mie. Ma non è solo quello. In quel periodo Limonov mi sembrava un cattivo ragazzo che vuole giocare alla guerra, con le armi. L’ho trovato non solamente esagerato ma anche un po’ ridicolo».

La Russia, nel cuore di Carrère, ha un peso importante. Sua madre era di origini russe ed è stata la sovietologa che aveva previsto l’implosione dell’URSS. In «Vita come in un romanzo russo», Carrère ritorna alle radici della sua vita cercando di affrontare il fantasma della sua famiglia: scoprire il motivo per cui il nonno venne ucciso nel 1944. Carrère decide di affrontare la storia a modo suo trasferendosi in un piccolo villaggio, aspettando che qualcosa accada. In effetti una cosa succede: una giovane madre, che Carrère conosce molto bene perché è la sua interprete, viene uccisa.

Da questa esperienza, che ha segnato profondamente la sua vita, prima di scrivere il libro, Carrère aveva realizzato un documentario «Ritorno a Kotelnich», a cui è molto legato perché rappresenta un pezzo della sua vita. «A volte ho l’impressione di raccontare cose che mi si buttano addosso. Come è successo per questo documentario. Intorno a me o anche contro di me, succedono delle cose che accendono in me curiosità oppure orrore, e allora io non so fare altre che raccontarle. Non so bene perché, nei libri io voglio raccontare questo: cosa succede quando realtà e racconto si intrecciano attraverso la vita e il punto di vista dello scrittore».

In Limonov il procedimento è stato un po’ diverso. Carrère ha capito che lui — questo controverso rivoluzionario, poeta, scrittore, politico- poteva essere un protagonista perfetto per un romanzo di avventura. «La cosa che più mi ha colpito del personaggio di Limonov è il suo vivere costantemente, anche oggi che è di nuovo stato arrestato, nel suo sogno di diventare un eroe. È una cosa che appartiene a tutti quando siamo ragazzini ma poi da adulti le priorità cambiano. A lui no. Lui continua a sentirsi un ragazzino che vuole diventare un eroe».

Ma cosa ha capito di Limonov e del suo rapporto con la storia della Russia scrivendo questo romanzo? «Scrivendo Limonov, ho capito che la sua vita è un po’ la metafora del momento che stiamo vivendo. Ora che il comunismo è completamente sparito, completamente screditato, ora che non ci sono che la democrazia e il mercato, si ha un po’la sensazione che si sia precipitati in una situazione in cui non c’è più un sistema di valori. E quello che credo sia interessante riguardo a Limonov. Credo che ci sia una gran quantità di gente e non solo la gente del parlamento ma anche io, le persone che conosco, credo voi che siete qui, tutti, insomma, che siano più o meno di destra o di sinistra, che crede più o meno alla democrazia, ai diritti di base dell’uomo. Invece Limonov da questo punto di vista è completamente solo, completamente folle, lui pensa che la democrazia sia un errore, che i diritti dell’uomo siano esattamente la stessa cosa del colonialismo cattolico cioè un mezzo per fregare poveri. Per cui Limonov è per Ceaucescu, per Saddam Hussein per Assad. Certo, è contro Putin, ma solo perché è russo e deve trovare una sua posizione a riguardo. E molto interessante vedere il mondo contemporaneo con gli occhi di qualcun altro che ha degli occhiali che di offrono un punto di vista sulle cose completamente diverso dal nostro, qualcuno che non è assolutamente un mascalzone, ma che si muove nel disprezzo di qualcosa che appartiene al nostro quadro mentale, appunto la democrazia. Per questo credo che Limonov sia un’impostura da questo punto di vista. Quando stavo scrivendo il libro è uscita un’intervista del nostro ministro degli affari esteri dell’epoca che si chiama Ubert Vedrin. Quando l’ho vista mi ha colpito molto perché era esattamente il tema del mio libro. Lui diceva «Se i nostri valori universali non sono considerati da tutti come valori universali allora c’è un problema».

La cosa che colpisce più il lettore, in assoluto, è la capacità narrativa di Carrère. Tutto è spiegato semplicemente e con ritmo. Non ci si perde mai, anche quando si parla della situazione politica in Kurdistan. «I miei libri sono dei ritratti… dei racconti… delle vite degli altri. Perché lo faccio? perché ho l’impressione che mi migliorino, sia come scrittore sia come essere umano. Quando scrivo sceneggiature, per i film o per la tv, riesco ad immaginare storie di fiction. Quando scrivo romanzi, invece, sento il bisogno di studiare le vite degli altri per capire meglio me stesso. Mi sento più consapevole, e quindi un uomo più libero. E poi c’è il lettore. Io tengo molto al suo piacere. Cerco di scrivere libri che appassionino i lettori, che girino le pagine per capire cosa succede, che abbiano un ritmo, una trama chiara, precisa, anche se mai scontata. Ma soprattutto , il mio scopo e la mia ambizione più grande è far nascere in lui una domanda, un dubbio, una riflessione. Sul mondo e sulla sua vita. Voglio che i miei libri siano un’esperienza completa. Per me e per i miei lettori».

Nell’intervista parliamo di tante altre cose. Dei suoi libri della vita («Alla ricerca del tempo perduto», «I miserabili», «Grandi speranze»), i suoi gusti al cinema («il mio regista preferito è senza dubbio Michelangelo Antonioni, tutti i film che ha fatto con Monica Vitti sono la rappresentazione della bellezza a cui può arrivare l’umanità attraverso l’arte. Vorrei tanto vivere in un film di Antonioni») e sul suo prossimo romanzo, di cui però non mi dice nulla «sto scrivendo ma finché non ho le idee chiare preferisco non dire nulla per scaramanzia».

Ci porta, poi, nel suo studio. C’è una libreria, con i «Limonov» tradotti in tantissime lingue, un Mac portatile, una copia di «XY» in francese di Sandro Veronesi («un libro che ho amato molto» e che è appena stato tradotto in Francia) e una scrivania bianca. «Scrivo 3/4 ore al giorno, di solito la mattina. Mi concentro molto quando scrivo. Di più non potrei. Sa, la mia vita è abbastanza normale: porto a scuola mia figlia, arrivo a casa, scrivo, mangio, magari scrivo ancora un po’, leggo, studio. Quasi banale».

Già, quasi banale. E me lo dice con gli occhi di uno che sembrava non desiderasse altro nella vita. «Une vie très banale»- Lui, lo scrittore bohemien. Il bell’intellettuale inarrivabile. L’uomo che, per testare la soglia di sovrapposizione tra finzione e realtà aveva fatto pubblicare su Le Monde una lettera erotica privata–tradotta in italiano col titolo «Facciamo un gioco»- indirizzata all’allora fidanzata (che non la prese benissimo, lasciandolo e facendogli capire «che forse certe barriere non vanno superate, è una delle cose più crudeli che abbia mai fatto»). Lo scrittore dei massacri, del sangue, dei fatti bizzarri. Che ora, in questa continua ricerca di una posizione da prendere nei libri, pare proprio abbia trovato anche il suo, di posto.

«La notte prima dell’onda ricordo che io ed Hélène abbiamo parlato di separarci». Inizia così «Vite che non sono la mia», quel libro meraviglioso in cui Carrère decide di accollarsi l’onere di raccontare il dolore degli altri («A pochi mesi di distanza, sono stato testimone dei due eventi che più di ogni altro mi spaventano: la morte di un bambino per i suoi genitori, e quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. Poi qualcuno mi ha detto: tu sei uno scrittore, perché non scrivi la nostra storia? Era come un ordine, un impegno, e io l’ho accettato.»).

Lui ed Hélène, bella e famosa giornalista televisiva, a distanza ormai di una decina di anni, non si sono lasciati. Lei è lì, in piedi sulla porta della cucina, con i capelli raccolti e il sorriso un po’ timido che ci saluta mentre lasciamo (credo che abbia pensato- a ragione- «finalmente») la sua casa in un pomeriggio così pieno di luce e di neve.

E mentre chiudo la porta penso che lui, Emmanuel, in questo continuo domandarsi su quale debba essere i rapporto tra realtà e finzione, abbia davvero trovato una quadra. Raccontando le vite degli altri. E ritrovando la sua. In Hélène e in una casa piena di mobili bianchi.

«La vita mi ha reso testimone di queste due disgrazie, una dopo l’altra e incaricato, o almeno così ho capito, di renderne conto. A me le ha risparmiate, e prego perché continui a farlo. Mi è capitato di sentir dire che la felicità si apprezza a posteriori. Che pensiamo: non me ne rendevo conto ma a quel tempo ero felice. Per me non è così. Sono stato a lungo infelice e molto cosciente di esserlo; oggi amo quello che è il mio destino (…)

… preferisco ciò che mi rende simile agli altri a ciò che mi distingue. Anche questa è una cosa nuova.» (E. Carrère «Vite che non sono la mia»).


«Glamour», #1, gennaio 2013

Marta Perego

Marta Perego

Eduard Limonow

Original:

Marta Perego

Parla Emmanuel Carrère (di Limonov e di sé)

// «Glamour» (it),
#1, gennaio 2013