Limonov, furore russo
Il romanzo di Emmanuel Carrère sul controverso scrittore-politico.
Nei libri che hanno per scenario la Russia, la Russia è anche protagonista assoluta. Così in Tolstoj, Cechov, Pasternak, tutti. La Russia — l’animo russo — è imprescindibile anche in Limonov (Adelphi), romanzo-non romanzo di Emmanuel Carrère, scrittore di grande talento, uscito l’anno scorso in Francia e ora anche da noi. Carrère ci guida come sussurandoci all’orecchio le incredibili vicissitudini di Eduard Limonov, persona reale: se sia un pazzo dal volto umano o un uomo normale dal volto disumano è difficile dire. Se si tratta di un pazzo è un pazzo lucido, alla Genet; certo è che è stato scrittore geniale (a quanto ci dice Carrère), avido di vita e di morte insieme, ebbro di quella follia tipicamente russa fatta di odio per il presente, rimpianto del passato, allucinata aspirazione al futuro, la follia di Raskolnikov, di Dimitrj Karamazov, di Stavrogin, ma più «storica», più «politica», se così si può dire.
Le avventure di Limonov («questo Barry Lindon sovietico») sgorgano da quell’immensa Gomorra sovietica dell’età staliniana e poi brezneviana fino alla dissoluzione dell’Urss, una realtà fatta di sporcizia — materiale e morale — ma allestita in un ordine seppure dissoluto e malato, in una specie di assurda armonia della catastrofe umana, senza spazio per la libertà, l’umanità.
Il protagonista, l’ucraino Eduard Savenko, (sceglierà più avanti lo pseudonimo di Limonov) è al tempo stesso schifato da quella torbida e vacua esistenza ma anche attaccato ad essa come uno squallido rampicante che alligni su un muro scrostato, cresce da teppista in un povero quartiere di Charcov, sente salire dentro di sé un’irrefrenabile spinta a diventare «grande»: impulsi vitalistici che nell’Europa occidentale si conobbero durante e dopo la Prima guerra mondiale, il culto della guerra, il disprezzo della borghesia e del suo ordine costituito, la violenza. Era «ossessionato dal mito della virilità e il suo eroe era il Che», annota Luciana Castellina in un delizioso volumetto uscito da poco (Siberiana, Nottetempo), la decrizione di un lungo viaggio in treno da Mosca al Pacifico ai giorni nostri.
Ma riprendiamo: ecco che Limonov coltiva la sua inclinazione artistica — non disgiunta da sentimenti ostili al genere umano — e finisce fra gli underground russi, poi emigra a New York, dove quelle pulsioni si mescolano a tentazioni di varia natura, ivi comprese la scoperta di esperienze sessuali le più diverse, sempre col dato costante della povertà, della frustrazione e della speculare ansia di incarnare il mito del superuomo. Conosce il successo a Parigi, bohémien di serie B ma pur sempre bohémien.
Ci sono varie storie, anche d’amore, sempre sull’orlo della follia, orlo che viene puntualmente valicato. È una parte forte del libro. Fra Manhattan e il Marais scrive, Limonov, e conosce gente, homeless neri, miliardari mezzi matti, punk emigrati russi, poetastri parigini.
E pensa, anzi, rimugina, si rode su quello che è e quello che potrebbe essere: diverso da tutti gli altri, più meritevole di gloria, più grande. Odia chi ha successo più di lui, fiuta le nefandezze di un’epoca di trapasso fra il vecchio mondo che muore e il nuovo che stenta a nascere, crede di scorgere il destino, suo e della Storia, nelle guerre civili della ex Jugoslavia — va volontario in Kraina, altrove: altri orrori — poi ancora nell’Urss morente e violenta e in quella lontanissima del deserto asiatico dove conosce una personale ascesi.
Qui la parentesi va aperta a favore di Carrère (di cui forse è criticabile l’eccessivo parlare di sé), che è un ottimo conoscitore delle vicende sovietico-russe (fra l’altro è figlio di una delle maggiori sovietologhe europee, Heléne Carrère d’Encausse), capace di far scorrere il nastro di quel lustro cruciale — dalla caduta del Muro alla presa del potere di Eltsin — in cui un Gorbaciov che qui diventa piccolo piccolo sorge e soprattutto cade davanti a un compito immane e anzi impossibile, realizzare la democrazia dentro un perimetro autoritario. Cadono con Gorby le speranze riformistiche, e perestroika e glasnost ci appaiono, a distanza di anni, parole morte, e soprattutto ci è più chiaro di come i russi odiassero tutto ciò che turbava il flusso lentissimo della propria millenaria vicenda.
Tornato in Russia, Limonov pensa che il grande momento di fare la Storia, cioè la storia russa, sia arrivato, il miraggio del Potere lo prende al cuore, fonda un inverosimile partito nazionalbolscevico che non ha fortuna e che forse da qualche parte esiste ancora... Sono gli anni di Eltsin, e poi di quel Putin («da giovane era un teppistello come lui»), autoritario come uno zar, cinico come Stalin: ed ecco Limonov mettersi contro Vladimir, finire accanto al gruppo (Altra Russia) dell’ex campione di scacchi e oppositore «liberale» Kasparov, un’altra avventura mancata, e poi il terribile esilio a cui è costretto, le fascinazioni mistiche, infine i nuovi gulag putiniani, il ritorno alla libertà, e con tutti gli onori. E chissà se Limonov non avrà ancora qualche pagina da scrivere. Probabilmente no: la storia abita altrove e il tempo non è dalla sua parte.
«Europaquotidiano.it», 7 novembre 2012