»LIMONOW«


von
Emmanuel Carrère



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Vite che sono la nostra: Limonov

Daniela Ranieri

Devi leggerti Limonov, secondo me ti piace. Leggiti Limonov (con lo stesso tono dileggiti i libri di Philip Roth: arrogante e malizioso). Ciononostante, l’ho letto.

Ma questo è un libro miracoloso, una catastrofe nel mondo della letteratura. Carrére ha scritto libri più perfetti, in cui ogni pagina era come un monolite cesellato, in cui le parole erano eleganti e potenti, e danzavano in quella sterminata zona di nulla che sta tra significante e significato: erano capolavori del simbolo, come anelito di una parola, del suo scheletro visibile, al suo senso più lontano. Limonov non è così.

Le sue pagine sono sporche, stilisticamente aspre; il suo lirismo emana da un’architettura invisibile, fatta dai gesti e dalle parole di questo personaggio odioso, attraente e disperato che è Eduard Limonov.

Ma quindi Limonov è la storia di un personaggio negativo che poi diventa positivo? (Mi è toccato di leggere e sentire anche una cosa del genere). No. È tutto più complicato, è tutto più letterario nel senso nobile, e non in quello editoriale.

Come i libri stellari, quelli le cui punte, o chiome, sfiorano quelle di altri, e travalicano i confini delle costellazioni e invertono il tempo, il libro di Carrére rimanda ad altri libri, a vite limitrofe e ad opere parallele che si stavano scrivendo, dentro le quali ci sono personaggi che ricorrono, nelle loro forme reali o immaginate, nella vita e nel pensiero di Limonov stesso. È un’opera che realizza quel sogno plutarchiano di far combaciare le storie delle persone con i lembi della storia: basta sollevarne uno per intravedere, sotto, un tessuto complicato che ci riguarda, se non altro perché il passato appartiene a tutti, come le opere d’arte.

Eduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov («granata»), è una carogna, un perdente, un ladro, uno che non ha voglia di lavorare. Ambiziosissimo, è affascinato dalla ricchezza, non come veicolo del potere, ma come alveo della possibilità. Figlio di un cekista, cioè un ufficiale della polizia più spietata della storia, che invece di far rigare dritto i delinquenti come immaginava Eduard da piccolo fa salire sui treni gente da spedire in Siberia, matura negli anni l’odio e il desiderio di vendetta verso le ingiustizie di cui sono oggetto i poveri, gli zeri.

Non farò un riassunto di questa biblica biografia: sta tutto lì e ridurre una riduzione è impresa inutile e sciocca.

Ne fossi capace, costruirei una specie di schema o di diagramma del sentimento suscitato(mi) dalla lettura delle pagine, dei capitoli. Limonov è una bestia che chiede amore. È un violento che mette i voti alle donne, ma un abbandono lo prostra ai limiti dell’umano. È un aspirante criminale che si avvicina ai dissidenti russi e comincia a frequentarli continuando ad odiarli. È uno stalinista, che nega la realtà dei gulag (e odia quindi Solženicyn), ma (è questa la cosa incredibile) lo fa senza cinismo. Allora, ti dici, è uno stupido, un idiota. Che non lo sia, se non in quel famoso senso eroico-epilettico che in Russia tutti conoscono, è dimostrato pagina dopo pagina. Tramortito da continue maratone di ubriacature, in russo zapoj, che lo lasciano incosciente per giorni, scrive la furente storia della sua vita, e cerca di piazzarla.

Quando va a New York la porta a Brodskij, che già odia in quanto dissidente di lusso e che diventa una specie di diavolo rosso di capelli e sbiadito di passione, e qui davvero, in questo confronto tra primo e ultimo, tra poeta laureato e fallita canaglia, Carrère dimostra di essere un Omero contemporaneo. Limonov è un eroe dumasiano fissato dal riscatto degli ultimi, ma nel suo voler ristabilire l’ordine e la verità è piuttosto amletico.

Folle, slegato dalla realtà, tramortito da sedute di masturbazione o taglio delle vene come fossero la stessa cosa, attraverso una Russia insanguinata e svuotata e dentro il Nuovo Mondo altrettanto falso e crudele, Limonov è un essere profondamente morale. Sembra il protagonista de Le Benevole dentro un romanzo di Philip Dick: io sono vivo, e voi siete morti. Nelle avversioni che costruisco, tesso la mappa delle mie e delle vostre predilezioni.

Quello che vuole fare è slargare l’esperienza nell’intensità. Sono le dissonanze del mondo, che lui nota e per cui soffre, a rivelarlo: i sanitari del carcere di massima sicurezza sul Volga nel quale verrà rinchiuso per terrorismo sono uguali a quelli dell’albergo chic arredato da Philippe Starck dove aveva soggiornato a spese del suo editore newyorkese.

In merito alla sua esperienza nella ex Jugoslavia, dove ha combattutto accanto aiserbi (se volete fare un po’ di ginnastica cerebrale questa è la parte che fa per voi) Carrére dice:

«Credo che nella sua filosofia uccidere un uomo in un corpo a corpo sia come farsi inculare: qualcosa che almeno una volta nella vita devi provare».

Come vita parallela della nostra storia post-bellica, questa biografia è la storia della Russia che si allarga sul mondo come il sangue da una ferita alla testa, rispetto a cui l’ago di Limonov ci orienta e disorienta in continuazione. Necessita di una attitudine atletica alla lettura: sto coi serbi, no: sto coi croati, no sto coi ceceni, anzi sto con gli stalinisti della prima ora, coi trotskisti, coi vecchi russi che finiscono sotto i ponti dopo la Perestrojka, coi poveri cristi che si mettono a fare i tassisti, poveracci, vero?

Poi leggi che questa è esattamente la storia di Putin, ex tassista in cerca di riscatto; e leggi che Limonov la pensava (la pensa) esattamente come Anna Politkovskaja (la giornalista uccisa nel 2006 sulle scale di casa) in merito all’impostura di Putin sugli attentati ceceni, e anzi che il direttore dell’edizione di Novgorod della «Novaja Gazeta», organo dei diritti civili e democratici, si è iscritto al partito dei nazbol (nazionalbolscevichi) fondato da Limonov, una specie di setta che si riunisce in una cantina foderata di poster di Bruce Lee, Stalin, Fantomas e i Velvet Underground, e il cui simbolo è una falce e martello in campo bianco-nero come una svastica. E che per i nazbol, insieme a Limonov, si è candidato Kasparov, il genio degli scacchi. E che Politkovskaja aveva seguito il processo intentato a 39 nazbol difendendoli a spada tratta.

All’interno dei limiti sempre infranti stabiliti dalla ribellione di questo ultimo, marginale eroe, ci ribelliamo al quadrato, al cubo. Il dubbio che Carrére, borghese ricco, colto, ipercivilizzato, sia sia voluto divertire con questo fallito e miserabile che si fa inculare dai negri a Central Park c’è e rimane. Specie in un passaggio in cui riferisce qualcosa di incredibile che nell’economia della tragedia di Limonov è perfettamente coerente, ma rispetto al quale Carrére si mostra ambiguamente credulo, cioè assume — ma forse sono io troppo severa — il punto di vista del privilegiato che si concede una caduta:

Come raccontare quel che mi tocca raccontare adesso? È un’esperienza che non si può raccontare. Mancano le parole. Se uno non l’ha vissuta non ne ha la più pallida idea — e io non l’ho vissuta. A parte Eduard, conosco una sola persona che l’abbia vissuta. È il mio migliore amico, Hervé Clerc, il quale ne ha parlato in un libro che è anche un saggio sul buddhismo e s’intitola Les Choses comme elles sont. Preferisco le sue parole a quelle di Eduard, ma a me tocca raccontare l’esperienza di Eduard. Ci provo.

Il momento è questo: Eduard, nel carcere di Engel’s

Sta pulendo l’acquario che si trova nell’ufficio di un ufficiale superiore. (…) controlla il proprio respiro. È calmo, concentrato, attento a ciò che fa e a ciò che sente. Non si aspetta niente di particolare. E poi, senza preavviso, tutto si ferma. Il tempo, lo spazio: eppure non è la morte. Nulla di quanto lo circonda ha mutato aspetto, né l’acquario, né i pesci nella tinozza, né l’ufficio, né il cielo oltre la finestra dell’ufficio, ma è come se tutto ciò fosse stato fino a quel momento soltanto un sogno e d’un tratto diventasse pienamente reale: elevato al quadrato, svelato e insieme annullato. Eduard viene risucchiato da un vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un’assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza. Non è più da nessuna parte ed è interamente lì. Non esiste più e non è mai stato così vivo. Non c’è più nulla, c’è tutto. La si può chiamare «trance», «estasi», «esperienza mistica». Il mio amico Hervé dice che è un rapimento.
Confrontando le loro esperienze e le loro parole, posso soltanto dire che Hervé e Eduard sanno con assoluta certezza di aver avuto accesso — il primo trent’anni fa in un appartamento parigino, il secondo mentre puliva un acquario nell’ufficio di un ufficiale nel penitenziario numero 13 di Engel’s — a ciò che i buddhisti chiamano «nirvana«».

Di fronte al nirvana io alzo le mani.

Limonov, esempio massimo e realizzato di quell’epica di vite che sono la nostra, è il libro più sporco, più complesso e più bello dell’anno, perché scrollandole violentemente esalta le nostre contraddizioni, e avvicinandoci e allontanandoci da una tra le vite più disperate di sempre ci fa innamorare di ciò che è umano.


«Panorama», 31.12.2012

Eduard Limonow

Original:

Daniela Ranieri

Vite che sono la nostra: Limonov

// «Panorama» (it),
31.12.2012