»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Giuseppe Raciti

Non tutti conoscono Eduard Limonov. Non tutti conoscono Carrère. Certo, la letteratura non gode oggigiorno di buona salute, ma la seminotorietà di Limonov e Carrère è un altro tipo di fenomeno, è una cosa più complicata. Nessuno mette in dubbio il loro talento o meglio il «mestiere», per di più sono entrambi immersi in modo caratteristico nella così detta contemporaneità — Limonov, per es., non si limita a scrivere romanzi (ne ha pubblicati una ventina), è anche il fondatore di un partito politico pericolosamente ostile al regime di Putin, il partito nazionalbolscevico. A leggere i loro libri, inoltre, si gode del gusto dell’inventiva e molte pagine, dell’uno e dell’altro, riescono sovente brillanti. Ma la verità, quella che va in giro nuda, è che Limonov e Carrère sono due autori mediocri.

Il libro di Emmanuel Carrère su Limonov (Limonov, Milano 2012) è la biografia intellettuale di un mediocre scritta da un mediocre. Il risultato è straordinario: il libro di Carrère attinge l’idea stessa della mediocrità. È un trattato sull’assoluto della mediocrità. Ma la mediocrità assoluta, lo diciamo a scanso di equivoci, non ha più niente di mediocre. Insieme, Carrère e Limonov fanno impressione, perché riflettono con inquietante esattezza lo spirito odierno, o sia l’odierna mancanza di spirito.

La religione, dice Marx in una pagina celebre, è lo spirito di un mondo senza spirito. In questo senso, Limonov e Carrère sono due sacerdoti. È monacale l’attitudine di Carrère a seguire il suo personaggio dappertutto, dai parchi newyorkesi, in cui il poeta russo preferisce i grandi neri, alle brulle lande slave, dove si celebrano i fasti oscuri di quella guerra della mediocrità che fu il conflitto balcanico nei Novanta del secolo scorso. È monacale la volontà di Limonov di sfuggire a ogni costo alla «vita di merda», parole sue, a cui era destinato un giovane ucraino sotto il regime d’acciaio dell’ucraino Brežnev.

Limonov ha fatto della confusione il suo stendardo. Ha capito con largo anticipo che la confusione è la cifra del nuovo millennio. Nel bugigattolo newyorkese dove approda nel 1975 ha incollato alla parete la foto di Gheddafi accanto a quella di Charles Manson; ma c’è anche un’altra foto, quella che lo ritrae assieme a Tanja, la ragazza che ha sposato e che lo ha seguito in America. Tanja e Eduard scopazzano da mane a sera, dato che non c’è altro da fare. «Passare da Mosca a New York, commenta il sordido Carrère, è come passare da un film in bianco e nero a un film a colori». Solo che i colori son troppo sgargianti per queste grigie retine sovietiche e tosto i due ne sono sopraffatti. Frequentano qualcuno, per lo più connazionali; lui fa qualche lavoretto saltuario, ma non basta a sbarcare il lunario. La crisi coniugale è l’epilogo più ovvio. Ridotto in solitudine Limonov comincia a darsi verso. Diventa il maggiordomo di un miliardario con casa a Manhattan. Conosce Evtušenko, ospite del padrone. Evtušenko è il tipico «dissidente a metà, coperto di privilegi e di dacie». Limonov non tollera i dissidenti russi. Sakharov, Brodskij, Solženicyn. Soprattutto Solženicyn. «Uno dei migliori ricordi della vita di Eduard è quello di avere inculato Tanja davanti alla televisione, alla faccia del profeta che arringava l’Occidente e ne stigmatizzava la decadenza».

Limonov è figlio di un ufficiale del KGB. In America e poi in Francia, dove soggiorna a lungo, non fa mistero delle sue tendenze staliniste. Tornato in patria assiste alla caduta del regime (agosto 1991). L’odio per Gorbačëv, ritenuto il responsabile di questo «disastro», cresce oltre i limiti di guardia: per lui, dichiara ancora oggi in una intervista a Repubblica, «ci vorrebbe la ghigliottina». Gorbačëv «ha smantellato il patto di Varsavia, ci ha fatto perdere tutto quello che controllavamo. Ha fatto riunire la Germania devastando ogni equilibrio in Europa. […] La Germania Unita ha per esempio fomentato la guerra in Jugoslavia. Le migliaia di vite perdute nella guerra dei Balcani sono tutte a carico del signor Gorbačëv».

Nella Russia di El'cin inizia a frequentare quel «pantano di comunisti nostalgici e nazionalisti esagitati» che sfocia nel tentato golpe del settembre 1993. I carri armati del democratico El'cin trasformano la rivolta in una carneficina. Tra i pochi scampati c’è Limonov. Di questi eventi noi occidentali parliamo poco e male. Chi se ne frega, infatti, del tentativo di un manipolo di comunisti di riprendersi a forza l’eredità del Diciassette? E che senso ha parlare di scaramucce del genere rispetto alla prospettiva, così a lungo rimandata, di americanizzare la vasta Russia?

Nella Russia di Putin le idee polemiche di Limonov si concretizzano nella fondazione del partito nazionalbolscevico, che oggi conta un discreto numero di militanti. È strano questo rapporto a Putin, fatto di continui arresti e puntuali riabilitazioni. Carrère scrive sull’argomento pagine interessanti. È noto il proposito di Putin riguardo alle frange dissidenti: occorre, dice, inseguire i terroristi fin dentro i cessi. Lo dice e lo fa. Ma Limonov è un caso a parte. È uno scrittore, conosce Putin personalmente, lo ha incontrato in momenti salienti, e poi è figlio di un ufficiale degli organi, cioè dell’ex KGB, oggi FSB (Federalnaja služba bezopasnosti). Putin, si sa, era un ufficiale del KGB di stanza nella Germania dell’Est. Dopo il putsch di El'cin il tenente colonnello Putin si ritrova a Pietroburgo alla guida di un taxi; poi, piano piano, si rifà una posizione all’interno dell’FSB. All’epoca del secondo mandato di El'cin, Putin dirige l’FSB «senza infamia e senza lode». Quando gli «oligarchi», vale a dire i grandi mafiosi che foraggiavano El'cin (i nomi: Berezovskij, Cherney, Vekselberg, Fridman, Blavatnik, Abramovic, Khodorkovsky ecc.), si mettono alla ricerca di un successore «altrettanto condiscendente», «il più astuto di loro, Berezovskij, ha un’idea: [scegliamo] un cekista completamente sconosciuto alle masse, Vladimir Putin». Berezovskij fa male i suoi conti. La storia è nota: «l’ufficiale scialbo e ossequioso si rivelerà un’implacabile macchina da guerra» e uno dopo l’altro i suoi Grandi Elettori conosceranno la polvere.

Limonov non è un oligarca, tutt’altro. Tra i due corrono segrete affinità. Anche Putin «ha diffidato della perestrojka» e «non ha mai sopportato che masochisti o agenti della CIA facessero tante storie per i gulag e i crimini di Stalin». Anche per Putin «la fine dell’impero è stata […] la più grande catastrofe del ventesimo secolo». «La differenza tra Putin e Eduard è che Putin ce l’ha fatta. Putin è il capo. Può ordinare che i testi scolastici cessino di sparlare di Stalin, richiamare all’ordine […] le anime belle dell’opposizione liberale. Si inchina pro forma davanti alla tomba di Sacharov, ma tiene sulla scrivania, ben visibile a tutti, il busto di Dzeržinskij». Ovviamente Limonov si rifiuta di riconoscere in Putin il suo doppio, anzi vede in lui semplicemente un «tiranno mediocre». Cioè vede se stesso. E quando Carrère, di rincalzo, corregge il tiro e afferma che secondo lui Putin è «uno statista di grande levatura», il cerchio magicamente si chiude: Limonov non si riconosce in Putin e Carrère non si riconosce in Limonov. Il mediocre fugge se stesso come il vampiro l’aglio.

Ma il caso Limonov rimane aperto, anzi spalancato. Come spiegare, per es., il proposito di associare la propria attività propagandistica, cioè il truce lavoro dei nazibol, alla campagna sferrata contro Putin da Anna Politkovskaja? Anna ha pagato l’azzardo con la morte, Limonov no. C’è da chiedersi perché, e subito. L’ombra densa degli organi si distende ancora una volta sullo scenario russo. — Il comunismo è morto, viva il comunismo.


«Giusepperaciti.eu», ??? 2013

Eduard Limonow

Original:

Giuseppe Raciti

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// «Giusepperaciti.eu» (it),
??? 2013