«Comprate solo merci russe, stranieri toglietevi di torno, la Russia ai russi». Con questi slogan alcuni gruppi nazionalisti russi, capitanati dallo scrittore Eduard Limonov, leader del Partito nazional-bolscevico, hanno lanciato la campagna di boicottaggio dei prodotti occidentali che ha come obiettivo la rivitalizzazione, sia dell'industria nazionale sia della spiritualità slava che si teme contaminata da chewing-gum, hamburger e coca cola.
Il Partito nazional-bolscevico ha fatto affiggere manifesti a Mosca e in alcune altre città russe che invitano la mamma a dare un ceffone al piccolino che pretende la merendina americana e i cittadini a consumare solo i prodotti locali.
Due giorni fa alcune decine di nazionalisti si sono riuniti a Mosca, nei pressi del memoriale della vittoria: hanno organizzato un comizio contro la presenza degli stranieri in Russia. In un paese che da anni assiste al crollo verticale della produzione e Con i negozi statali sempre meno fomiti di merci russe, la campagna di boicottaggio ha risvolti grotteschi.
Un nuovo caffè cooperativo gestito da un certo Fedorov è stato aperto a Mosca, in via Kropotkin, inaugurando l'era di una nuova NEP. L'avvento dell'altra NEP era stato salutato nel gennaio 1922 sulla «Pravda» da una quarantina di Velemir Chlebnikov.
È senza secondi fini
Che abbiamo sparso il sangue dei Bianchi
Non è stato per rifilare
Delle perle ai mercanti.
Eccoci così al tempo di una nuova NEP. Di nuovo, e questa volta forse per sempre, si presenta la possibilità di ravvivare di perle i polsi dei mercanti o i colli delle loro spose. La signora Fedorov e le mogli degli altri sette comproprietari si orneranno presto di perle.
La mia appartenenza alla classe degli «Intellos» mi spinge a rallegrarmi del successo dei Fedorov e delle loro consorti, ma il mio cuore di proletario, quale sono stato per vent'anni, mi suggerisce un'obiezione: sotto qualsiasi regime, l'operaio sgobberà le sue otto ore. La mia coscienza di scrittore mi fa tristemente e crudelmente constatare che il periodo stalin-satanista resta di gran lunga il più eccitante. Quali temi per uno scrittore, quali tragedie! Il periodo stomacale in cui l'Urss sta entrando non fornirà che dei Fedorov come personaggi, caffè, cucina e macchinette calcolatrici.
Lontano da via Kropotkin, dall'altra parte del pianeta, a Los Angeles e a New York, ho potuto osservare come gli ex cittadini sovietici realizzino il proprio sogno americano. Nel 1977 è stato aperto sulla Prima Avenue il ristorante «La Marguerite», a due passi dal «Kiev», nella Sesta Strada di New York. Il proprietario della «Marguerite» era il vecchio procuratore della città di Černovici in Ucraina. È fallito. Il «Kiev», invece, ha saputo approfittare della moda che ha reso l'East Village un «must», ed è adesso uno dei luoghi obbligatori per la «post-punk generation». Quando le discoteche chiudono (molte di esse appartengono ad ex sovietici), verso le 4 del mattino, è molto bon ton cenare al «Kiev», con vodka e cotolette alla Kiev. Evidentemente, gli ex sovietici sanno sondare gli affari. Se a Gorbaciov verrà risparmiata la sorte di Kennedy, Mosca somiglierà ben presto a Brooklyn, New York o Los Angeles, droga compresa.
Un vecchio amico mi ha scritto da Mosca che il mercato nero del libro, che un tempo paralizzava la circolazione attorno al Teatro dell'Arte, è deserto. I russi si disinteressano ai libri, anche a quelli che arrivano dall'Occidente. All'uscita del film «Il mio amico Ivan Lapšin» la gente ha sospirato, nostalgicamente: come sembra lontano l'idealismo degli anni trenta, col loro stalinismo, la loro miseria per tutti e l'esaltazione del socialismo da edificare.
A Leningrado la tomba di una santa locale, Xenia di Pietroburgo, attira migliaia di pellegrini. La fede nel «radioso avvenire» del comunismo è morta, e la gente cerca dei sostituti. Il consumismo che avanza non copre gli interessi di tutti. Le folle assediano i monasteri buddisti di Buriatie, nella Siberia orientale. I doganieri hanno arrestato un gruppo di buddisti neofiti venuti da Riga, sul Baltico, che si apprestavano a violare la frontiera con la Mongolia. Destinazione: il deserto del Gobi, culla del buddismo più autentico.
Poeta pigro e disoccupato volontario, in tutta la mia vita a Mosca io non ho mai fatto la fame. In tutti i chioschi di vetro si poteva comprare per tre una porzione di ravioli russi. Mai ho fatto la coda, per indolenza. L'Occidente è ghiotto di favole sulle carestie sovietiche, ma la Russia non è l'Africa. Ho davanti a me la fotografia del Caffè Fedorov trasmessa dall'agenzia TASS. Vi si vedono signore dai faccioni rubicondi, con colbacchi di pelliccia, sedute ai tavolini. Altri posti «in» si preparano ad accoglierle.
L'Urss è la figliola prodiga del Capitale. Dopo un viaggio durato 70 anni, eccola bussare alla porta della casa paterna. Il papà si alza dal tavolo, il tovagliolo in mano, pronto ad abbracciarla e stringersela contro la trippa. «Benvenuta a casa, figlia mia». Cosa diventano in questa storia i morti, rossi e bianchi, della guerra civile? Per nulla, e «senza secondi fini» il loro sangue è stato sparso.
Dopo il riflusso della rivoluzione del 1905, è venuto il turno di godimento, come ha scritto Saša Černy:
Amico, terminata la battaglia
si dà inizio alle bisboccia.
Scrittore irregolare, nazionalista radicale e nostalgico del regime. Disprezza i borghesi in rivolta, ma finisce regolarmente in carcere. Un libro di Carrère lo ha reso famoso. Siamo andati a vederlo da vicino.
Ma con chi stiamo parlando? Che tipo è quest'omino piccolo e magro con la barbetta alla Trotskij che continua a fissare il pavimento di linoleum e le verdastre pareti spoglie di una casa di periferia? Leggendo la storia della sua vita, ricostruita con qualche pennellata romanzesca da Emmanuel Carrère («Limonov», Adelphi), ci aspettavamo un eroe romantico e contraddittorio, una canaglia sfrontata e senza limitazioni piccolo borghesi, uno scrittore maledetto, un po' sognatore rivoluzionario e un po' fanatico nazi fascista. Ed Eduard Limonov deve essere più o meno fatto veramente così. Solo che non si vede. Sarebbe troppo facile. Stupire, spiazzare gli interlocutori, è la prima regola per un personaggio del suo stampo. Per questo si diverte a offrirci una versione dimessa ed eccessivamente senile per i suoi 69 anni. Guarda compiaciuto il libro fresco di stampa con l'aria finto umile del vecchietto che non credeva di meritare tanta notorietà. E ci concede perfino un banale sguardo nostalgico dei bei tempi andati tastando affettuosamente la copertina che lo ritrae giovane e spudorato da qualche parte degli Stati Uniti anni Settanta con un cappotto tutto alamari e spalline dell'Armata Rossa che fu.
«Certo che diventare un mito dà un certo piacere. Ma un libro è un libro. C'è del vero e c'è del falso. Lasciamo perdere i dettagli».
Avvertimento preciso. In questa chiacchierata non si parlerà di sesso. Nessun commento sugli episodi più scabrosi: lui che sodomizza la sua donna davanti alla tv che trasmette un discorso di Solgenitsyn; il suo concedersi a un giovane nero dietro a un cespuglio di Central Park; le sue avventure con partner di ogni genere e sesso; le sei mogli amate e perdute nel tempo, compresa la tenera sedicenne sposata quando lui aveva già superato i 55.
«Perché contraddire o fare precisazioni su Carrère? Mi ha reso famoso. Va bene così».
Tutto bene tranne una cosa. La definizione che di Limonov ha dato lo scrittore francese: «Un genio con una vita di merda».
«Vita di merda lo dice lui. Io sono felice di quello che ho visto e che ho fatto. Quando sono nato, in un paesino sovietico di poveri operai ucraini, non avevo alcuna chance. Sarei morto di vodka e disperazione lavorando in qualche fabbrica».
E invece, una lunga cavalcata sempre controcorrente. I circoli letterari di Mosca, i primi romanzi, la fuga in America e la scoperta che quello non era proprio un mondo ideale.
«Mai avuta tanta simpatia per l'America e per il suo stile di vita. Avessi potuto scegliere sarei andato in Italia, o comunque in Europa. Anche in America mi ritrovai a contestare il sistema. D'altra parte i miei riferimenti, i miei amici, erano tutti legati alla sinistra europea. Che allora era più anti americana dell'Urss».
E insieme alla insofferenza per il capitalismo americano venne fuori l'avversione per una vasta categoria di dissidenti sovietici che lì avevano trovato denaro e successo.
«Ho parlato spesso molto male di Brodskij. Ho i miei motivi. È stato un buon poeta, ma sopravvalutato. La sua fama mondiale non è dovuta al suo talento ma alle sue capacità imprenditoriali».
Lei invece?
«Non riuscii a pubblicare neanche una mia opera. Non ero bravo come Brodskij a lavorarmi editori e mass media».
Se è per questo ha parlato malissimo anche dell'altra icona dei dissidenti dell'epoca, come Aleksandr Solgenitsyn.
«Sì, è vero. In quegli anni non potevo soffrire i dissidenti di mestiere come Solgenitsyn e Andrej Sakharov. Li consideravo falsi, costruiti. Adesso però riconosco la loro grandezza».
Limonov pentito?
«Non esageriamo. Ammetto che la loro influenza è stata utile. E mi fanno pena per quello che hanno lasciato. Solo macerie. Solgenitsyn, che vagheggiava l'unione panslava di Russia, Ucraina e Bielorussia, ha visto morire i suoi sogni già nel '91. Mi mette tristezza pensare ad un uomo che vede crollare in diretta il suo sogno filosofico».
E Sakharov?
«Lui almeno non ha potuto vedere come è finita la sua coraggiosa battaglia. Non saprà mai di aver contribuito a fare arricchire i nuovi ladruncoli democratici».
Giudizi duri e sprezzanti anche su altri scrittori molto amati in Occidente e adesso mitizzati anche i Russia. Non ci sarà un po' di invidia? Per la prima volta Limonov sembra arrabbiarsi: «Ma figuratevi se invidio gente come Bulgakov, per esempio. «Il Maestro e Margherita» è un'operina banale infarcita di intellettualismi da quattro soldi. Ma il suo capolavoro è «Cuore di cane», zeppo di ripugnante razzismo sociale e di un disgustoso disprezzo per la classe operaia». E non è finita: «Vogliamo parlare di Venedikt Erofeev e del suo «Mosca-Petuski»? Una robetta presuntosa senza alcun valore letterario».
Ecco che piano piano affiora il Limonov che ci aspettavamo. L'uomo che ha smesso di scrivere romanzi dopo i successi del periodo francese e che si è dedicato alla sua guerra personale contro Putin tra le fila di un neo partito bolscevico. Ma che vuol dire bolscevico nella Russia del 2012? Nostalgia di un passato dimenticato?
«In un certo senso sì. Molte cose andavano cambiate, adeguate ai tempi. Ma la distruzione di tutto è stato un errore gravissimo. Un disastro. Per questo non perdonerò mai Gorbaciov e Eltsin».
Gorbaciov in particolare.
«Per lui ci vorrebbe la ghigliottina, lo scriva. Voi occidentali continuate a considerarlo un eroe. Ma qui in Russia non lo sopporta nessuno. Vi siete mai chiesti il perché?»
In effetti sì, ma non ci sono molte risposte ragionevoli.
«Perché ha smantellato il Patto di Varsavia, ci ha fatto perdere tutto quello che controllavamo. Ha fatto riunire la Germania devastando ogni equilibrio in Europa».
E la teoria di Limonov diventa elementare e diretta:
«La Germania Unita ha per esempio fomentato la guerra in Jugoslavia. Le migliaia di vite perdute nella guerra dei Balcani sono tutte a carico del signor Gorbaciov».
Possibile che Gorbaciov sia un suo nemico più di Putin stesso?
«Certo che sì. Su Putin ho un atteggiamento freddo. Ci ha tolto la libertà, è vero. E lo combatto per questo. Ma con lui almeno si sopravvive. Negli anni del caos di Eltsin, invece si faceva fatica pure a trovare il pane».
Dunque Putin meglio di Eltsin.
«Diciamo che la priorità è il pane. Poi viene la libertà. Dunque prima ero contro Eltsin e adesso contro Putin per motivi diversi».
Ma come fa a proporre ancora un modello bolscevico?
«Il partito bolscevico nacque in Germania prima della Rivoluzione. È a quello che mi ispiro. Diciamo che è una via di mezzo tra libertà individuale e giustizia sociale».
Intanto, così per restare controcorrente, il suo manipolo di fedelissimi diserta le grandi manifestazioni e preferisce protestare in disparte. Lui viene arrestato quasi ogni volta. Sconta una settimana o due di carcere. Poi torna fuori.
«Non mi fido dei giovanotti piccolo borghesi che protestano adesso. Sono confusi, velleitari, e sono manipolati da vecchi politicanti come Nemtsov che fanno il gioco del Cremlino. Tra un po' la moda passerà e io e i miei bolscevichi resteremo da soli contro questo regime».
Ma non sarà un po' geloso della popolarità di scrittori come Boris Akunin e Ljudmjla Ulitskaja che contestano in piazza mentre i suoi romanzi in Russia li leggono in pochi?
«Akunin è uno scrittore? Mi giunge nuovo. È un compilatore di gialli dozzinali che ha fatto i soldi e ora cerca altra notorietà. Ha venduto moltissimo da quando voi lo intervistate in piazza. La Ulitskaja poi, una romanziera mediocre che si ostina in un genere letterario ormai superato».
Cioè?
«Il romanzo, appunto. È nato nell'Ottocento, ma adesso non vale più niente. È una forma plebea di letteratura. E lo dico io che ne ho scritto 25 di buon livello. Adesso ho smesso. Mi dedico ai saggi. I romanzi sono ormai roba per adolescenti ignoranti».
E cosa dovrebbe scrivere uno scrittore moderno?
«La verità nuda e cruda. L'altro giorno rileggevo i verbali delle testimonianze nei miei confronti in uno dei tanti processi contro di me. C'erano le voci di decine di personaggi reali. Una densità drammatica che nemmeno Shakespeare sarebbe riuscito a realizzare. E comunque io non mi considero nemmeno uno scrittore».
Altro colpo di scena, come dobbiamo definirla allora?
«Un intellettuale. Che è ben diverso da essere un membro della intelligentsja. Di quelli ce ne sono tanti, in tutte le epoche. Si limitano a propagandare quello che gli intellettuali veri hanno elaborato almeno vent'anni prima».
E lei che cosa ha elaborato per le generazioni future? Ghigno soddisfatto, gesto teatrale del braccio, voce in leggero falsetto con un pizzico di autoronia:
«Rilegga con attenzione il libro di Carrère, qualcosa troverà».
Devi leggerti «Limonov», secondo me ti piace. Leggiti «Limonov» (con lo stesso tono di leggiti i libri di Philip Roth: arrogante e malizioso). Ciononostante, l'ho letto.
Ma questo è un libro miracoloso, una catastrofe nel mondo della letteratura. Carrére ha scritto libri più perfetti, in cui ogni pagina era come un monolite cesellato, in cui le parole erano eleganti e potenti, e danzavano in quella sterminata zona di nulla che sta tra significante e significato: erano capolavori del simbolo, come anelito di una parola, del suo scheletro visibile, al suo senso più lontano. «Limonov» non è così.
Le sue pagine sono sporche, stilisticamente aspre; il suo lirismo emana da un'architettura invisibile, fatta dai gesti e dalle parole di questo personaggio odioso, attraente e disperato che è Eduard Limonov.
Ma quindi «Limonov» è la storia di un personaggio negativo che poi diventa positivo? (Mi è toccato di leggere e sentire anche una cosa del genere). No. È tutto più complicato, è tutto più letterario nel senso nobile, e non in quello editoriale.
Come i libri stellari, quelli le cui punte, o chiome, sfiorano quelle di altri, e travalicano i confini delle costellazioni e invertono il tempo, il libro di Carrére rimanda ad altri libri, a vite limitrofe e ad opere parallele che si stavano scrivendo, dentro le quali ci sono personaggi che ricorrono, nelle loro forme reali o immaginate, nella vita e nel pensiero di Limonov stesso. È un'opera che realizza quel sogno plutarchiano di far combaciare le storie delle persone con i lembi della storia: basta sollevarne uno per intravedere, sotto, un tessuto complicato che ci riguarda, se non altro perché il passato appartiene a tutti, come le opere d'arte.
Eduard Veniaminovič Savenko, in arte Limonov («granata»), è una carogna, un perdente, un ladro, uno che non ha voglia di lavorare. Ambiziosissimo, è affascinato dalla ricchezza, non come veicolo del potere, ma come alveo della possibilità. Figlio di un cekista, cioè un ufficiale della polizia più spietata della storia, che invece di far rigare dritto i delinquenti come immaginava Eduard da piccolo fa salire sui treni gente da spedire in Siberia, matura negli anni l'odio e il desiderio di vendetta verso le ingiustizie di cui sono oggetto i poveri, gli zeri.
Non farò un riassunto di questa biblica biografia: sta tutto lì e ridurre una riduzione è impresa inutile e sciocca.
Ne fossi capace, costruirei una specie di schema o di diagramma del sentimento suscitato(mi) dalla lettura delle pagine, dei capitoli. Limonov è una bestia che chiede amore. È un violento che mette i voti alle donne, ma un abbandono lo prostra ai limiti dell'umano. È un aspirante criminale che si avvicina ai dissidenti russi e comincia a frequentarli continuando ad odiarli. È uno stalinista, che nega la realtà dei gulag (e odia quindi Solženicyn), ma (è questa la cosa incredibile) lo fa senza cinismo. Allora, ti dici, è uno stupido, un idiota. Che non lo sia, se non in quel famoso senso eroico-epilettico che in Russia tutti conoscono, è dimostrato pagina dopo pagina. Tramortito da continue maratone di ubriacature, in russo zapoj, che lo lasciano incosciente per giorni, scrive la furente storia della sua vita, e cerca di piazzarla.
Quando va a New York la porta a Brodskij, che già odia in quanto dissidente di lusso e che diventa una specie di diavolo rosso di capelli e sbiadito di passione, e qui davvero, in questo confronto tra primo e ultimo, tra poeta laureato e fallita canaglia, Carrère dimostra di essere un Omero contemporaneo. Limonov è un eroe dumasiano fissato dal riscatto degli ultimi, ma nel suo voler ristabilire l'ordine e la verità è piuttosto amletico.
Folle, slegato dalla realtà, tramortito da sedute di masturbazione o taglio delle vene come fossero la stessa cosa, attraverso una Russia insanguinata e svuotata e dentro il Nuovo Mondo altrettanto falso e crudele, Limonov è un essere profondamente morale. Sembra il protagonista de «Le Benevole» dentro un romanzo di Philip Dick: io sono vivo, e voi siete morti. Nelle avversioni che costruisco, tesso la mappa delle mie e delle vostre predilezioni.
Quello che vuole fare è slargare l'esperienza nell'intensità. Sono le dissonanze del mondo, che lui nota e per cui soffre, a rivelarlo: i sanitari del carcere di massima sicurezza sul Volga nel quale verrà rinchiuso per terrorismo sono uguali a quelli dell'albergo chic arredato da Philippe Starck dove aveva soggiornato a spese del suo editore newyorkese.
In merito alla sua esperienza nella ex Jugoslavia, dove ha combattutto accanto ai serbi (se volete fare un po' di ginnastica cerebrale questa è la parte che fa per voi) Carrére dice:
«Credo che nella sua filosofia uccidere un uomo in un corpo a corpo sia come farsi inculare: qualcosa che almeno una volta nella vita devi provare».
Come vita parallela della nostra storia post-bellica, questa biografia è la storia della Russia che si allarga sul mondo come il sangue da una ferita alla testa, rispetto a cui l'ago di Limonov ci orienta e disorienta in continuazione. Necessita di una attitudine atletica alla lettura: sto coi serbi, no: sto coi croati, no sto coi ceceni, anzi sto con gli stalinisti della prima ora, coi trotskisti, coi vecchi russi che finiscono sotto i ponti dopo la Perestrojka, coi poveri cristi che si mettono a fare i tassisti, poveracci, vero?
Poi leggi che questa è esattamente la storia di Putin, ex tassista in cerca di riscatto; e leggi che Limonov la pensava (la pensa) esattamente come Anna Politkovskaja (la giornalista uccisa nel 2006 sulle scale di casa) in merito all'impostura di Putin sugli attentati ceceni, e anzi che il direttore dell'edizione di Novgorod della «Novaja Gazeta», organo dei diritti civili e democratici, si è iscritto al partito dei nazbol (nazionalbolscevichi) fondato da Limonov, una specie di setta che si riunisce in una cantina foderata di poster di Bruce Lee, Stalin, Fantomas e i Velvet Underground, e il cui simbolo è una falce e martello in campo bianco-nero come una svastica. E che per i nazbol, insieme a Limonov, si è candidato Kasparov, il genio degli scacchi. E che Politkovskaja aveva seguito il processo intentato a 39 nazbol difendendoli a spada tratta.
All'interno dei limiti sempre infranti stabiliti dalla ribellione di questo ultimo, marginale eroe, ci ribelliamo al quadrato, al cubo. Il dubbio che Carrére, borghese ricco, colto, ipercivilizzato, sia sia voluto divertire con questo fallito e miserabile che si fa inculare dai negri a Central Park c'è e rimane. Specie in un passaggio in cui riferisce qualcosa di incredibile che nell'economia della tragedia di Limonov è perfettamente coerente, ma rispetto al quale Carrére si mostra ambiguamente credulo, cioè assume — ma forse sono io troppo severa — il punto di vista del privilegiato che si concede una caduta:
Come raccontare quel che mi tocca raccontare adesso? È un'esperienza che non si può raccontare. Mancano le parole. Se uno non l'ha vissuta non ne ha la più pallida idea — e io non l'ho vissuta. A parte Eduard, conosco una sola persona che l'abbia vissuta. È il mio migliore amico, Hervé Clerc, il quale ne ha parlato in un libro che è anche un saggio sul buddhismo e s'intitola «Les Choses comme elles sont». Preferisco le sue parole a quelle di Eduard, ma a me tocca raccontare l'esperienza di Eduard. Ci provo.
Il momento è questo: Eduard, nel carcere di Engel's
Sta pulendo l'acquario che si trova nell'ufficio di un ufficiale superiore. 〈…〉 controlla il proprio respiro. È calmo, concentrato, attento a ciò che fa e a ciò che sente. Non si aspetta niente di particolare. E poi, senza preavviso, tutto si ferma. Il tempo, lo spazio: eppure non è la morte. Nulla di quanto lo circonda ha mutato aspetto, né l'acquario, né i pesci nella tinozza, né l'ufficio, né il cielo oltre la finestra dell'ufficio, ma è come se tutto ciò fosse stato fino a quel momento soltanto un sogno e d'un tratto diventasse pienamente reale: elevato al quadrato, svelato e insieme annullato. Eduard viene risucchiato da un vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un'assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza. Non è più da nessuna parte ed è interamente lì. Non esiste più e non è mai stato così vivo. Non c'è più nulla, c'è tutto. La si può chiamare «trance», «estasi», «esperienza mistica». Il mio amico Hervé dice che è un rapimento.
Confrontando le loro esperienze e le loro parole, posso soltanto dire che Hervé e Eduard sanno con assoluta certezza di aver avuto accesso — il primo trent'anni fa in un appartamento parigino, il secondo mentre puliva un acquario nell'ufficio di un ufficiale nel penitenziario numero 13 di Engel's — a ciò che i buddhisti chiamano «nirvana»».
Di fronte al nirvana io alzo le mani.
«Limonov», esempio massimo e realizzato di quell'epica di vite che sono la nostra, è il libro più sporco, più complesso e più bello dell'anno, perché scrollandole violentemente esalta le nostre contraddizioni, e avvicinandoci e allontanandoci da una tra le vite più disperate di sempre ci fa innamorare di ciò che è umano.
Eduard Limonov si è spento all'età di 77 anni il 17 marzo 2020, in seguito alle complicanze di un'operazione. Noi di East Journal lo ricordiamo così, con un coccodrillo scritto prima del tempo.
Il compagno Limonov è morto! In una gelida mattina di gennaio sotto ad un cielo cristallino moscovita il corpo del grande patriota è stato trovato in un vicolo di Solntsevo crivellato da proiettili calibro 6,35mm, il giusto mix tra potenza e precisione, perfetti per un lavoro fatto bene e con stile.
Gli inquirenti nutrono stretto riserbo sulle cause che hanno portato alla morte del camerata Limonov, tentando di accreditare la versione che «Lymonka» (lo stesso nome della rivista di opposizione da lui fondata nel 1991 al ritorno in Russia dalla Francia) sia stato vittima di un regolamento di conti all'interno del milieu criminale moscovita, sfruttando la biografia non certo immacolata del più grande scrittore russo vivente, ora non più. Cresciuto in Ucraina come un teppista il defunto compagno ha trovato la sua via di realizzazione nella scrittura (si legga «Eddy-baby ti amo») ma senza dimenticare il lato oscuro della società, con spirito proletario e rivoluzionario.
Tuttavia le persone più vicine a Limonov mettono l'omicidio in relazione alla sua attività politica. Limonov fondatore al rientro in Russia (dalla quale mancava dal 1974) del Partito Nazional Bolscevico è stato un feroce avversario di Vladimir Putin, nonchè leader del gruppo di opposizione «L'Altra Russia». Emigrato, con passaporto israeliano, prima in America e poi in Francia, Eduard ha conosciuto la miseria e condiviso la voglia di riscatto delle classi più umili e misere (per il periodo americano si veda il «Diario di un fallito»). Scrittore da sempre politicamente impegnato, Limonov è stato attivamente presente anche in campo internazionale, in particolare nelle guerre della ex Jugoslavia e nel Caucaso (esperienze descritte nel Libro dell'acqua).
L'ultimo arresto prima della morte risale al 31 dicembre 2012, in occasione della ricorrente manifestazione di protesta che il 31 di ogni mese denunciava la mancata applicazione dell'art. 31 della Costituzione russa, ossia il diritto di riunione; il rilascio venne dopo qualche giorno. Da sempre contro, Limonov è stato perseguitato sia dal KGB che dalla CIA e non apprezzato dalla cultura borghese occidentale (in America i suoi libri vennero costantemente rifiutati) come da quella comunista (riteneva la differenza tra Russia ed America non essere che nella maggior modernità del sistema repressivo americano). Egli è erede di quella figura di intellettuale scomodo, avverso al potere costituito. Politicamente eterodosso, Limonov dapprima alleato con Vladimir Zhirinovsky ruppe poi con questi accusandolo di essere un moderato.
Limonov non è mai stato un moderato, nè come scrittore nè come politico, ed il suo ruolo di intellettuale scomodo glielo avrebbe comunque impedito. Figlio della cultura sovietica e della ribellione punk, (sotto)cultura che conobbe a Karkov e che lo permeò sempre, Eduard ha avuto come missione quella di épater le bourgeois e anche sè stesso, sfidando la vita sui campi di battaglia e nelle strade più infime senza arrendersi al suo destino di intellettuale borghese. Al suo funerale un'umanità varia ed incredula: prostitute cecene piangevano abbracciate a ballerine francesi, giovani punk russi scolavano bottiglie offerte da mercenari della Transnistria. La vita si stringeva intorno alla morte, quella di un uomo che ha vissuto, intensamente vissuto… Ma ormai il sipario è calato e Mosca piange uno dei suoi figli migliori.
Non sono in realtà sicuro Limonov sia morto davvero, il mio informatore e' un dannato circasso ubriacone, ma sono convinto che a lui piacerebbe questo pezzo se mai lo dovesse leggere. Lunga vita a Limonov! Lunga vita alla rivoluzione!
Il regista del fenomeno televisivo In treatment ha un progetto ancora più forte: portare sullo schermo la vita dell'attivista russo celebrato dal libro-caso di Carrère.
È stretto fra due uomini Saverio Costanzo. Tre se si considera il padre (Maurizio), troppo noto per non essere ingombrante per il figlio artista, regista di talento. Il primo uomo è un cinquantenne in piena crisi di mezza età, alle prese con le fila della vita che d'improvviso si ingarbugliano: Giovanni Mari fatica a rapportarsi con la figlia, si è allontanato dalla moglie, non è sicuro di rispondere alle aspettative dei suoi pazienti, sente pulsioni destabilizzanti e le riconosce subito perché di lavoro fa lo psicoanalista. È il protagonista di In treatment, serie raffinata ideata in Israele, diventata caso in America (con Gabriel Byrne nel ruolo principale) ed esplosa in Italia generando un terremoto nel genere, con gruppi d'ascolto, interventi, Twitter, febbre collettiva (la manda in onda Sky Cinema). L'altro uomo è un gigante del bene e del male, Eduard Limonov, il mondo lo conosce per prodezze e nefandezze arrivate in prima pagina, e se ne è innamorato perché uno scrittore giornalista di fascinazione certa, Emmanuel Carrère, ne ha raccontato la vita da romanzo facendone un bestseller internazionale, Limonov. Di In treatment Saverio Costanzo è stato regista, di Limonov lo sarà, avendo i diritti del libro, pubblicato in Italia dalla Adelphi.
— Perché «In treatment» ha rotto il muro del suono di critica e pubblico?
— Ha un prologo, un primo, secondo, terzo atto e un epilogo. Ha cioè una scrittura drammaturgica classica. E ci sono snodi narrativi, e un racconto dei personaggi sublime. Difficile perdere l'attenzione o non identificarsi con uno dei pazienti.
— Il successo non dipende dalla fame disperata di perché e di profondità?
— Raramente si ragiona sui sentimenti, le contraddizioni, le pulsioni. In treatment si fa ascoltare molto bene. È una tv viva.
— La psicoanalisi lo è, o è morta, come alcuni sostengono?
— Se uno se la può permettere, è un modo per imparare cose di te sommerse. Il famoso inconscio è una grandezza incredibile.
— «In treatment» è stato ospite pochi giorni fa a Tavolara a «Una notte in Italia», rassegna di cinema. Una promozione?
— Ha un impianto teatrale e il cinema interviene col suo linguaggio di campi e controcampi. Però è anche pura televisione, perché sembra che la seduta accada nel momento in cui stai guardando, e nello stesso tempo è pura finzione. C'è il sublime della tv che è racconto della realtà e il sublime del cinema che è finzione assoluta.
— L'ha definito «prodotto estremo». Perché?
— Si parla solo.
— State lavorando alla seconda serie? Sarà anche questa sulla falsariga di quella americana?
— Non so ancora bene i tempi, quello che è certo è che c'è stata una «italianizzazione» nella prima e ci sarà in futuro. Israele, America, Italia non sono paesi molto diversi, sono società occidentali. E la psicoanalisi è radicata nell'Occidente.
— Quando scrive?
— Non ho metodo, posso scrivere una sceneggiatura in una settimana come in due anni. Devo sentire la necessità. Le mie giornate si muovono intorno ai miei figli, 4 e 6 anni. Senza sforzo. Io sono molto papà.
— Il suo invece disse: «Hanno sbagliato sala», quando sua sorella gli telefonò per dirgli che il pubblico era in piedi ad applaudire «Private», il primo film… La nota ironia di Maurizio Costanzo o altro?
— Noi abbiamo una forma di rapporto strana, mi sono sentito molto poco «figlio di Costanzo». Una volta ero in banca e dietro di me qualcuno diceva: «Costanzo ha otto figli da otto mogli diverse». Mi sono voltato e stavo per dire: «Ma davvero? Gli altri sette dove sono?».
— Come è arrivato a Limonov?
— Attraverso Carrère. Un incontro forte, che mi ha colpito.
— In che senso?
— La sua è stata una vita avventurosa per liberarsi di sé. È veramente un eroe romantico negativo, positivo, tutto e niente. Per arrivare al niente riempie la vita. Io ho imparato moltissimo da lui.
— Che cosa?
— Bisogna liberarsi da ego e narcisismo.
— A che punto è della scrittura?
— Ci metterò tantissimo. Serve la forza del cinema per raccontare una vita che straborda da tutte le parti.
— Carrère le ha dato suggerimenti?
— Mi ha detto che è una storia molto semplice.
— Beh, non proprio…
— Limonov è un uomo che subisce l'ingiustizia di avere genitori anaffettivi. Tutta la sua vita è uno sforzo per mettere la divisa del padre, per onorarne l'impegno politico. E per togliersi di dosso il senso di colpa nei confronti della madre.
— Scusi, ma perché?
— Per colpa di un suo capriccio furono cacciati fuori da una cantina-rifugio durante un bombardamento in Ucraina. Non se l'è perdonato. Ha sempre avuto una tensione verso il basso e infatti il periodo più felice della sua vita è stato quello della prigionia.
— In che senso?
— Era finalmente nel luogo più basso con la divisa da carcerato. Tutto torna.
— Lo sa che questa è una lettura fortemente psicoanalitica?
— Ma è tutto psicoanalisi, anche la Bibbia lo è. Tutto viene dai genitori. La vita è un tentativo di curare le ferite di essere nati.
Lo scrittore recluta volontari e accusa Putin: leader debole, non farà nulla.
Mentre sale la tensione in Crimea e Mosca non esclude manovre militari al confine con l'Ucraina, il russo Eduard Limonov, nato a Kharkiv, recluta i seguaci a sostenere l'indipendenza di Simferopol, auspicando un effetto «a catena» in tutto l'Est ucraino: «Non staremo a guardare come uccidono i russi» dice, e sul suo blog apre le iscrizioni per la «Società dei fan del turismo in Crimea», possibilmente con esperienza militare e pronti a partire se «la stagione turistica si aprisse all'improvviso».
— Non le sembra di giocare col fuoco?
— E perché? C'è già la guerra civile laggiù! Tutte quelle persone uccise, i Berkut… Kiev è già una rovina, come nella guerra mondiale. La nostra iniziativa serve a coordinare e unire tutte le persone che vogliono aiutare la Crimea. Dobbiamo dimostrare che nessuno può imporle la propria volontà.
— In che modo? Secondo lei la Russia dovrebbe mandare I carri armati?
— Non dico che dobbiamo attaccare. Ma la Russia per me deve dichiarare il proprio sostegno alla Crimea: o inviando dei volontari, come minimo, per aiutare la popolazione russa in loco ad auto-organizzarsi. O appoggiandone, ad esempio, l'indipendenza. E come opzione massima, mandare un contingente militare.
— L'Ucraina per lei è Russia?
— No, certo, l'Ucraina non è Russia. Ma ci vivono 9 milioni di russi: sono nostri compatrioti. L'interesse della Russia è appoggiare l'Ucraina. L'Ucraina non è mai stata unita, è stato il potere sovietico a crearla e unirla, a partire dalla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina (1919, capitale Kharkov), fino al 1991. Lo Stato ucraino non è mai esistito. Ma hanno un Paese, una cultura, una lingua eccezionali. E quelli che ora distruggono le statue di Lenin, forse vogliono rifiutare anche la Crimea che gli fu regalata da Krusciov nel 1954? È una enorme contraddizione. Io vorrei che l'Ucraina si dividesse in due: l'Occidente è austro-ungarico, mentre l'Oriente da sempre è stato parte dell'Impero russo.
— Come giudica il governo attuale instaurato a Kiev?
— Rappresenta solo l'Ovest del Paese, che è arrivato tardi, per ultimo, nell'Ucraina: nel 1939 la Transcarpazia annessa dalle forze sovietiche, e poi nel 1945. Lì vigono valori diversi: c'è l'influenza del cattolicesimo, più quella austro-ungarica. La guerra dei partigiani di Bandera contro i sovietici lì è durata fin quasi agli Anni 60.
— A Mosca ora si grida ai «pogrom antirussi» puntando il dito contro il «nazionalismo» di Kiev. Ma Lvov, da sempre roccaforte europeista e pro opposizione, ieri ha dichiarato una «giornata della lingua russa» in solidarietà con l'Est del Paese, contro la decisione del parlamento di abrogare il russo come seconda lingua.
— Sono solo pubbliche relazioni. È un nazionalismo campanilista. I rappresentanti ora al potere a Kiev vengono tutti dall'Ucraina occidentale, sono nazionalisti occidentali.
— Putin tace, come mai?
— Lui cerca sempre di nascondersi. È un leader debole, ma comunque più forte di Yanukovich, che è un imbroglione. Se Putin dicesse che la Russia sostiene la Crimea, lì subito si attiverebbero. Ma non mi aspetto nulla da lui, la sua è una politica evasiva.
— E l'Europa?
— Per l'Europa è indifferente chi distrugge i Paesi. Guardi cos'è successo in Siria: lì hanno scelto gli estremisti islamici per compiere l'opera, ora in Ucraina per questo ruolo hanno preso gli estremisti-nazionalisti.
— L'Ucraina è così importante peri russi?
— Certo, e molto: quel che accade è la situazione più tragica dalla fine dell'Urss. Nel 2004 noi (oppositori russi, ndr) appoggiammo la rivoluzione arancione: perché era diversa, era pacifica e liberale. Ora invece lì non ci sono europeisti contemporanei, ma modelli di fine guerra.
— Sarebbe pronto a lottare in prima persona per i russi di Crimea, come fece quando sparò su Sarajevo al fianco dei cecchini serbi?
— Questo lo dice lei. Io posso dire solo che sono pronto ad andare in Ucraina, se sarà necessario, per aiutare il popolo.
Il confine non è sulla linea dell'appartenenza etnica ma nel giudizio sulla guerra. Nella capitale il primo confronto tra intellettuali dei 2 Paesi.
l'Ucraina. Ma oltre a questo sottopone a una prova molto seria la pace civile nel Paese e i buoni e plurisecolari rapporti fra ucraini e russi dell'Ucraina e, certo, anche quelli fra russi dell'Ucraina e russi della Russia. La guerra d'informazione contro l'Ucraina mette in crisi legami che sembravano indistruttibili e eterni. Gli ospiti che vengono dalla Russia chiedono come a Kiev ci si relazioni con i russi locali. La risposta è: «In nessun modo». A nessuno interessa se sei russo o ucraino o altro. E come ci si rapporta ai russi della Russia? Più o meno allo stesso modo. Il confine non è sulla linea dell'appartenenza etnica, ma nel giudizio sulla guerra. Con i sostenitori dell'occupazione della Crimea e delle provocazioni dei russi e dei servizi speciali nella parte orientale del Paese, i rapporti saranno cattivi indipendentemente dalla lingua.
Lo scrittore Eduard Limonov si considera un patriota russo, anche se, quando gli fa comodo, ricorda di essere etnicamente ucraino. Il patriottismo di Limonov è arcaico e si basa su uno schema semplice: la Russia deve riprendersi tutte le regioni industriali fuori dei suoi confini che, prima della dissoluzione, facevano parte delle altre repubbliche dell'ex Urss. Qualcosa bisogna togliere all'Ucraina, qualcosa al Kazakhstan. Un po' là un po' qua… Oggi Limonov afferma una visione e metodi imperiali. Il suo essere di opposizione, da molto tempo, si esprime, soltanto, in un nudo rituale. Ogni 31, cioè, più o meno, ogni due mesi, va, con altri attivisti, a protestare sulla piazza Trionfale di Mosca. Motivo della protesta è la limitazione della libertà di riunione a cui sarebbe sottoposto. Ogni due mesi Limonov riceve uno scappellotto, previsto, poco doloroso ma straordinariamente umiliante da parte dei poteri moscoviti, dopodiché, senza che sia cambiato nulla in Russia, si accinge a scrivere un articolo a sostegno dell'azione di Putin in Ucraina. Limonov, nei suoi appelli, si rivolge, di regola, ai poteri russi ma i burocrati sono sordi alla sua voce anziana e insensibili alla sua barba decorativa à la Trotskij. Limonov ormai è ascoltato solo da una ristretta cerchia di quelli che ricordano che un tempo era qualcuno. Ora è solo un interprete di seconda fila nella compagnia di canti e balli della propaganda russa.
Limonov è stato dal primo momento contro il Majdan. Invece la sinistra dei Paesi dell'ex Urss ha sostenuto le proteste ucraine dall'inizio fino alla sparatoria di febbraio contro i dimostranti. Il sangue, le vittime, la pesante violazione dell'Ucraina come Stato hanno spaventato molti, in Russia e in Bielorussia. Dopo gli eventi ucraini gli intellettuali di Minsk hanno modificato la loro opinione sul presidente Lukascenko in meglio: non spara sui manifestanti e, un po' di spazio per la cultura, si riesce sempre a trovarlo.
A Mosca si utilizzano categorie ancora meno globali. Tanto, Putin fa una politica grandiosa e lontana, che non si riuscirebbe comunque a cambiare. E i moscoviti hanno qualcosa da perdere, visti i loro redditi abbastanza elevati. Un brillante vicesindaco per la cultura, che ha la competenza su musei e giardini, ha fatto portare al parco Gor'kij mille scoiattoli siberiani. Questi scoiattoli hanno suscitato negli intellettuali moscoviti una grande impressione, infatti, in un solo giorno, tre diverse persone, che fra loro non si conoscono, me ne hanno parlato. Da internet risulta che al parco Gor'kij sono stati portati in tutto 13 scoiattoli, ma i moscoviti assicurano che i roditori aumenteranno fino a raggiungere il migliaio. I mille scoiattoli, reali o fantasiosi che siano, sembrano diventati il simbolo del progresso culturale a Mosca, dove non si spara, dove non c'è morte come a Kiev.
Ci si sarebbe aspettati che la sinistra moscovita fosse spaventata dallo scenario di Kiev, invece si può anche scegliere di stare alla finestra. Contro la guerra e, dall'inizio, a fianco delle proteste ucraine, è l'opposizione democratica russa. I numeri sono piccoli, il ruolo politico attuale insignificante, le idee non molto popolari, ma sembrano essere l'unico alleato per Kiev a Mosca.
Qualche giorno fa a Kiev si è tenuta una conferenza organizzata dal Peri Club russo e dal Fondo di Michail Chodorkovskij. Per la prima volta dopo molti anni letterati e difensori dei diritti ucraini e russi si sono messi a confronto. Non c'è stato bisogno di traduzione: tutti parlavano russo. I risultati dei due giorni di incontri sono stati prevedibili e insoliti. Gli ospiti russi erano molto guardinghi, dato lo stato di choc post-rivoluzionario e post-traumatico in cui gli ucraini si trovano ancora, dopo la strage del Majdan. E vista la guerra nell'est del Paese. Eppure, anche le affermazioni più innocenti hanno suscitato obiezioni. Inaspettata contrarietà ha suscitato negli ucraini l'affermazione di Michail Chodorkovskij secondo cui Mosca perderebbe in futuro lo status di centro d'attrazione dei popoli slavi, che tornerebbe a Kiev. Prospettiva allettante, sembrerebbe, ma gli ucraini non l'hanno accolta con gioia, rispondendo all'ex oligarca che non stanno elaborando piani geopolitici e non si preparano a diventare centro d'attrazione per altri popoli, loro vogliono una sola cosa: che l'Ucraina sia lasciata subito in pace. Da tutti senza esclusione. I russi sono tornati a casa meditabondi: l'anima ucraina si è scoperta non meno enigmatica di quella russa.
Un nazionalista duro e puro come lo scrittore Eduard Limonov non poteva certo intravedere speranze di pace nella stretta di mano tra Putin e Poroshenko: «Non avete capito che la pace o la guerra non dipendono da quei due. E' la gente del Donbass che ha detto basta e nessuno riuscirà a fermarla ».
Oppositore del governo, ma a suo modo avversario dei contestatori tradizionali di Putin, lo scrittore maledetto, diventato famoso come protagonista del romanzo di Carrére, vede ancora sangue e morte nel futuro dell'Ucraina dell'Est.
— Crede che Putin non sia in grado di controllare i cosiddetti ribelli del Donbass?
— E' evidente che non li controlla. Per esempio aveva chiesto loro di non fare il referendum dell'11 maggio. E lo hanno fatto lo stesso. Se adesso dovesse chiedere di deporre le armi riceverebbe la stessa risposta: un cortese rifiuto. D'altra parte non controllava nemmeno la gente di Crimea.
— In Crimea c'erano i soldati russi, tutto sembrava organizzato a dovere.
— Macché. Putin non aveva alcuna intenzione di annettersi la Crimea. Poi la situazione gli ha preso la mano e, inconsapevolmente, ha guadagnato una popolarità insperata presso la popolazione. Ma ora deve stare attento.
— Attento a cosa?
— I russi hanno apprezzato la difesa della gente di Crimea. Non gli perdonerebbe un eventuale abbandono dei nostri compatrioti che lottano in Ucraina.
— Ma pensa che Putin abbia davvero intenzione di mollare la presa sul Donbass?
— Certo non avrebbe dovuto incontrare Poroshenko. Si è fatto intortare da Hollande e dalla Merkel. A un tipo come Poroshenko avrebbe dovuto dire: «Non ti voglio vedere, cane sanguinario». Invece con quella stretta di mano ha offeso la dignità dei cittadini russi.
— Va bene che la provocazione è il suo mestiere, ma non le sembra di esagerare?
— Ma perché dovremmo fidarci di un personaggio come Poroshenko? Ha ordinato un'offensiva che sta massacrando i civili e sta continuando anche adesso mentre parliamo. Voleva farlo in poche ore, poi dopo qualche batosta militare ha rallentato il ritmo. Ma non intende fermarsi.
— Anche lui ha il suo problema con gli estremisti neonazisti che tuttora presidiano la Majdan di Kiev.
— Sono stati loro a fare tutto questo disastro. Poroshenko è un personaggio di secondo piano messo lì con elezioni fasulle solo per calmare quei criminali. Ma non conta niente. Vedrete che entro un anno lo cacceranno.
— E i russi di Ucraina?
— Loro non ci stanno. Si stanno comportando da eroi e continueranno a difendersi da un regime imposto con un colpo di Stato. Spero solo che Putin non li lasci soli.
Ritratto dello scrittore russo che sostiene i terroristi del donbas e che chiede una pena esemplare per Svetlana Davydova.
Eduard Limonov è tornato a far parlare di sé intervenendo sulla vicenda Davydova. Svetlana Davydova, madre russa di sette figli, è in prigione dal 21 gennaio accusata di alto tradimento per aver diffuso segreti di Stato, ossia per aver contattato l'ambasciata ucraina a Mosca denunciando possibili movimenti di truppe russe in Donbas. Per questa accusa Davydova, nonostante la Russia continui a negare il coinvolgimento di sue truppe in Ucraina (!!) rischia una condanna a 20 anni di prigione. Mentre molte organizzazioni per i diritti umani anche in Russia si stanno mobilitando per concederle gli arresti domiciliari almeno fino al processo l'ex leader nazional-bolscevico Eduard Limonov ha chiesto per la donna una pena esemplare. Limonov, mediocre scrittore e agitatore politico, sostenitore delle sedicenti repubbliche popolari di Luhansk e Donetsk, non è nuovo a sparate di questo tipo. Fino alla pubblicazione del libro biografico di Emmanuel Carrère, era un illustre sconosciuto in Europa, oggi invece non solo è un personaggio popolare, ma è divenuto addirittura un maître à penser per tanti giornalisti italiani e d'oltralpe. Nei mesi scorsi Eduard Veniaminovich Savenko in arte Limonov è stato spesso intervistato o citato per spiegare ai lettori italiani, che fortunatamente non sono sprovveduti come molti giornalisti pensano, cosa stia succedendo in Ucraina. Mai che in questi mesi i media italiani si siano sentiti in dovere di raccogliere l'opinione di storici seri o di ucrainisti. No, hanno preferito dare spazio all'ego ipertrofico di personaggi desiderosi solo di propagandare l'ideologia ufficiale del Cremlino e di farsi pubblicità. Un vizio peraltro comune alla gauche caviar francese cui appartengono di diritto sia Emmanuel Carrère, biografo di Limonov, sia sua madre la russista Hélène Carrère d'Encausse, una storica che da tempo guarda con una certa simpatia al nuovo corso politico del Cremlino.
Emmanuel Carrère — Limonov (Adelphi, 2012)
È il più grande scrittore francese contemporaneo afferma sicura di sé e con dubbio gusto la madre — Hélène Carrère d'Encausse — sovietologa d'oltralpe, autrice di importanti saggi su URSS e Russia, una recente, inconfessabile, fascinazione per Putin. Lui, Emmanuel, cinquantasettenne parigino «nato in una famiglia borghese di un quartiere elegante», residente «in una zona di Parigi decisamente radical-chic», «figlio di un alto dirigente e di una storica famosa» (sono sue parole), forte di cotanto pedigree e del clamoroso successo del suo ultimo libro fa spallucce e se la ride.
Amici che l'hanno incontrato qualche anno fa nella tenuta toscana della baronessa Beatrice Monti Rezzori, ospite del prestigioso premio letterario Gregor von Rezzori, l'hanno dipinto come una 'primadonna' educata e compiaciuta. Probabilmente — e non c'è nulla di male in tutto ciò — il buon Emmanuel si sta godendo i frutti di una celebrità cercata con ostinazione per tanto tempo. Una celebrità che è arrivata improvvisamente, dopo anni passati a scrivere «libri e sceneggiature», solo negli ultimi anni grazie al clamoroso successo di Limonov. La 'biografia romanzata' dedicata al controverso scrittore underground e leader dei nazbol (nazional-bolscevichi) Eduard Savenko, in arte Eduard Limonov, è stata infatti un autentico bestseller in Francia. Tant'è che il successo del libro di Carrère, pubblicato nel 2011 dai tipi di P.O.L. Editeur, ha spinto l'algida Adelphi, tra lo stupore di molti, ad assicurarsene i diritti italiani. In realtà la casa editrice milanese non è nuova a operazioni di questo tipo basti pensare alla pubblicazione di Simenon, un tempo 'scrittore di genere' ghettizzato nelle edicole.
Limonov, uscito in Italia nell'ottobre del 2012, lo si potrebbe definire una sorta di «romanzo russo» visto che, oltre alla considerevole mole (ben 356 pagine), finisce per raccontare — attraverso il prisma poliedrico della «vita romanzesca e spericolata» di Eduard Savenko — gli ultimi sessant'anni della storia russa. A ben vedere (il lettore più smaliziato, non a digiuno di Russia, se ne accorgerà presto) le idiosincrasie, le contraddizioni, gli aspetti più plateali e sciovinisti del personaggio Limonov sono gli stessi di un paese che da sempre guarda all'Occidente e alle sue presunte debolezze con un misto di arroganza, invidia e disprezzo.
Non tragga in inganno il fatto che Limonov, nella sua veste più recente di agitatore politico e di oppositore di Putin — una delle ultime maschere indossate dopo quella di teppista in Ucraina, poeta underground a Mosca, barbone e marchettaro a New York, scrittore alla moda a Parigi, miliziano filoserbo nei Balcani — abbia fatto fronte comune con i democratici Garry Kasparov e Mikhail Kasyanov nel 2007 nel tentativo, di opporsi al tandem governativo Medvedev-Putin.
Limonov, come spiega Carrère nella chiosa finale, disprezza Putin semplicemente perché Vladimir Vladimirovich, nato da un'umile famiglia di San Pietroburgo, molto simile a quella ucraina dei Savenko, è uno che, al contrario di lui, ce l'ha fatta. Putin, l'ex funzionario del KGB dislocato con compiti di secondo ordine nella DDR, è oggi lo zar della nuova Russia. Un ruolo questo che Limonov aveva immaginato per sé sin da bambino quando, all'interno della sua kommunalka kharkivese, fantasticava sul suo futuro sperando non fosse grigio come quello dei suoi genitori. Emblematica la frase pronunciata a Mosca nel 2007 da un giornalista inglese che assiste a una conferenza stampa del blocco democratico Drugaya Rossiya capitanato dall'improbabile terzetto Limonov, Kasparov, Kasyanov. L'uomo, rivolgendosi sottovoce, ma con aria assolutamente seria a Carrère, anche lui presente in sala, afferma: «Gli amici di Limonov farebbero bene a non fidarsi di lui. Se per caso prendesse il potere, per prima cosa li farebbe fucilare tutti» .
Leggendo le oltre trecento pagine di questa biografia — in cui l'autore quasi per giustificare una malcelata simpatia verso Limonov ribadisce più volte di sospendere il giudizio sul protagonista del suo romanzo e di limitarsi a riportare i fatti — appare evidente come l'affermazione del giornalista inglese non sia affatto una provocazione, ma poggi su basi assolutamente fondate. Lo stesso Carrère non esclude che Limonov nel corso della sua vita abbia voluto provare l'ebbrezza dell'omicidio (si ipotizza nel corso della guerra nell'ex Jugoslavia) anche se, ovviamente, il diretto interessato ha sempre negato tale addebito.
Gli anni dell'adolescenza e della giovinezza trascorsi a Kharkiv, ricostruiti accuratamente da Carrère avvalendosi sia delle testimonianze dirette di Limonov, sia delle pagine di romanzi come «Podrostok Savenko» («Eddy Baby Ti Amo», Salani 2005), sono ricchi di episodi che rendono ragione non solo di un carattere irrequieto ed egocentrico, ma di una fascinazione verso la violenza che, a ben vedere, è il filo rosso che unisce le diverse incarnazioni di questo D'Annunzio da feuilleton sovietico.
Le pagine kharkivesi del libro, in particolare quelle ambientate nel quartiere popolare di Saltovka, hanno l'odore del sangue di stupri collettivi e di risse che degenerano in accoltellamenti, il sapore aspro del samogon — la vodka fatta in casa per sballarsi in trip alcolici, zapoy, che durano giorni interni — e quello dolciastro dello sperma. Sono pagine crude, spesso disgustose, sconsigliate ai deboli di stomaco, eppure fondamentali per comprendere il personaggio Limonov e i codici comportamentali di un proletariato sovietico, quello degli anni'50, alcolizzato e analfabeta che, nonostante il disgelo khruscioviano, vive ancora nel mito di Stalin.
A Saltovka dove, tra strade non asfaltate che si intersecano ad angolo retto, abitano gli operai di tre grandi fabbriche Turbina, Pistone, Falce e Martello, gli unici divertimenti possibili sono l'alcol e il sesso, praticato nel migliore dei casi (ossia quando non si traduce in stupro) in maniera animalesca. A Saltovka il jazz raffinato degli Stiliagi, i giovani filoccidentali che passeggiano lungo la Sumskaya, il boulevard principale di Kharkiv, con acconciature che ricordano i capelli a banana di Elvis Presley, non arriverà mai. A Saltovka la musica dei compagni di sbronze di Limonov è il blues ferroviario, quasi lisergico, di zapoy che si protraggono per giorni interi su treni di cui spesso non si conosce neppure la destinazione. Accade così che nel corso di questi trip alcolici Eduard e i suoi amici diventino protagonisti di furti, aggressioni ed episodi di violenza. Alcuni finiranno in carcere, altri giustiziati presso la corte marziale, quando malauguratamente ci scappa il morto. Limonov a soli vent'anni, dopo un tentativo di suicidio, sarà rinchiuso in ospedale psichiatrico.
Fortunatamente dopo due mesi di internamento, Eduard incapperà in un vecchio psichiatra il quale intuisce che il ragazzo non è affatto pazzo, semplicemente incompatibile con la routine di una vita grigia a base di lavoro in fabbrica e sbronze di vodka. Sarà questo vecchio terapeuta dalle orecchie pelose a indirizzarlo in una libreria del centro di Kharkov, punto d'incontro di tutti gli artisti e poeti della città ucraina. All'interno di Libreria 41 il ventenne Limonov conoscerà Anna Moiseevna Rubinstejn, la donna che diventerà per un periodo la sua amante e con la quale si trasferirà qualche anno più tardi a Mosca in cerca di gloria prima dell'esilio volontario a New York e a Parigi.
Oggi Eduard, stesso sguardo da canaglia di sempre, è arrivato alla soglia dei 70 anni. Recentemente è stato abbandonato dalla seconda moglie, la famosa attrice russa Ekaterina Volkova che gli ha dati due figli: Aleksandra e Bogdan. La cosa non sembra preoccuparlo troppo. Sostiene infatti di avere parecchie amanti, tutte belle e giovani, di serie A come ama chiamarle lui. Dopo il fallimento del progetto Drugaya Rossiya Limonov è di nuovo in pista con il movimento politico Strategia 31, dal numero dell'articolo della costituzione che garantisce il diritto di manifestare.
C'è da scommettere che il «diario di questo fallito», per parafrasare il titolo di un suo noto romanzo uscito anche in Italia, si arricchirà di altre esilaranti pagine. Eroe o cialtrone, oggi Limonov, grazie anche a uno scrittore francese radical chic che avrebbe voluto vivere una vita oltraggiosa come la sua, gode di una popolarità mondiale. Basterà questo ad appagare il suo ego ipertrofico? A giudicare dalle sue recenti affermazioni, vera e propria apologia della sedicente Repubblica Popolare del Donbas, gruppo di criminali che sta uccidendo la popolazione civile con l'appoggio di militari russi, irregolari ceceni e cetnici serbi, sembrerebbe proprio di no.
Poeta, avventuriero, leader dei nazionalbolscevichi, il protagonista del libro di Carrère apre la sua casa a «la Lettura» e avverte: «La nostra identità è la nostra storia».
«Nell'ultimo anno la società russa è cambiata radicalmente. Abbiamo vissuto più di due decenni di umiliazioni, come Paese e come popolo. Abbiamo subìto sconfitta dopo sconfitta. Il Paese che i russi avevano costruito, l'Unione Sovietica, si è suicidato. È stato un suicidio assistito da stranieri interessati. Per 23 anni siamo stati in piena depressione collettiva. Il popolo di un grande Paese ha un costante bisogno di vittorie, non necessariamente militari, ma deve vedersi vincente. La riunione della Crimea alla Russia è stata vista dai russi come la vittoria che ci era mancata per così tanto tempo. Finalmente. È stata qualcosa di paragonabile alla Reconquista spagnola».
È stato tutto nella sua vita, Eduard Veniaminovich Savenko, alias Eduard Limonov. Teppista di periferia, giornalista, forse agente del Kgb, mendicante, vagabondo, maggiordomo di un nababbo progressista americano, poeta, scrittore à la page nei salon parigini, dissidente, irresistibile seduttore, cecchino nelle Tigri di Arkan durante la decomposizione della Jugoslavia, leader politico, fondatore del Partito nazional-bolscevico, prima di vederlo sciolto e di creare L'Altra Russia.
Ma Limonov, aspro come l'agrume da cui viene il suo pseudonimo, è soprattutto un antieroe, un esteta del gesto, un outsider che ha sempre scelto di proposito la parte sbagliata, senza mai essere un perdente. Al fondo, Eduard Limonov è un grande esibizionista, che però non ha mai avuto paura di rischiare e di pagare prezzi anche molto alti, per tutti i due anni di prigionia, culminati nel 2003 nei due mesi trascorsi nella colonia penale numero 13, nelle steppe intorno a Saratov. Può quindi sembrare paradossale che, per la prima volta nella sua vita spericolata, il personaggio reso celebre dall'omonimo libro di Emmanuel Carrère si ritrovi non più ai margini, non più nelle catacombe della conversazione nazionale russa, eccentrico carismatico in grado di appassionare poche decine di desperados, ma sia in pieno mainstream, aedo dell'afflato nazionalista, che i fatti d'Ucraina e la reazione dei Paesi occidentali hanno acceso nello spirito collettivo della nazione.
Limonov riceve «la Lettura» nel suo piccolo appartamento nel centro di Mosca, non lontano dalla Piazza Majakovskij. Un giovane alto e robusto viene a prenderci per strada, accompagnandoci su per le scale. Un altro marcantonio ci apre la porta blindata. Sono i suoi militanti, che gli fanno da guardie del corpo. Avrà anche 71 anni, ma a parte i capelli argentei, ne dimostra venti di meno. Magro, il volto affilato, il famoso pizzo, l'orecchino, è tutto vestito di nero, pantaloni attillati e giubbotto senza maniche su golf a collo alto. Parla con una voce sottile, leggermente stridula. Ha modi molto miti e gentili, totalmente fuori tema con i furori che hanno segnato la sua vita. «Voi occidentali non state capendo nulla», esordisce, mentre offre una tazza di tè.
— Che cosa non capiamo?
— Che il Donbass è popolato da russi. E che non c'è alcuna differenza con i russi che abitano nelle regioni sud-occidentali della Federazione, come Krasnodar o Stavropol: stesso popolo, stesso dialetto, stessa storia. Putin sbaglia a non dirlo chiaramente agli Usa e all'Europa. È nel nostro interesse nazionale.
— Quindi l'Ucraina per lei è Russia?
— Non tutta. L'Ucraina è un piccolo impero, è composta dai territori presi alla Russia e da quelli presi a Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria. I suoi confini sono le frontiere amministrative della Repubblica Socialista Sovietica dell'Ucraina. Non sono mai esistiti. È territorio immaginario che, ripeto, esisteva solo a scopi burocratici. Prenda Leopoli, cosiddetta capitale del nazionalismo ucraino: lo sapeva che l'Ucraina l'ha ricevuta nel 1939 per effetto della firma del Patto Molotov-Ribbentrop? In quel momento il 57% della popolazione era polacca, il resto erano ebrei. Di ucraini poche tracce. Il Sud del Paese poi venne dato all'Ucraina dopo essere stato conquistato dall'Armata Rossa. Questa è la storia. Ma quando l'Ucraina ha lasciato l'Urss non ha restituito quei territori, a cominciare dalla Crimea ovviamente, che le era stata regalata da Krusciov nel 1954. Non capisco perché Putin abbia ancora paura di dire che Donbass e Russia sono la stessa cosa.
— Forse perché ci sono confini riconosciuti a livello internazionale.
— A nessuno fregò nulla dei confini internazionalmente riconosciuti nel 1991, quando l'Unione Sovietica fu sciolta. Qualcuno disse qualcosa? No. Questa è la mia accusa all'Occidente: applica due standard alle relazioni internazionali, uno per i Paesi come la Russia e uno per se stesso. Non ci sarà pace in Ucraina fin quando non lascerà libere le colonie, intendo il Donbass. L'errore di Putin è non dirlo apertamente.
— Forse Putin fa così perché non vuole annettere il Donbass come ha fatto con la Crimea, perché sono solo problemi.
— Forse lei ha ragione. Forse non avrebbe voluto neppure la Crimea. Ma il problema è suo, gli piaccia o meno. È il capo di Stato della Russia. E rischia la reputazione.
— Non si direbbe, a giudicare dalla sua popolarità, che rimane superiore all'80%.
— È ancora l'effetto inerziale della Crimea. Ma se abbandonasse il Donbass al suo destino, lasciandolo a Kiev, con migliaia di volontari russi sicuramente destinati a essere uccisi, la sua popolarità si scioglierebbe come neve al sole. Non sembra, ma Putin è in un angolo.
— Che cosa farà, secondo lei?
— Reagisce bene. Si sta radicalizzando. Ha capito che gli accordi di Minsk sono una balla, aiutano solo il presidente ucraino Poroshenko. Anche se controvoglia, dovrà agire. Quando un anno fa emerse il problema della Crimea, Putin era preso dall'Olimpiade di Sochi, che considerava l'impresa della vita. Era felice. Ma fu obbligato a usare i piani operativi dell'esercito russo, che ovviamente esistevano da tempo. Certo la Crimea è stata la sua vittoria, anche se malgré lui. Il Donbass non era affatto nel suo orizzonte. In Occidente tutti lo accusano di volerlo annettere, in realtà è molto esitante.
— Dopo l'Ucraina quale sarà il prossimo territorio da riconquistare, i Paesi baltici?
— Intanto non penso che i Paesi baltici abbiano nulla a che fare con la Russia. Quanto all'Ucraina, credo che dovrebbe esistere come Stato, composto dalle nove province occidentali che possono essere considerate ucraine. Non sarò io a negare la loro cultura eccezionale e la loro bella lingua. Ma, ripeto, lascino i territori russi.
— Lei lo ha attaccato molto in passato: Putin è o no il leader giusto per la Russia?
— Siamo un regime autoritario. E Putin è il leader che ci ritroviamo. Non c'è alcuna possibilità di mandarlo via. Ma c'è una differenza tra il Putin dei due primi mandati e quello di oggi. Il primo fu pessimo, soprattutto impegnato a gestire il suo complesso d'inferiorità del piccolo ufficiale del Kgb. Gli piaceva la compagnia dei leader internazionali, Bush junior, Schröder, Berlusconi. Ma nel tempo ha imparato. È migliorato. Ha detto addio alle luci del varietà e si è messo al lavoro sul serio. Vive tempi difficili, ma fa ciò che è necessario. E non è possibile oggi chiedergli di non essere autoritario.
— Ma la Russia può non essere un Paese autoritario?
— Se Obama continua a dire che ci devono punire, ci costringe a darci dei leader autoritari.
— Che cos'è per lei la Russia?
— La più grande nazione europea. Siamo il doppio dei tedeschi. A dirla tutta, noi siamo l'Europa. La parte occidentale è una piccola appendice, non solo in termini di territorio, ma anche di ricchezze.
— Per la verità l'Ue è la prima potenza commerciale al mondo.
— Ci sono cose più importanti del commercio e dei mercati.
— Ma se siete la più grande potenza europea, perché siete così nazionalisti?
— Non siamo più nazionalisti di francesi o tedeschi. Siamo una potenza più imperiale che nazionalista. Le ricordo che in Russia vivono più di 20 milioni di musulmani, ma non sono immigrati, sono qui da sempre. Noi siamo anti-separatisti. Certo, in Russia c'è anche un nazionalismo etnico, per fortuna minoritario, ma per noi significa soltanto guai. Io non sono un nazionalista russo, non lo sono mai stato. Mi considero un imperialista, voglio un Paese con tante diversità ma riunito sotto la civiltà, la cultura e la storia russe. La Russia può esistere solo come mosaico.
— Ma siete o no parte del mondo occidentale?
— Non è importante. È una questione dogmatica, senza significato reale. La Corea del Sud è parte del mondo occidentale? No, eppure viene considerata come tale. Dov'è la frontiera dell'Occidente? Non è rilevante per i russi.
— Che cosa contraddistingue l'identità russa?
— La nostra storia. Noi non siamo migliori degli altri, ma non siamo neppure peggiori. Non accettiamo di essere trattati come inferiori, snobbati o peggio umiliati. Questo ci fa molto arrabbiare. È il nostro stato d'animo attuale.
— Ma, per esempio, l'Occidente si richiama ai valori della Rivoluzione francese, democrazia, divisione dei poteri, diritti umani. La democrazia è parte dei vostri valori?
— Per i russi la nozione più importante e fondamentale è quella di spravedlivost, che significa giustizia, nel senso di giustizia sociale, equità, avversione alle disuguaglianze. Penso che la nostra spravedlivost sia molto vicina a quella che voi chiamate democrazia.
— Le sanzioni e la crisi economica possono minacciare il consenso di Putin?
— Penso che l'economia nel mondo di oggi sia sopravvalutata. Il motore della storia sono le passioni. Alle pressioni economiche si può resistere. E resisteremo. Certo Putin deve fare la sua parte in Donbass. Guardi alla nostra storia: l'assedio di Leningrado, la battaglia di Stalingrado. Possiamo farcela. In molti hanno provato a colpirci, da Napoleone a Hitler. Ma l'orgoglio nazionale russo pesa più delle politiche economiche e credo di conoscere bene il carattere del mio popolo.
«La Lettura (Corriere della Sera)», #167, 8 febbraio 2015
Abbiamo davanti agli occhi Vladimir Putin, uomo che non può piacere, che nasconde, ma non tanto, astuzia, volgarità, violenza.
Abbiamo davanti agli occhi Vladimir Putin, uomo che non può piacere, che nasconde, ma non tanto, astuzia, volgarità, violenza: il corpo massiccio allenato per anni nelle palestre del Kgb, mentre il gelido, affilato musetto mostra un'arroganza guardinga e pronta a decisioni ambigue e inaspettate. Vediamo un uomo temibile e poco interessante, ma cosa vediamo della Russia? Ogni volta che si apre una nuova crisi o se ne aggrava una in corso, gli esperti avvertono: bisogna stare attenti, dietro Putin c'è la Russia e noi in occidente la Russia non la capiamo.
«Voi occidentali non state capendo nulla». E' questo il primo punto messo in chiaro in un'intervista da Eduard Limonov in carne e ossa, reso famoso dall'omonimo romanzo che Emmanuel Carrère gli ha dedicato. Limonov è un mosaico di caratteri russi, un esteta con spiccate tendenze delinquenziali. In effetti sembra inventato per illustrare la sempre allarmante complessità di un paese la cui vita sociale è stata distrutta dalla rivoluzione bolscevica, in cui poteva sembrare che il comunismo sarebbe stato cancellato dalla lingua, dalla memoria, dai pensieri di un intero popolo: e invece ecco che Limonov è riuscito a fondare (per chiarire subito come stanno le cose) un nuovo partito nazional-bolscevico.
La Russia era una grande potenza quando era comunista e quella potenza non si dimentica facilmente. Essere nazional-bolscevichi significa che «in qualche modo» la cosa non è del tutto finita, non muore: ogni volta rinasce il nazionalismo da grande potenza, che non va umiliato e offeso, altrimenti sono guai.
Insomma, siamo sempre lì, non abbiamo capito la Russia, diciassette milioni di chilometri quadrati tra Europa e Asia, il più esteso paese del mondo che arriva fino allo stretto di Bering davanti all'Alaska.
La Russia appartiene o no all'Europa? Sì e ma. Dai tempi di Pietro il Grande ha guardato all'Europa. E all'inizio di «Guerra e pace» per parecchie pagine l'aristocrazia non fa che parlare in francese, la lingua dell'Encyclopédie. Senza la letteratura russa non saremmo intellettuali moderni. Senza Dostoevskij e Aleksandr Blok, Tolstoj e Marina Cvetaeva, non sapremmo niente di quello che può bruciare in una vita e in una mente umana. Quasi nessuno riesce a negare che il romanzo, il genere centrale della letteratura moderna, ha dato in Russia i suoi capolavori insuperati.
Di questo parla Virginia Woolf in una serie di scritti ripubblicati ora in «L'anima russa», un volumetto delle edizioni Elliot con introduzione di Benedetta Bini. In un articolo del 1917 la scrittrice inglese parla di Dostoevskij come del «grande genio che sta permeando le nostre vite» e afferma che di tutti i grandi scrittori «nessuno ci pare così sorprendente, così sconcertante». Frasi come quelle che si leggono nell'«Eterno marito» (recensito dalla Woolf) non sarebbero concepibili in un romanzo inglese: «Sì, mi amava con odio, questo è l'amore più forte 〈…〉 cioè veniva per sgozzarmi ma pensava di venire 'per abbracciarmi e piangere' 〈…〉 Il mostro più mostruoso è il mostro con nobili sentimenti». E un racconto come «La mite» è scritto «dall'inizio alla fine con una potenza che trasforma tutto ciò che possiamo mettergli accanto nel più scialbo dei luoghi comuni».
Da dove viene un tale turbine? Con che cosa lo scrittore «costruisce la sua versione della vita»? Per tutto questo la parola giusta, secondo la Woolf, è «anima». I russi hanno l'anima, mentre gli inglesi no. La mettono da parte, la nascondono: «Il nostro lento intelletto inglese» separa, non mescola, «è incline alla satira piuttosto che alla compassione, all'osservazione della società piuttosto che alla comprensione degli individui». Dunque una delle culture più individualiste, come quella inglese, più pronta a riconoscere stravaganze e diritti individuali, secondo la Woolf è poco interessata a capire gli individui. La società inglese era imbrigliata da una fitta rete di tradizioni, abitudini, leggi infrangibili benché non scritte, gerarchie e distinzioni di classe, mentre Dostoevskij non ha sofferto di queste limitazioni: nei suoi romanzi «l'anima non è trattenuta da barriere. Tracima, dilaga». E così un impiegato di banca, un postino, una domestica e qualche principessa possono incontrarsi e convivere nello stesso spazio: «Niente è escluso dalla provincia di Dostoevskij».
Lo stesso avviene, in senso inverso, dall'esterno verso l'interno, in Tolstoj: «Nulla sembra sfuggirgli. Nulla gli scivola addosso senza essere notato 〈…〉 il blu o il rosso del vestito di un bambino, il modo in cui un cavallo muove la coda, il suono di un colpo di tosse, il gesto di un uomo che cerca di infilare le mani nelle tasche».
Ritrovo questa esuberanza incondizionata di anima e di vita in un libretto di Sergej Esenin, «Nei pressi di Acquabianca» (Edizioni Via del Vento). Poeta contadino negli anni della rivoluzione, suicida trentenne nel 1925, ora Esenin ha un monumento a Mosca. La sua vita è stata una tempesta di amori, angosce, poesia, alcolismo, instabilità. Bellissimo, poeta di successo, pieno di amici, amò donne e uomini, ma gli uomini più a lungo, sposò la grande ballerina americana Isadora Duncan, che aveva diciassette anni più di lui. In America, al seguito di lei, nessuno lo conosceva e lui parlava solo il russo. Non riuscì a essere, come avrebbe voluto, poeta della rivoluzione e alla rivoluzione non riuscì a resistere. Majakovskij, che pure si suicidò cinque anni più tardi, in una poesia gli rimproverò amichevolmente di essersi suicidato.
Torno a Limonov, intervistato domenica scorsa sul corriere da Paolo Valentino. Dice che l'Ucraina non esiste, è un'invenzione, «è composta dai territori presi alla Russia e da quelli presi alla Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Ungheria». Poi riconosce che la loro lingua è una bella varietà di russo e la loro cultura è di grande qualità.
Ma quando parla di politica Limonov non è solo un esibizionista, sa quello che dice, lo dice perché lo pensano i russi e Putin non può deluderli. Quindi «anche se contro voglia dovrà agire» e riprendersi i territori ucraini abitati da russi.
Non so se la Russia abbia ancora una grande anima, ma come dice Limonov non va dimenticato che è «la più grande nazione europea», benché fuori dall'Unione europea.
«Putin non c'entra, questo omicidio lo danneggia soltanto».
E rano avversari politici, Boris Nemzov e lo scrittore Eduard Limonov, più volte si erano scambiati accuse feroci. Ma più volte avevano anche condiviso la stessa cella, arrestati in una delle tante manifestazioni anti Putin. Dopo l'esplodere della crisi in Ucraina sono finiti su lati opposti della barricata: il primo tra i più aspri critici dell'intervento russo, l'altro entusiasta della presa della Crimea.
— Cosa rappresenta per lei la morte di Nemzov?
— Per me purtroppo è solo l'ennesima tra le tante morti dei miei compagni nell'ultimo anno, sono mesi che seppellisco i miei ragazzi nazionalboscevichi uccisi combattendo nel Donbass coi ribelli, l'ultimo funerale è stato a Pietroburgo il 21 febbraio. Certo Boris Efimovich lo conoscevo molto bene, da anni, anche se non ci amavamo affatto, per me era troppo filooccidentale.
— Un omicidio politico?
— Non ci credo. La ragazza che era con lui, l'unica testimone, è rimasta viva. E nei delitti politici si fa sempre fuori anche il testimone. Forse è proprio lei la chiave. Aspetto le indagini. Ma certo è un delitto molto strano… mi vengono strani pensieri.
— Quali? Alcuni politologi russi anched'opposizione ventilano l'ipotesi di una strategia della tensione interna o esterna…
— Sì, per me è possibile che si tratti di una provocazione politica. A che scopo? Forse per scatenare una rivolta arancione anche qui in Russia.
— Quindi come i pro-Putin lei accusa l'Occidente…
— No, dico solo che Nemzov non era più un politico di rilievo, come nemico del Cremlino oggi il leader più importante è Navalny. Lui era un brillante pensionato politico, una persona capace ma della vecchia guardia, ormai non faceva più nulla. Certo era molto noto. Ma rappresentava solo una parte dell'opposizione, perché dal 2011 in Russia non ci sono solo i dissidenti liberali, ma i comunisti, i nazionalisti, e così via, anzi gli ultimi sono cresciuti. La sua è soprattutto una morte simbolica.
— È stato ucciso alla vigilia della prevista protesta anti-Putin convocata dall'opposizione, le sembra un caso?
— È solo una coincidenza. O meglio, semmai mi sembra una provocazione politica. Ma non dal lato del Cremlino. Mi pare più probabile che sia opera di avversari del Cremlino. Certo fa comodo a loro, più che a Putin: questo omicidio è l'ultima cosa che serve al presidente russo in questo momento, lo danneggia soltanto.
— Dissero così anche per Politkovskaya… ma i media di Stato hanno fomentato sempre più l'odio verso i dissidenti, specie chi criticava la politica ufficiale verso Kiev…
— È vero, in Russia oggi c'è un'atmosfera di isteria generale, ma anche parte della nostra opposizione vi ha contribuito. Nella loro Marcia della pace, non hanno forse sfilato con le bandiere ucraine? Se non è provocazione questa. Facile accusarli di essere «agenti occidentali».
— Quali conseguenze prevede?
— Nessuna. Purtroppo temo che come per altri omicidi illustri precedenti, tra pochi giorni tutti in Russia lo avranno dimenticato. Ma l'Occidente di certo coglierà l'occasione per scatenare e aumentare l'isteria contro la Russia e contro Putin.
Appena trentenni ai tempi di Eltsin i due erano i volti della rinascita. Ma oggi sono i temi del nazionalismo alla Limonov a dominare il Paese.
La morte di Boris Nemzov chiude vent'anni di storia e le illusioni di una generazione appena trentenne al crollo dell'Urss che ha creduto in una Russia «normale», prima ancora che «democratica».
Nessuno meglio di Nemzov e Grigorij Javlinski hanno incarnato questo segmento umano. Chi pensava al volto del futuro nella Russia caotica, feroce eppure viva degli Anni 90 che Boris Eltsin con il suo impeto da kamikaze aveva strappato dalle mani di un Gorbaciov ormai devitalizzato, non poteva non pensare a Nemzov e/o a Javlinski. Due facce da ragazzi, Boris più spavaldo e più politico; Grigorij più riflessivo e intellettuale.
Gli amici di un tempo
Sotto le mura rosse del Cremlino, all'ombra della mole inafferrabile di San Basilio, non lontano dalla «casa sul lungo fiume», quasi un monumento alla vita ordinaria durante gli anni del terrore di Stalin, ieri si è svolto un duplice funerale. Quello popolare, commosso, silenzioso e inevitabilmente impaurito (nonostante i cartelli «io non ho paura») di Boris, raccolto in un sacco di plastica 48 ore prima, con quattro colpi di pistola addosso; e quello della generazione rappresentata dal volto terreo, appesantito di Javlinski, visibilmente a disagio con un mazzo di fiori bianchi in mano. Leader di un partito marginale, schiacciato dalla propaganda e dal populismo putiniano.
La fine della parabola
La fine di una parabola, con l'esito paradossale che oggi, in quel Cremlino da dove ieri gli sniper tenevano sotto tiro la manifestazione per Nemzov, non è finita la generazione dei democratici di vent'anni fa, ma quella di coloro che allora sfilavano contro di loro. La ciarliera baldanza con cui sui giornali di ieri è resuscitato Eduard Limonov era davvero emblematica. Limonov è un romanzo vivente, diventato a sua volta romanzo grazie ad Emmanuel Carrère che tre anni fa ne ha fatto un best seller in Francia (e in Italia). È il racconto di un'immersione nelle profondità della Russia attraverso la vita di questo inimitabile protagonista dell'underground moscovita, da Breznev ai giorni nostri. Barbone a Mosca, domestico a Manhattan, scrittore (di talento istintivo) a Parigi, combattente volontario al fianco dei serbi di Bosnia nella mattanza jugoslava, carismatico capo di un partito che si chiama «nazionalbolscevico», sintesi di quel mood che venne detto dei «rossobruni» nella prima Mosca postsovietica.
Ebbene questo Limonov che non è un romanzo ma un uomo in carne ed ossa, inevitabilmente ora oltre i settant'anni, nell'intervista a Lucia Sgueglia su «La Stampa» di ieri, dice letteralmente: «La morte [di Nemzov] è solo l'ennesima tra le tanti morti dei miei compagni nell'ultimo anno, sono mesi che seppellisco i miei ragazzi nazionalbolscevichi uccisi combattendo nel Donbass…». In altre parole Limonov è uno dei reclutatori di manodopera per la guerra sporca di Putin nell'Est dell'Ucraina, che lui giudica — come aveva detto in un'altra intervista — un'«invenzione», un non Stato.
La cecità dell'Occidente
Sarebbe un errore prendere oggi le parole di Limonov come le sparate di un avventuriero o giudicare folklore il suo partito Nazional Bolscevico che ha per simbolo falce e martello in una grafica che occhieggia a colori e simboli nazi. Sembravano folklore anche allora, vent'anni fa, quando le sue milizie nascenti insieme a quelle di Aleksandr Barkashov leader di Unità nazionale russa, sfilavano insieme ai nostalgici zaristi, bandiere rosse e bandiere brune, i ritratti di Lenin e di Nicola II assassinato dai bolscevichi, un insieme di icone con santi e Madonne, poveri cortei inneggianti a un passato contraddittorio e indifendibile. E invece sono diventate ora il carburante di una politica nazionalista che l'Occidente non ha saputo o voluto vedere quando Putin era il comodo alleato nella «guerra al terrore» facendo aprire le basi tagike per i raid aerei dell'alleanza occidentale contro Bin Laden e i taleban in cambio del via libera al massacro della Cecenia che si è trasformata da allora in centrale geografica e ideale dei combattenti islamici.
Dalla Georgia alla Crimea
Un calderone nazionalista e revanscista che porta i nomi di Zhirinovskij, Prokhanov o di un ideologo come Aleskandr Dughin che nel 2008, ai tempi del blitz in Georgia, profetizzava la necessità di un intervento «in Crimea e nell'Ucraina orientale». Putin li ha maneggiati e lusingati fino a diventarne in qualche modo dipendente. Il rovescio del mondo di Boris Nemzov, che da giovanissimo governatore di Nizhni Novgorod aveva chiamato l'economista Grigorij Javlinski a costruire un ambiente favorevole alle imprese (oggi diremmo un incubatore di start up) e poco dopo portava a Eltsin un milione di firme contro la guerra in Cecenia ricevendone l'invito a far parte del governo come vicepremier.
È improbabile ed illogico che l'assassinio di Boris Nemzov sia stato pianificato al Cremlino. Può essere una provocazione esterna, ma può anche essere il cinico tentativo del milieu feroce che lo circonda di forzare definitivamente la mano a Putin e spingerlo ancora più in là. Quel che è certo che da venerdì notte vent'anni di storia russa si sono definitivamente chiusi e con essi la speranza non della democrazia ma della normalità.
Lo scrittore si dimostra entusiasta della nuova svolta della Russia verso Oriente, segnata dalla presenza del presidente cinese Xi Jinping alla Festa della Vittoria a fianco di Putin.
Originale a tutti i costi, provocatorio senza limiti, Eduard Limonov entra con il suo stile da scrittore maledetto nel dibattito di questi giorni sul «nuovo alleato cinese» e sulla svolta verso Est della Russia di Putin: «Era ora che ci accorgessimo dell'immenso potenziale di Pechino. Questa è un'alleanza naturale che andava realizzata già vent'anni fa. Io l'avevo già messa nel programma del mio Partito nazional bolscevico. Bisogna guardare decisamente verso Est pur con tutte le cautele del caso». L'autore del Diario di un fallito, reso celebre due anni fa dalla biografia Limonov del francese Emmanuel Carrère, si dimostra entusiasta della nuova svolta verso Oriente imposta alla Russia anche dalla crisi economica e dalle difficoltà di rapporti con Europa e Stati Uniti seguiti alla crisi ucraina.
— Le immagini del Presidente Xi Jinping a fianco di Putin nella tribuna d'onore della Festa della Vittoria, disertata dai leader occidentali, sono dunque l'inizio di una nuova era?
— Sono la conferma di un dato di fatto: l'Europa e l'America sono un nostro concorrente e avversario naturale. Cina, India, e anche lo stesso Brasile, possono essere invece un ottimo contrappeso contro il dominio anglosassone.
— Cavalca dunque anche lei l'ondata di anti-americanismo che continua a crescere nel Paese da qualche mese a questa parte. È un rancore che nasce dalle sanzioni economiche e dalle loro conseguenze?
— Le sanzioni sono solo un dettaglio. Tutto quello che è successo, il modo di interpretare la questione ucraina, il dare ogni colpa sempre e comunque alla Russia… Ha dimostrato quanto l'Occidente ci sia dichiaratamente ostile. Non ci resta che adeguarci e prendere le inevitabili contromisure. Il mondo non si ferma a Europa e Stati Uniti».
— Eppure l'opinione pubblica resta diffidente. A gran parte dei russi, secondo i sondaggi, la Cina appare come un amico misterioso e sfuggente. Non proprio affidabile.
— Infatti io non farei alleanze a lungo termine con i cinesi. Scambi commerciali sì, ma senza esagerare. Con una popolazione di un miliardo e mezzo di persone avranno prima o poi problemi con cibo e acqua potabile e sappiamo che guardano già avidamente ai nostri territori siberiani, in particolare all'acqua potabile del lago Bajkal.
Insomma, teniamoceli buoni, ma senza esagerare. Usiamo la rinnovata amicizia per quello che serve: la Cina è un produttore mondiale di tutto, di tutto quello che noi siamo costretti a importare non avendo ancora sviluppato un'industria manifatturiera nazionale degna di questo nome. Finché dipenderemo dall'importazione, ci conviene avere più mercati possibili sui quali operare».
— Oggi cominciano le prime manovre congiunte della Marina russa e di quella cinese. Pensa che prima o poi si arriverà anche a un'alleanza militare?
— Per loro è soprattutto una questione di prestigio. Per noi invece è un'occasione utile per far vedere agli occidentali che non siamo più inerti e mansueti come siamo stati per 23 anni. L'Occidente è fatto così, se vede che un grande Paese come il nostro è troppo arrendevole, cerca di divorarselo. Per cui dobbiamo trovarci alleati e partner ovunque. E se i cinesi, con uno dei più grandi eserciti del mondo, sono disposti a farsi vedere in azione con noi, va benissimo così.
Intervista a Eduard Limonov: «Oggi se sei contro il Cremlino sei represso. Nonostante questo stiamo meglio di prima»; Il Partito Comunista della Federazione Russa di Zjuganov o i socialdemocratici di Mironov, non possono essere considerati per un solo istante opposizione.
Incontriamo Eduard Limonov, l'intellettuale, il militante conosciuto in tutto il mondo, in una piovigginosa giornata primaverile a Mosca. È impegnato in un comizio di fronte al monumento che ricorda la rivoluzione del 1905.
— Eduard Veniaminovic, secondo lei, come ha risposto Putin alla crisi economica russa iniziata nel 2011?
— Parliamo di crisi a partire da quali indicatori? Esiste forse una regola per definire se oggi c'è la crisi o meno? Se lo valutiamo a partire dalla vita quotidiana dei russi, allora per quanto ricordi non si è mai vissuto così bene in Russia, meglio sia rispetto al periodo sovietico sia agli anni '90. Quindi lei è giunto alla conclusione che da noi ci sia la crisi… Forse sulla base di indicatori occidentali? È vero, rispetto a quegli indicatori viviamo peggio che nel 2011, ma questo non ci preoccupa. Il potere in Russia, il putinismo, oggi è meno peggio di prima, anche se gelosamente non intende avere concorrenti politici. Ma il potere oggi in Russia non veste panni criminali. Non ha motivi di vergognarsi di orribili crimini. Dal momento che non vedo crisi non posso avere proposte per affrontare ciò che non esiste. Non credo che ci sia una competizione internazionale in cui la Russia dovrebbe arrivare prima. Le nazioni non si devono annientarsi nella concorrenza, ma vivere secondo i loro mezzi. Tanto più che la natura e il pianeta si stanno esaurendo, a causa degli appetiti insaziabili dell'umanità.
— Pensa che dopo le ultime sanzioni dell'Ucraina contro la Russia, sia possibile una guerra tra paesi slavi?
— I governanti di Kiev stanno cercando di bruciare tutti i ponti alle loro spalle. E in tal caso difficilmente la Russia potrà trattenersi dalla guerra. Se la guerra fosse tra Russia e Ucraina, indubitabilmente, Poroshenko non avrà scampo. Ma c'è il rischio che a Kiev voglia coinvolgere la Nato e gli Usa, e in tal caso sarebbe guerra mondiale. Ma credo non succederà, il governo ucraino non è folle.
— Mi può parlare dell'attività dell'Interbrigady (le brigate russe organizzate dal Partito Nazional-Bolscevico per combattere in Donbass a fianco delle Repubbliche Popolari n.d.r.)?
— Nelle Repubbliche Popolari del Donbass combatte un battaglione comandato dal nazionalbolscevico Sergej Fomcenkov, mentre commissario è il nazionalboscevico Zachar Prilepin, tra l'altro scrittore talentuoso. Tuttavia questo battaglione è un movimento non strettamente di partito, si tratta di «Interbrigady», un movimento russo di volontari «largo».
— Cosa pensa degli Accordi di Minsk sottoscritti da Russia, Ucraina e Unione Europea?
— Personalmente ritengo che la guerra nel Donbass sia stata mutilata dagli Accordi di Minsk, con il sostegno ovviamente della Russia. La rivoluzione russa nel Donbass è finita e ora il nostro battaglione è al servizio delle Repubbliche Popolari o più precisamente del loro leader Zacharchenko. Zacharcenko non ha nessuna autonomia, ora il nostro battaglione dovrebbe essere utilizzato in qualche provincia russa. Non è per questo che il nostro partito ha lottato. Ma noi amiamo comunque i nostri compagni.
— Lei pensa che la Russia sia un paese democratico?
— Le rispondo in due parole: la Russia non soddisfa nessun requisito democratico, il potere di Putin è assolutista e senza alternative.
— Il vostro partito è represso?
— La repressione è evidente nei nostri confronti. Abbiamo dei compagni del nostro partito che sono in galera. Il nostro compagno Staroverov, per esempio, per aver non rispettato le condizioni della libertà provvisoria, è stato mandato in un campo di lavoro per tre anni. E questo è solo un esempio. Allo stesso tempo, il signor Aleksey Navalny, capo della cosiddetta opposizione liberale moscovita, pur non avendo rispettato le stesse condizioni più e più volte, circola liberamente.
— Ritiene sia possibile un «fronte unico» democratico con i partiti di opposizione alla alla Duma, i liberali o i gruppi di estrema sinistra anarchici o trotskisti?
— Per quanto riguarda i partiti in parlamento come i liberaldemocratici di Zirinovskij, il Partito Comunista della Federazione Russa di Zjuganov o i «socialdemocratici» di Mironov, non possono essere considerati per un solo istante opposizione: si tratta di complici del potere. Le opposizioni in Russia, quando non sono represse, conducono un'esistenza miserabile. I liberali? Ci sono quelli al potere come Anton Siluanov, German Gref Elvira Nabiullina, Aleksey Kudrin… e quindi secondo lei con chi mai sarebbe possibile fare un «fronte unico»? La sinistra è costretta ai margini e sopravvive, mentre i liberali tipo Navalny o Kasparov ci hanno tradito almeno due volte. L'ultima volta nel dicembre 2011 quando separarono i loro manifestanti da quelli più radicali all'Isola Bolotnaya (Limonov fa riferimento agli scontri tra giovani dell'opposizione e polizia che in seguito portarono all'arresto e alla condanna ad alcuni anni di reclusione dei dirigenti della manifestazione tra cui militanti di sinistra e nazionalbolscevichi ndr). Costoro sono nostri nemici, ancor di più del governo. Almeno Putin ha riunificato la Crimea alla Russia.
— Putin, negli ultimi anni, in Europa ha stretto alleanze con forze di estrema destra sovranista come Marine Le Pen del Front National in Francia, Matteo Salvini della Lega Nord in Italia. Pensa sia possibile un confronto anche con forze di sinistra come Podemos in Spagna o il Front de Gauche in Francia che sono comunque all'opposizione della politica imperiale dell'Unione europea?
— Putin durante la conferenza stampa seguita all'incontro con Macron a Versailles, ha affermato che Marine Le Pen è volata qui a Mosca e ci ha detto cose che a noi russi, e al nostro Stato, sono piaciute. In termini di sanzioni e non solo. Le abbiamo recepite bene. Macron non è venuto qui da noi, non ci ha detto nulla, lo avremmo accolto comunque. Le elezioni le ha vinte lui ed è diventato presidente. Bene, nulla da ridire. Secondo me il fatto che la Russia non si intrometta negli affari di altri paesi, non è cosa buona. Noi russi dobbiamo intrometterci negli affari di altri Stati e sostenere le forze di chi non è contro di noi. In Russia, in Lituania, in Francia e anche in Italia.
— Cosa pensa della questione degli omosessuali e più in generale Lgbt?
— I gay e le lesbiche cercano di appoggiarsi alla sinistra russa e internazionale per provare a cambiare la mentalità del nostro popolo. Tuttavia questo non piace al nostro popolo e neppure a tanti della sinistra russa. Se i gay e le lesbiche russi non esigessero che li si amasse e li si accettasse nel mondo politico tutto andrebbe bene, tutto sarebbe ok. Il popolo russo non intende discriminarli o condizionare la loro vita privata. Il problema dei gay e delle lesbiche in Russia è che vogliono partecipare alla vita sociale in qualità di forza politica e morale. Da questo punto di vista, il nostro popolo non li accetterà in quanto tali nei secoli dei secoli. Noi siamo un popolo «macho». Per questo il popolo si opporrà all'imposizione di altre norme di vita sociale.
— Alcuni filosofi russi come Nikolaj Berdajev si sono dilungati sull'«anima russa». Esiste «l'anima russa» o è semplicemente uno spazio geopolitico?
— Anima? Anima russa? Di solito non uso questa terminologia. I russi hanno coltivato dentro sé un'«anima», sicuramente più di altri popoli. Inevitabilmente, per alcune circostanze, hanno dovuto svilupparla molto di più di altri. Gli slavi, in generale, hanno un interesse particolare per il misticismo e la contemplazione. Tutto ciò a volte non ci ha favorito nella storia. Ma per non perdere di vista il mondo reale, ci siamo radicati nel mondo scandinavo e tedesco.
— Quest'anno è l'anniversario della rivoluzione russa del 1917. Molti ne parleranno, ma rivoluzione leninista resta ancora attuale?
— La rivoluzione russa del 1917 è stata la prima rivoluzione nel mondo dei lavoratori. Il mondo ha iniziato a immaginarsi diversamente dopo: la Cina ha assunto un infinito colore rosso. La rivoluzione russa la fecero Lenin e Trotsky e Stalin ebbe allora il merito di non interferirvi.
Il «bandito» della letteratura russa guarda nello spioncino, decide che non c'è pericolo e apre la porta. Ci troviamo all'ultimo piano di un palazzo color pastello, un migliaio di passi da piazza Majakovskij, Mosca. È stata Olga ad accompagnarmi davanti a questa porta, 34 anni, tassista, capelli rasati, denti d'oro. L'avevo incontrata alla sede del partito Drugaja Rossia, l'Altra Russia, fondato da Limonov nella cantina di un edificio in centro. All'interno di due stanze senza finestre e porte con le sbarre di ferro chiuse a chiave e in una luce gialla e con la musica rock patriottica a tutto volume, c'era un gruppo di militanti. Bevevano tè e scrivevano manifesti, ragazzi giovanissimi vestiti di nero, che abitualmente trascorrono ore e ore tra pareti tappezzate con le pagine dei libri del loro mentore e del giornale da lui fondato, la Gazeta Limonka. Ero andata a cercare Edward Limonov laggiù, sottoterra, dove non va quasi mai, seppi dopo. Lui non c'era, infatti, ma la sua ombra, la sua tuttofare, Olga, era vigile:
«Edward è un dobrij celovek, un uomo gentile — mi dice — e accetta l'intervista, andiamo».
Avevo quindici domande sul taccuino, ma in testa una sola. Chi avrebbe aperto la porta della casa di Limonov? Il protagonista di un romanzo o un uomo? La canaglia letteraria e alcolizzata partorita dalla penna francese di Carrère? O, ancora, l'uomo che spara sotto gli occhi compiaciuti del comandante serbo Karadzic? Il maggiordomo, il dandy, il rivoluzionario, il combattente? Insomma, chi mi troverò davanti, Limonov o il suo dvoinik, il suo doppio, il sosia letterario o entrambi? 〈…〉
〈…〉
[L'intervista completa è pubblicata su «Reportage» n°35, acquistabile qui in cartaceo e in versione digitale.]
Non stringe la mano sull'uscio: «Porta sfortuna». Ha un anello col volto di Mussolini: «Ma lo porto solo in casa». E sulla spia avvelenata a Londra, ha una certezza: «Ma quali russi! Si ricorda il Dottor No di James Bond? È stato un diabolico Dottor No a fare il lavoro. Questo Skripal non contava niente, era in pensione da 14 anni, insegnava storia dell'intelligence ai ragazzini delle scuole russe. Putin è molto intelligente, che interesse aveva a farlo fuori? Può crederci solo quella vecchia scopa di Theresa May, quest'inglese volgare che si crede Churchill, batte in arroganza Trump e dimentica cosa fecero i sovietici per aiutare i suoi padri!». Quinto piano, interno 110. In un modesto bilocale verso piazza Majakovskij, due guardaspalle armati e due porte blindate, alle spalle mille esistenze di scrittore e politico, bolscevico e nazionalista, playboy e gay, combattente nei Balcani e punk newyorkese, Eduard Limonov parla di vite che non sono le sue: «Questi avvelenamenti sono una commedia. Una guerra di parole».
— Lei che ne sa?
— Il mondo delle spie l'ho conosciuto in prigione. In cortile c'era un ufficio del Fsb, l'ex Kgb, e quando sono uscito e mi seguivano 12 agenti, li conoscevo tutti. Li ho ancora dietro, anche se vado al ristorante. Ho 75 anni: perché non mi lasciano in pace?
— La seguiranno anche domenica al voto?
— Non voto. Sono elezioni farsa da molto tempo. Nel 2007 le hanno vietate al mio partito, ho avuto tre denunce che mi fa schifo anche ricordare. Nel '92, io già dicevo che bisognava combattere per la Crimea e per il Donbass. Putin m'ha rubato le idee, s'è impossessato dei risultati, ha fissato il voto nell'anniversario dell'annessione della Crimea e nemmeno mi dice grazie: dobbiamo rassegnarci, ci danno un menù scritto da loro, e lui cucina tutti i piatti.
— Ma sarà il suo ultimo mandato…
— Ne è sicuro? Nella sua famiglia vivono a lungo, i suoi genitori sono arrivati a 90 anni. Ma voi europei siete ossessionati, pensate che Putin sia il motore di tutto. Il Paese è governato da 30 famiglie, l'1% che possiede il 74% delle ricchezze. Peggio che in India. Lui è solo il loro brillante portavoce, una delle torri del Cremlino. Non gestisce la baracca. Ha padroni che si chiamano Mikhail Fridman, fondatore di Alfa Group.
— E gli oppositori?
— Tutti finti. Navalny è uno che stava nel board dell'Aeroflot, raccomandato dal banchiere Lebedev. L'ambiziosa Ksenia Sobchak è parente di Putin: le hanno dato la parte della liberale, ha voluto perdere in partenza dicendo subito che la Crimea va restituita all'Ucraina. E poi c'è quel furbastro Grudinin che si fa passare per comunista: un idiota, predica il socialismo e possiede una società per azioni, fa il padrone capitalista.
— Lei è famoso per amare personaggi oltre la decenza: Stalin, Evola, Mishima…
— Ero anche grande amico di Karadzic, Milosevic, Mladic. Quei mascalzoni dei giudici dell'Aja li hanno condannati solo perché hanno combattuto una guerra civile.
— Beh, hanno massacrato migliaia di civili…
— Punti di vista. Anch'io ho fatto il mio dovere in Serbia, in Transnistria, in Abkhazia, nel Tagikistan: è dal '95 che non posso più uscire dalla Russia, rischio l'arresto. Dovrei venire al Salone del libro di Torino, ma come faccio? Cambiamo discorso…
— Trump…
— M'interessava molto da candidato. Diceva cose ciniche, poco gradevoli. Ma da presidente è cambiato, non ha più coraggio. È solo uno disgustosamente ricco, circondato da prostitute. L'ha visto l'arredamento di casa sua? Però ha sempre fiuto per i pericoli. Pensi al muro col Messico: un giorno, saranno i messicani a seppellire gli Usa, come stanno facendo gli islamici con l'Europa.
— Non esagera?
— Siamo noi russi i veri europei, non voi. Trovo interessante solo il risveglio di Polonia, Ungheria, Romania.
— Come Putin, alla fine anche lei sostiene movimenti antieuropei.
— I populisti in Italia e altrove sono interessanti. Ma bisogna vederli al potere. A me piace anche Orbán, uno dei pochi che amano la Russia.
— Lei è diventato famoso col libro di Carrère. Ora uscirà un film…
— La mia biografia mi ha dato pubblicità, l'hanno tradotta perfino in Cina e in Brasile, ma è piena d'invenzioni. Di Carrère, ricordo solo dieci giorni passati insieme. Insopportabili! Del film, non ho letto la sceneggiatura. Se è una merda, stavolta protesto.
Nuova autobiografia dello scrittore-avventuriero. Che dopo vent'anni uscirà dalla Russia per venire al Salone di Torino. E del libro che lo ha reso un mito dice: «Quella non è la mia vita, ma mi ha resuscitato». Dallo Speciale libri, l'inserto del Venerdì in edicola il 4 maggio.
L'uomo dalle centomila vite ti guarda con uno sguardo luciferino e ogni tanto esplode in una risatina stridula. Deve aver fatto un patto con il diavolo alla Dorian Gray se, superati i 75 anni, non c'è nulla in lui che si discosti dall'iconografia di sempre: fisico asciutto, faccia aguzza, baffi e barbetta affusolata in un pizzetto alla Trotskij.
Teppista, mendicante, scrittore, poeta, intellettuale, dissidente, Tigre di Arkan e poi fondatore del Partito Nazional Bolscevico. Limonov è anche un simbolo e soprattutto un personaggio letterario. La sua vita è stata narrata da Emmanuel Carrère nel libro che porta il suo nome.
L'originale — non quello descritto da Carrère che avete letto in «Limonov» — appare come da una quinta di Cecov: la sua ombra nera attraversa un roseto su una terrazza-giardino magnifica sotto le stelle romane. Lo attende una piccola compagnia eterogenea ma subito affiata, grazie alle ospiti, Delfina e Valentina Parlato, che per tutta la sera ci daranno da mangiare e bere con grande gentilezza, tollerando nubi di fumo denso come se il padrone di casa, Valentino, fosse improvvisamente ricomparso qui, questa sera, aspirando nicotina dall'eterna sigaretta tra le labbra.
Eduard Limonov è magro, non alto, appare quasi esile, delicato. Lo avevo immaginato, leggendo le imprese descritte da Carrère, di notevole statura, quasi nerboruto, persino la voce è quasi un sussurro. Parla francese anche se Marc Innaro, grande inviato della Rai, e il suo editore Sandro Teti lo incalzano in russo. Anche l'età, seppure ben conosciuta, è quasi indefinibile: certo è anziano ma non vecchio, è vigile, attento ed estremamente educato. Non c'è quasi niente del narciso che immaginavo, anzi. È schivo. Lascia la scena della conversazione a Luciana Castellina che racconta dei funerali di Togliatti, quando lei si perse Breznev tra una folla di un milione di persone mentre tutti correvano a piedi dietro alla bara con Dolores Ibarruri in testa al corteo. E lei, Luciana, era terrorizzata di non ritrovare nel bailamme uno dei capi del Pcus.
Però c'è una cosa di Limonov che lo rende «Limonov l'Originale»: il fascino del profeta delle periferie, di quello nato quasi povero, in un mondo duro, aspro, e che è finito di nuovo al centro del mondo: «E' vero Carrère ha molto romanzato e forse mitizzato la mia storia ma a lui devo anche il ritorno di interesse per le mie opere».
E' qui in Italia per presentare la sua autobiografia, «Zona Industriale», che in russo ha un altro titolo «Siry»: «Sono andato ad abitare nella zona industriale di Syry a Mosca dopo il carcere. Lasciare la prigione è stato bello. Nonostante avessi 60 anni potevo ricominciare da capo. L'uomo è fatto così, levagli il pane ma lasciagli la possibilità di rifarsi una vita. In prigione sono diventato saggio».
In questa frase breve e secca affiora il Limonov che pensiamo di conoscere, quello che non si arrende ai rovesci della sorte, alle dormite da ubriaco sulle panchine di New York, alle soffitte di Parigi, ai bassifondi e al fondo dell'esistenza: «No, Carrere su certi dettagli intimi della mia vita non ha mentito», dice. «Neppure sulla mia vita di combattente in Bosnia con i serbi».
Abbiamo ben poco in comune ma la guerra in Jugoslavia sì. Gli chiedo di Radovan Karazdzic, che avevo conosciuto quando spadroneggiava all'Holiday Inn di Sarajevo. «Ne hanno esagerato il ruolo, come poeta non era granché e forse come capo politico era pure riluttante. Nonostante le pose da condottiero erano altri che dirigevano le danze». E parla anche di Putin: «Non è solo a comandare come credete qui, deve farlo con le grandi famiglie, con i clan, con quelli che contano nell'industria e nella finanza».
Torna a parlare di Syry. «Era un quartiere polveroso dove il sole riscaldava temibili cani randagi, c'erano forse più guardiani che operai nei cantieri. Di notte il buio era impenetrabile, si sentivano stormire le foglie e fischiare i treni: a volte da lontano arrivava l'eco di risse tra abbruttiti dall'alcol e senzatetto. Tutto questo accadeva a cinque minuti dalla civiltà e dai centri commerciali scintillanti».
Poi poco a poco è cambiato tutto. Sono comparsi i primi portoni di metallo e i citofoni mentre i discendenti degli operai si resero conto che la posizione centrale dei loro appartamenti poteva farli vivere di rendita. «E' così che sono arrivati i nuovi ricchi, attraverso il recupero della zona industriale, un processo cui avevo già assistito prima a New York e poi a Parigi: la civiltà cominciava a conquistare Syry scacciandone i fantasmi». Qui ha vissuto Limonov per alcuni anni dopo il carcere, in un fatiscente appartamento in cui si sono avvicendati in visita donne, politici, scrittori. «Per la prima volta in questo posto respingente ho portato anche mia moglie, la futura madre dei miei figli». L'Attrice, come la chiama lui senza nominarla, di trent'anni più giovane.
La società consumistica intanto avanzava inesorabilmente sul quartiere, inghiottiva Syry e la vita di Limonov. Che, eccolo qui, ci regala quello che lui definisce non autobiografia ma un «romanzo moderno». Volete la verità sui lui? Chiedetela alla letteratura o viaggiate con Limonov, a vostro rischio, pericolo e divertimento. Fino in fondo, come deve essere la vita.
Con 'Zona industriale' al Salone di Torino il 12 maggio.
Non si riconosce nel ritratto che ha fatto di lui Emmanuel Carrère, ma Eduard Limonov non disconosce il valore che ha avuto per la sua fama la biografia romanzata che lo scrittore francese gli ha dedicato, uscita per Adelphi nel 2012.
«E' una sua opera. Non deve piacermi. Carrère mi ha visto così, io non mi vedo come mi descrive, ma non è importante perché lui per me ha fatto una gran cosa. Mi ha presentato al pubblico di massa. Il suo romanzo è stato tradotto in 35 lingue. Ha avuto un successo strepitoso e impensato per lo stesso Carrère e dunque per me»
dice all'ANSA Limonov che per la sua prima uscita dalla Russia, dopo 23 anni, ha scelto l'Italia. Nel nostro Paese è venuto a presentare «Zona industriale» (Sandro Teti Editore, euro 16), la sua autobiografia con cui è attesissimo al Salone Internazionale del Libro di Torino, il 12 maggio. Il tour italiano che lo vedrà protagonista è partito da Roma: domani lo scrittore russo sarà alla casa delle Letterature e poi, tra le altre tappe, sarà a Milano il 14 maggio, a Ferrara il 16 maggio e a Firenze il 17 maggio.
«Del Limonov di Carrère ho letto le prime 45 pagine e mi sono state sufficienti. Io non scavo dentro di me, lascio agli altri il diritto di vedermi come vogliono. Adesso scrivo tre articoli a settimana. Sono attivissimo come giornalista»,
spiega Limonov che vive a Mosca e anche in carcere non ha mai smesso di scrivere.
Poeta, scrittore, giornalista, leader politico, fondatore del Partito Nazional-Bolscevico, discusso, controverso, maledetto, radicale tanto da scontare per la sua ideologia periodi di reclusione, Limonov stupisce sempre.
«Volevo cambiare la faccia della Russia e ci sono riuscito. Penso che il mio impatto sul potere politico in Russia sia visibile. Sono riuscito a influenzare la politica estera del Paese»
dice. In «Zona Industriale», in cui si trovano riferimenti al Faust di Goethe, Limonov racconta il periodo immediatamente successivo alla scarcerazione nel 2003, dopo due anni di reclusione. Nelle 230 pagine del libro da voce alla vita e alla sua solitudine in un quartiere desolato nel centro di Mosca, l'ex zona industriale Syry, dove vive con il topo Krys che si arrampica sulle sue gambe e mangia sapone con il quale ha un legame speciale.
«Sono uscito dal carcere e avevo bisogno di un appartamento. Lo ho trovato a Syry ed è stato interessante. E' un luogo mistico»
spiega lo scrittore che al suo arrivo a Roma ha subito fatto un giro nei luoghi di Pasolini.
«Calopresti vuole fare un documentario con Limonov nei luoghi pasoliniani»
dice l'editore Sandro Teti che si è molto speso per l'arrivo del leader nazionalbolscevico in Italia.
«Sono stato a Roma nel '74, un anno prima della morte di Pasolini e non ci sono passato invano e ne avevo già disquisito»
spiega lo scrittore, 75 anni, che ha vissuto a New York, Parigi, Sarajevo dopo la giovinezza in Ucraina e la vita a Mosca.
Per lui «Zona industriale» è «un romanzo moderno» nel senso che
«la vita moderna è frammentata, non è unica. Un uomo esce di prigione e inizia una nuova esistenza in un luogo allucinato. A Syry ho passato 5 anni della mia vita e racconto tutto ciò che di interessante mi è capitato lì. C'e' stata una specie di gentrificazione, un fenomeno di cui sono stato testimone anche nelle altre metropoli del mondo in cui ho vissuto. Ora Syry sta diventando una zona di gallerie d'arte molto care, di uffici e banche».
Quello che racconta Limonov è tutto vero, anche il suo rapporto con il topo bianco Krys.
«L'uomo è sempre solo, perfino in carcere dove è forte la prossimità ossessiva con tante persone»
spiega.
Nell'autobiografia sono grandi protagoniste soprattutto le donne. Troviamo la ventenne Nastja che lo ha aspettato mentre era in carcere, a cui dedica il capitolo «La bambina bullterrierina», poi Varenka e l'Attrice famosa, di 30 anni più giovane di lui che gli ha dato due figli e la grottesca spogliarellista Lola Wagner.
«Le donne abitano vicino a noi. Penso siano qualcosa di diverso, un'altra specie di essere umano rispetto agli uomini. Forse non ci sono prove scientifiche di questo, ma mi basta questa mia convinzione interiore»
dice prima di concedersi al pubblico che lo aspetta alla libreria Ibis.
Scrittore, politico o sovversivo a seconda del periodo della sua vita che si vuole prendere in considerazione. È stato anche a Varese per il tour di presentazione del suo libro «Zona industriale».
Emmanuel Carrère ne ha scritto la biografia e lo ha consegnato alla storia. Lui, di contro, quel libro non lo ha neanche letto ma è felice di raccogliere i frutti della fama che il best seller gli ha regalato.
Eduard Limonov, scrittore, politico o sovversivo a seconda del periodo della sua vita che si vuole prendere in considerazione, sta girando l'Italia per un tour di presentazione del suo libro «Zona industriale».
È stato da protagonista sul palcoscenico del salone del libro di Torino e a Roma ma nuovi appuntamenti sono già fissati a Milano, Firenze e Ferrara. In mezzo, l'editore Sandro Teti, ci ha infilato una tappa proprio a Varese, nel borgo di Penasca (San Fermo) a Varese, all'interno del circolo «Ra Ca' dur Barlich» con l'organizzazione dell'associazione Terra Insubre e Andrea Mascetti.
Quello di Limonov è un tour di provocazione, lo ha detto lui stesso a Varese: «chiedetemi qualunque cosa, io risponderò». È così che sono uscite alcune delle iperboli che hanno caratterizzato il personaggio.
Putin, ad esempio, per Limonov «è un moderato, io sarei molto più deciso». Gli Stati Uniti? «dopo le guerre e la caduta dell'Urss si sono eretti a gendarmi del mondo come un nuovo impero romano. Gli Usa sono un paese pericoloso e senza democrazia. Loro sono il vero aggressore a livello mondiale e spero che tutti i messicani scavalchino il muro per frantumare gli stati Uniti in 3 o 4 stati e renderli innocui. Però anche la loro epoca è finita: ora c'è la Cina, che non è meno pericolosa».
Limonov ha anche raccontato il suo rapporto con Carrère:
«l'ho conosciuto negli anni '80 a Parigi, poi ci siamo rivisti dopo molto tempo a Mosca nel 2006. È stato un'intera settimana con me e, a dirla tutta, mi ha anche seccato molto. Poi mi ha richiamato e ha detto che voleva scrivere un libro su di me. Io non lo avevo preso sul serio e quel libro non lo ho neanche finito di leggere. Non mi sarei mai aspettato che diventasse un best seller. Comunque gli sono grato qualsiasi cosa ci abbia scritto, mi ha rivitalizzato».
Dopo l'incontro con la stampa lo scrittore si è fermato per un aperitivo aperto al pubblico.
«Io non cerco di fare psicoanalisi. Accetto le cose come sono».
Una frase che ha la stessa potenza lapidaria di un detto zen, un mantra o un premio di consolazione, eppure proviene da una persona che ha scelto la direzione inequivocabilmente e appositamente scomoda attraverso cui dirigere la propria esistenza. È convinto Eduard Limonov. Sicuro e fermo sulle proprie posizioni, come chi è abituato a guidare il timone della propria vita e sa dosare i tempi giusti e domare le tempeste, prendendole di petto. Del resto la stasi — di qualunque genere essa sia: esistenziale, politica o culturale — non gli è mai andata a genio:
«Avevo undici anni e mentre guardavo un albero fuori dalla finestra della casa del quartiere operaio in cui vivevo, pensavo: «possibile che guarderò per tutta la vita questo albero merdoso?»».
Ha infatti tentato di progettare la sua esistenza in modo tale da lasciarsi la stasi alle spalle, tentando di sfuggirla o di sconfiggerla. La sua vita, i suoi progetti di vita, sono materia incandescente, anche per la letteratura e la politica ed è proprio questo materiale che ha voluto trasmettere nella sua ultima opera letteraria.
Presso il circolo «TerraInsubre» di Varese, in una piovosa domenica pomeriggio, l'esteta armato, il proletario della politica Eduard Limonov ha presentato il suo nuovo libro, un'autobiografia, vergata di suo pugno, dal titolo «Zona Industriale» (SandroTeti Editore). Nella conferenza stampa è un fiume in piena. L'Italia dice di conoscerla abbastanza bene, anche se non del tutto.
«Conosco la vostra storia. Ho vissuto in Italia per qualche mese, nel 1974. In quel periodo l'Italia era attraversata da scontri, c'erano bandiere rosse dappertutto, nelle piazze e nelle università. Mi piaceva molto quel casino».
Parla di geopolitica, di carcere, di letteratura, immancabilmente di Russia e di rapporto con il trascendente. Limonov è una figura che vuole rompere i cancelli, vuole spiazzare, frantumare per poi ricomporre un personale quadro con le proprie coordinate esistenziali, artistiche e politiche. A volte sembra un situazionista allievo di Tristan Tzara, altre un sociologo allievo di Guy Debord, altre ancora un soldato che non disdegna andare oltre frontiera a rimettere le cose a posto. Trascorre i suoi trent'anni in larga parte a New York, dove sperimenta gli scarti dell'esistenza. Successivamente, per via di una propulsione esistenziale, ritorna in Francia, a Parigi, non più da esule ma da nuova promessa della letteratura underground, con una raccolta di poesie dal titolo «Il poeta russo preferisce i grandi negri». Con il crollo dell'Unione Sovietica e degli stati dell'est, Limonov decide di impegnarsi attivamente nella lotta per la sopravvivenza culturale e politica del popolo russo. Scrive persino alcuni reportage, fa l'inviato di guerra, ma ad un certo punto decide che la guerra vuole combatterla pure lui.
«Ho combattuto in Transnistria, in Serbia. Tentammo di organizzare varie insurrezioni. Mi hanno arrestato mentre ero sul monte Altaj, sono stato condannato per vari reati tra cui banda armata e possesso di armi. Prima della Crimea volevamo fare la stessa cosa in Kazakistan».
La conseguenza di queste azioni si è concretizzata nel carcere, esperienza mai rinnegata né denigrata, ma, anzi, esaltata a luogo di formazione mistica:
«il carcere è come un monastero, può essere proprio paragonato all'ascetismo che si trova in certi monasteri. È il luogo in cui l'uomo si incontra con il caos ultraterreno. In carcere, ad esempio, ero molto più intelligente di adesso. C'erano persone che segnavano i giorni che passavano con una linea sul muro e li cancellavano giorno dopo giorno. Io ho avuto un approccio completamente diverso. Mi sono detto: 'vivo qui' e ho continuato a vivere».
Gli si chiede se crede in Dio e Limonov, con serenità, risponde:
«Sì, credo nel Creatore, non credo in Gesù Cristo. Sono un eretico. Se pensavate di trovare un cristiano cattolico o ortodosso siete rimasti delusi».
Limonov provoca, lo sa, sa che l'occidente ha bisogno di icone, di figure da criticare e demolire, per poi al tempo stesso riabilitarle, portarle a braccetto e fare un selfie in loro compagnia. Ha visto troppo per farsi piegare dalla tempesta della moda, perché sa che, come tutte le tempeste, può essere, se non domata, almeno schivata. Lo ammette lui stesso:
«Non puoi cambiare il passato. Non siamo come in una competizione di salto in lungo, in cui hai la seconda e la terza prova. È così. Io ho vissuto molto intensamente».
Durante la serata a Ferrara del suo tour italiano Eduard Limonov è stato definito da Vittorio Sgarbi «una leggenda in carne e ossa, tutt'altro che un'invenzione letteraria» di stampo consumista, mi azzarderei ad aggiungere. Consumo di idee, di idoli e di esistenze relegate alla superficie, al piacere di qualche sensazione effimera. Personalità che rischiano di essere ridotte a personaggi e di scadere su una copertina. La corruzione del Kitsch di kunderiana memoria ha usurato persino le fondamenta del Novecento più puro. Tuttavia Eduard Savenko sa bene quanto sia sottile il confine tra realtà e finzione, e reagisce ignorandolo. D'altronde, agli estremi si ottiene la massima conservazione, specialmente se si tratta di ideali. Forse è sempre stato tanto radicale, tanto intellettualmente intransigente per questo. A volte prendersi sul serio aiuta a non perdere le proprie convinzioni.
— «Zona industriale» (Sandro Teti Editore) prende le distanze dal ritratto fattole da Emmanuel Carrère?
— Non mi sento in competizione con l'immagine che Carrère ha reso di me. Ne ho letto infatti solo poche decine di pagine. Ho detto più volte di essergli grato per avermi fatto conoscere al grande pubblico in Europa. Vorrei ricordare, però, che quando fu dato alle stampe il suo romanzo, una biografia che credo non veritiera, avevo già pubblicato molte opere, sia in russo sia nelle principali lingue occidentali.
— Sembra che abbia sempre perseguito un'evoluzione costante, dall'aver cambiato il suo cognome in avanti. A causa di una fervida immaginazione?
— Ho assunto il nome d'arte di Limonov da decenni. Io? Certo che sono in evoluzione. Solo i mediocri non lo sono. Mi limito a raccontare il mio quotidiano e non ho bisogno di inventare nulla. Ovviamente, sono creativo e possiedo immaginazione che utilizzo nella stesura di poesie, ad esempio, ma anche e soprattutto per l'ideazione dei miei progetti politici.
— Non si è mai sentito un modello, un eroe? In tal caso, chi sarebbe il suo antagonista?
— Non mi considero e non mi sono mai considerato un modello per alcuno, tantomeno un eroe. Ho vissuto nella coerenza delle mie idee di artista e politico. Se poi gli altri pensano che il mio sia un percorso da prendere come riferimento, facciano pure. A me interessa poco.
— Confrontando la sua fruttuosa solitudine con il «Faust» di Goethe emerge l'imperativo di bastarsi per mantenere l'equilibrio.
— Sicuramente è una componente essenziale per riuscire a stare bene con gli altri.
— Non preferisce la forma provocatoria del conflitto?
— Entrambe le cose. Anche se continuo a ritenere che combattere in certe situazioni sia necessario, se non indispensabile.
— Ha trascorso cinque anni a Syry; perché l'ha definita un'esperienza mistica?
— La zona industriale di Syry, quando sono arrivato io, era praticamente disabitata. Poche persone di giorno la attraversavano. Era questa atmosfera di abbandono e di desolazione a trasmettermi un'aura di misticismo. Nel periodo che ho trascorso nel quartiere ho assistito alla gentrificazione di Syry di cui ho argomentato nel libro.
— La sua battaglia nei confronti della politica di Putin deriva dalle sue posizioni anarchiche. È un tentativo di distruggere l'idea di ordine immutabile che egli incarna?
— Di Putin mi limito a dire che in politica estere dovrebbe assumere degli atteggiamenti più decisi nei riguardi dell'Occidente rispetto a quanto fatto finora…
— L'esperienza del carcere l'ha fatta scendere dal piedistallo della sua conoscenza e della sua intelligenza. Ha mai temuto di aver perso di vista le condizioni del suo popolo?
— Quando sono stato in prigione ho iniziato a vivere come richiedeva quel luogo. In modo semplice, senza fronzoli. Per me è stata un'esperienza umanamente molto significativa. Intendevo questo quando nel libro ho scritto di «essere sceso dal piedistallo del mio intelletto e del mio sapere».
— Che rapporto ha con la possibilità del «martirio»?
— Il mio partito è stato messo fuori legge addirittura prima dei più pericolosi gruppi terroristici islamici. Ciononostante non mi sento affatto un martire e ho affrontato con serenità la galera.
— Perché ammira tanto Pasolini?
— Apprezzo le opere di Pasolini perché lui, come me, racconta le difficoltà della vita vera. Una vita che sulla pagina è resa senza filtri senza badare a essere — come si dice oggi — «politicamente corretto».
— Non crede sia banale, magari trito e sdolcinato, definirsi «nichilista» dopo l'affermazione del capitalismo occidentale?
— Ho ricevuto un'infinità di etichette tra le quali pure questa; che siano i lettori a giudicarmi. So solo che penso le stesse cose che pensavo 25 anni fa.
Nei giorni scorsi Eduard Limonov era in Italia per parlare di «Zona Industriale», il suo ultimo libro. In molti aspettavano l'occasione di vedere lo scrittore russo che per anni non ha avuto il permesso di lasciare il proprio Paese. A Torino, dove il Salone del Libro aveva organizzato un'intervista pubblica, la Sala Gialla era al completo solo per lui. Limonov però ha sostenuto idee incompatibili con le categorie occidentali di Bene e Male. Chi si aspettava un incontro con un rispettabile signor scrittore ha dovuto presto ricredersi. Limonov non è una figura pacifica, è un antiborghese che ha in odio le società opulente. La sua indomita opposizione a Putin piace alle platee delle persone perbene, ma al tempo stesso le sue idee sono inconciliabili con il loro canone democratico. Limonov è un'anomalia. A Torino ci sono stati applausi, ma anche momenti di tensione, soprattutto tra gli organizzatori dell'incontro. L'intervistatore, Marino Sinibaldi, è stato il primo a non reggere la crudezza dell'intervistato e quando ha giudicato le risposte dello scrittore troppo oltraggiose lo ha interrotto, sentendosi in dovere di prenderne le distanze.
Lo scrittore russo ha vissuto una dozzina di vite, oggi ha settantacinque anni, ma il suo corpo è asciutto e allenato com'era nella fotografia di copertina della biografia di Carrère. Ogni giorno dedica una parte del suo tempo agli esercizi, pratica che ha iniziato da adolescente e che non ha mai interrotto, nemmeno durante la prigionia. Nel 2001 è stato arrestato e rinchiuso a Lefortovo, un carcere dove, nell'Unione Sovietica prima e nella Russia oggi, vengono mandati i più pericolosi nemici dello Stato. Non è un carcere comune, ma un'ex-fortezza del KGB situata nei dintorni di Mosca, la cui esatta ubicazione non è riportata su nessuna pianta della città.
Quando Limonov venne trascinato in carcere non gli fu permessa nessuna assistenza legale. Gli furono proibite le visite e nascosti i capi di accusa. Come tutti i detenuti di Lefortovo dovette sottostare alla dieta ipoproteica che il sistema carcerario usa per indebolire i suoi ospiti. Gli uomini che escono dall'isolamento di Lefortovo sono distrutti, ridotti a relitti psichici, ma non Limonov, che grazie alla sua autodisciplina è venuto fuori da quell'esperienza addirittura rafforzato. Ha affrontato il carcere imponendosi un rigido programma di lavoro: si è alzato ogni giorno alle cinque del mattino e quando gli è stato consentito l'accesso alla biblioteca ha preso in prestito, uno dopo l'altro, i saggi e i testi di storia. Li ha letti seduto al tavolo, con la schiena dritta, prendendo appunti su un quaderno. Il quaderno è stato l'unico favore che ha chiesto e le guardie glielo hanno concesso perché Limonov, ai loro occhi, era il detenuto modello. Non contestava l'autorità carceraria, rispondeva quando interpellato, teneva in ordine la sua cella. Aveva scelto di obbedire, senza essere servile.
La passeggiata quotidiana si svolgeva al mattino sul tetto della prigione, ma non era obbligatoria così d'inverno, quando all'alba era ancora buio e il freddo insopportabile, i detenuti preferivano rifiutarla, rimanendo nelle loro celle e rigirandosi nella branda. Limonov invece ha sempre preteso di fare la passeggiata a cui gli dava diritto il regolamento, anche quando la temperatura esterna scendeva a — 25°. Per tutta la permanenza a Lefortovo, non ha mai rinunciato a uscire sul tetto, dove per una mezz'ora correva avanti e indietro su uno scampolo di cemento, faceva flessioni, addominali e tirava pugni nell'aria gelida. Le guardie si seccavano di dover lasciare la guardiola riscaldata per quell'unico prigioniero, però ne erano anche impressionate, lo rispettavano e iniziarono a chiamarlo «il professore».
Con il suo sistema Limonov è riuscito a mantenere il corpo reattivo e la mente lucida. In carcere ha scritto quattro libri, tra i quali uno strano e inclassificabile testo, il suo più bello: «Il Libro dell'Acqua», risultato di un'antica promessa. Limonov, quando aveva imparato a nuotare aveva deciso che si sarebbe immerso in tutti i luoghi in cui sarebbe stato e così nel «Libro dell'Acqua» inserisce mari, fiumi, piscine, vasche e laghi, usandoli come pretesto narrativo per raccontare la sua vita. C'è la Costa Azzurra e le acque scure del fiume Kuban, la Senna, una fontana di New York in cui ha fatto il bagno ubriaco, la spiaggia di Ostia poco prima che vi venisse assassinato Pasolini, i torrenti gelidi dell'Altaj, il Mar Nero durante la guerra in Transinistria, la grande vasca del Jardin du Luxembourg in cui meditava di catturare le carpe tanto era affamato. Ovunque sia stato umanamente possibile immergersi Limonov non si è sottratto.
Il suo arresto è avvenuto all'alba nella sperduta regione dell'Altaj, una terra dell'Asia Centrale dagli immensi spazi e scarsamente popolata. Gli uomini dell'FSB, con passamontagna e mitra, hanno circondano le yurte dove Limonov e i suoi si erano accampati per la notte. Ne uscirono a braccia alzate sette individui; Limonov ne era il capo, così gli venne concesso di vestirsi per primo. Gli altri che erano con lui erano nazbol, ovvero membri del partito fondato dallo scrittore, che lui aveva condotto in quella terra isolata ed essenziale per sottoporli ad addestramento paramilitare. I nazbol erano dei ragazzi che per età avrebbero potuto essere suoi figli e che da mesi vivevano su quelle montagne dove avevano imparato a cacciare, sparare, pescare nei torrenti, riconoscere le erbe commestibili e sopravvivere in condizione estreme. Da teppisti di città erano diventati ascetici, forti, la loro pelle si era fatta scura, abbronzata dal sole. Sembravano monaci guerrieri. Gli agenti dell'FSB tenevano i mitra puntati sui sette perché si vestissero velocemente e non pensassero a fare sciocchezze, poi vennero tutti fatti salire su un mezzo militare che li portò alla caserma più vicina, a otto ore di distanza da lì. Durante il viaggio il soldato che sorvegliava Limonov ne approfittò per sussurrargli che adorava i suoi libri e che era fiero di arrestarlo. All'epoca Limonov era ancora semisconosciuto in Occidente, ma non nelle terre russofone e slave, dove godeva di un rispetto trasversale.
Quando l'Unione Sovietica aveva smesso di esistere, i vecchi territori dell'impero erano stati smembrati e la ricchezza collettiva era stata privatizzata in modo frettoloso e diseguale. Era cambiato tutto velocemente, la gente aveva creduto eterno il grigiore sovietico e ora lo vedeva sparire in pochi mesi, le vie e le città abbandonavano i nomi degli eroi del proletariato, Leningrado tornava al vecchio nome zarista di San Pietroburgo mentre Karl Marx era cancellato dai programmi di studio. Nella capitale aprivano negozi e ristoranti come non si erano mai visti, gli anni Novanta furono il momento in cui si impose il modello sociale del «nuovo russo», con i suoi rotoli di banconote e lo stuolo di ragazze appariscenti al seguito, il tipico cafone che ostenta il denaro e maltratta camerieri e sottoposti per dare esibizione di potere sociale. Mentre gli oligarchi si spartivano le ricchezze dello stato, centocinquanta milioni di fessi cadevano in miseria. L'aspettativa di vita del maschio russo passava dai sessantacinque anni del 1987 ai cinquantotto del 1993. Tutti avevano iniziato a vendere tutto, i vecchi in miseria portavano le loro quattro cose alla stazione della metropolitana per offrirle ai passanti, magari svendendo a un turista la medaglia al valore che avevano meritato per aver combattuto contro i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Le vecchie coordinate morali erano diventate inattuali, persino ridicole, la dittatura del proletariato lasciava il posto al libero mercato. È stato questo il momento in cui Limonov ha fondato il suo partito, mosso dall'odio verso tutto ciò che la nuova Russia stava diventando. Limonov attaccò Eltsin, così come oggi attacca Putin. La sua era una formazione agguerrita e antiborghese che chiamò Partito Nazionalbolscevico. Usò il denaro dei diritti d'autore dei suoi libri per aprire la prima base, un bunker insalubre vicino alla fermata Frunzenskaja, più simile a un club underground che alla sede di un partito. I nazbol pensarono a sgomberare i detriti, riparare le perdite e riverniciare le pareti. Arrivavano a decine, attratti da quello che accadeva nel bunker e dalle idee di Limonov. I manifesti del partito avevano una grafica acida, chiassosa e violenta, uno dei volantini di reclutamento recitava: «Sei giovane, non ti piace vivere in questo paese di merda. Non vuoi diventare un anonimo compagno Popov, né un figlio di puttana che pensa soltanto al denaro. Sei uno spirito ribelle. I tuoi eroi sono Jim Morrison, Lenin, Mishima, Baader. Ecco: sei giù un nazbol.»
Il partito prendeva di mira gli oligarchi e i nuovi russi, i nazbol sentivano di rappresentare l'unica controcultura possibile nel loro Paese: andavano a srotolare striscioni sul frontone di edifici difficili da scalare e facevano irruzione alle cerimonie ufficiali lanciando frutta marcia sulle giacche del governatore. Le loro incursioni erano considerate dall'opinione pubblica al contempo immature, disturbanti e coraggiose, ma in Russia con il potere pubblico non si scherza, così arrivarono gli arresti, le pene detentive e infine, dopo anni di lotta, la definitiva messa al bando del partito.
Limonov è una figura non redenta. Per un occidentale la sua vita e le sue idee possono apparire feroci. Durante l'intervista a Torino, Limonov ha ripreso più volte il traduttore invitandolo a non ammorbidire il senso delle proprie parole e a limitarsi a una traduzione fedele. In molti si aspettavano che lo scrittore russo dicesse quello che le persone perbene si aspettano di sentirsi dire da un dissidente, e cioè che Putin è un dittatore onnipotente e che l'occupazione della Crimea è un atto criminale. Ma avevano fatto male i conti. Limonov non desidera affatto una Russia democratica e disarmata. Naturalmente Limonov è anti-Putin, ma non per la sua politica espansionista, quanto per il sistema economico che la sua presidenza garantisce. Per Limonov la piaga della Russia sono gli oligarchi che hanno approfittato dei disordini degli anni Novanta per incamerare gli impianti industriali e i giacimenti di materie prime del suo Paese. Se lui fosse al posto di Putin ha dichiarato che li farebbe fucilare tutti per alto tradimento: non esattamente il tipo di soluzione pacifica per cui i democratici di casa nostra sono disposti a firmare appelli di solidarietà. Limonov non somiglia per niente all'idea che l'Occidente ha degli oppositori russi. Limonov non è Solženicyn, ma un barbaro che da giovane immaginava cose così: «Sogno un'insurrezione violenta. Non sarò mai un altro Nabokov, non andrò a caccia di farfalle per i prati su gambe senilmente nude, pelose e anglofone. Semmai guadagnerò un milione e mi comprerò le armi per organizzare un colpo di stato in un Paese qualsiasi.» Come scrisse in «Diario di un fallito».
Limonov non è diventato un altro Nabokov. Le sue sue idee si sono definite nel tempo, ma l'energia primitiva che lo animava non è si è dissipata, è incredibilmente ancora tutta lì, anche adesso che ha settantacinque anni. Considera l'Europa senza sangue e crede che la forza sia un motore della Storia. Chi sospetta che Limonov sia un provocatore, dovrebbe tenere conto che lui pensa davvero quello che dice, non esagera le sue posizioni per scandalizzare, non è Lars von Trier che gioca a citare Albert Speer e il nazismo contando di scatenare le solite prevedibili indignazioni alle conferenza stampa di Cannes. Quando Limonov invoca il plotone d'esecuzione per i traditori lo dice per davvero, se mai riuscisse a prendere il potere è esattamente quello che farebbe. La violenza, subita ed esercitata, è parte della sua biografia.
Forse è uno degli imperdonabili, il pantheon minore in cui siedono Céline, Hamsun, Brasillach e gli altri reietti della letteratura. Come loro ha scritto e fatto cose che per molti sono spaventose. Nei libri di Limonov ci sono frammenti di verità e su tutti il suo punto di vista, quello di un guerriero mongolo a cavallo che, da un'altura, osserva la città prima del saccheggio.
INTERVISTA. Un incontro con Eduard Limonov, in occasione del suo ultimo libro «Zona Industriale», uscito per Sandro Teti editore. Un romanzo autobiografico che narra anche le trasformazioni urbane indotte dalla gentrificazione.
Eduard Limonov è da tempo rientrato in Russia, dopo il lungo tour italiano per la promozione dell'ultima sua fatica letteraria: «Zona Industriale» (Sandro Teti editore, pp. 230, euro 16). Si affacciava in occidente dopo vent'anni di assenza, anche se nel 2014 aveva fatto parlare di sé, ancora una volta, grazie a Emmanuel Carrère e al suo romanzo uscito per Adelphi. Del resto, il personaggio — nella doppia veste di se stesso e quel che interpreta — ha sempre attirato molta curiosità. Giovane dissidente nell'Urss di Breznev, Limonov, emigrò negli Stati Uniti nel 1974 e qui ha dato alle stampe il suo primo romanzo Ja Edicka (uscito in Italia presso Frassinelli con il titolo «Il poeta russo preferisce i grandi negri»), frequentando la sede del trotskista Socialist Workers' Party.
Negli anni Ottanta si è trasferito a Parigi e dopo aver collaborato con l'Humanité si è spostato su posizioni politiche «rosso-brune». Nel 1992 è rientrato in Russia ma subito è andato nella ex-Jugoslavia per combattere a fianco delle milizie serbe. Tornato nel suo paese, ha fondato il Partito nazionalboscevico che si è contraddistinto per vitalismo, culto dell'azione esemplare, estetismo punk. Arrestato dalla polizia russa dopo aver tentato di costituire una comunità armata nell'Altaj, ha scontato due anni di prigione. Autore prolifico, è stato legato sentimentalmente alla nota attrice russa Ekaterina Volkova da cui ha avuto due figli.
— «Zona Industriale» è stato pubblicato in Russia nel 2012 quando il potere di Putin era stato messo in discussione dal movimento anti brogli «Bol'ontnij». Come vede Putin oggi, dopo diciassette anni di potere?
— Il problema della durata del potere putiniano per me non esiste. Non è detto che ci debba essere un'alternanza, né quanto un presidente debba rimanere al potere. Il leader deve essere prima di tutto un uomo efficace. A mio parere, per quanto possa essere paradossale, invece Putin è un governante debole e incerto. Lascerà alla prossima generazione molti problemi irrisolti, per esempio, un'Ucraina incattivita al nostro confine occidentale, oltre a un regime di capitalismo oligarchico. Sono per l'uguaglianza e per rimettere in discussione tutte le privatizzazioni realizzate. Oggi la Russia è il paese con uno dei tassi più alti di diseguaglianza sociale. Non ho sostenuto il movimento di Bol'otnij perché è stato tradito da chi lo guidava. In particolare, l'11 dicembre 2011 il corteo fu spinto lontano da Piazza della Rivoluzione, quando eravamo a solo duecento/trecento metri dai centri del potere.
— I personaggi femminili nei suoi romanzi autobiografici sono sempre brillanti, ricchi, interessanti. In «Zona Industriale» ne incontriamo ben tre, tra cui Ekaterina Volkova. Ci può illustrare come evolve il suo rapporto con quell'universo a parte?
— Le donne di cui racconto sono semplicemente quelle in cui mi sono imbattuto. E le ho scelte. Si tratta di individualità difficili che vengono scelte raramente. Ma io l'ho fatto. Il mio non è certo un libro incentrato su Ekaterina Volkova. In realtà, affronta la mia insoddisfazione nelle relazioni con le donne. Nel romanzo, il protagonista cerca la sua compagna. E alla fine resta solo. Io vivo da solo e non m'interesso né della vita della mia ex moglie né di quella dei miei figli. Ai militanti nazionalbolscevichi dico: «I tuoi figli saranno peggio di te!». Vorrei però sfatare il mito che scriva solo romanzi autobiografici: nella mia produzione ce ne sono anche di altro genere.
— Il libro prende in esame anche i processi di gentrificazione del centro di Mosca. È una narrazione che mette al suo centro il rimodellamento del tessuto urbano e l'espulsione della sua cittadinanza operaia…
— In tutta Europa, fino a non molto tempo fa, i figli dei ceti popolari e di quelli benestanti crescevano a contatto tra loro e in zone adiacenti. Imparavano a conoscersi e a confrontarsi, seppur in modo conflittuale. Ora vivono in mondi sempre più separati e lontani. Credo sia questo l'elemento più desolante della gentrificazione.
— Ci sono alcuni scrittori russi che più l'hanno ispirata rispetto ad altri?
— Si tratta di tre autori che non rientrano nella tradizione del mio pensiero. Mi hanno spesso influenzato il grande Gogol, il poeta futurista Velimir Khlebnikov e il filosofo Konstantin Leontiev.
— Nelle sue ultime dichiarazioni ha sostenuto che lei oggi è più interessato al pensiero di Malthus che a quelli di Evola, Nietzsche e Marx che pure l'hanno influenzata nella sua vita. Ce ne può spiegare i motivi?
— Credo che Malthus sia diventato molto attuale. Ha sostenuto che l'umanità è sempre più minacciata dalla mancanza di risorse. Mentre Nietzsche, Evola e Marx hanno costruito i loro sistemi sulla preferenza di alcuni modelli di organizzazione delle società umane. Si sono concentrati su gruppi umani e classi sociali omogenei. Marx non prevedeva, e non poteva forse farlo, la scarsità di acqua potabile sul pianeta. Marx e Evola hanno immaginato con lungimiranza e enfasi la lotta tra comunità umane, ma oggi vediamo che è assai più importante il confronto tra l'individuo nel suo complesso e il pianeta che abita.
Scheda
Mosca anni, primi anni 2000. Lo sfondo è l'ex quartiere operaio Syry in via di gentifricazione ma di notte ancora popolato da branchi di cani randagi e da prostitute attempate. Il palcoscenico, due stanze modeste collegate da un corridoio ricoperto da un triste linoleum a fiori in cui abita il protagonista. In questo spazio inerte, da pièce teatrale, si ambienta gran parte di «Zona Industriale» il romanzo autobiografico di Eduard Limonov. Poi ci sono tre donne, tre sue amanti, diversissime tra loro: una giovinetta militante del Partito nazionalbolscevico già appesanta dai chili di troppo, una moglie attrice di successo che fuma erba e vuole diventar mamma e Lola, una spogliarellista di San Pietroburgo quasi diafana malgrado le conturbanti curve e i lineamenti volgari. E nel malconcio universo limonoviano trova posto anche Krys, un topo bianco, l'unico coinquilino con cui lo scrittore riesce a costruire un rapporto non conflittuale. Donne e politica. Politica di strada tra i movimenti antiputiniani dell'epoca dove si incrociano il tardo-staliniano Gennady Zjuganov e l'ex campione mondiale di scacchi Garty Kasparov. Nella perfetta triangolazione dell'universo maschile più sciovinista oltre a donne e politica mancherebbero solo i motori, che invece non mancano. Come in un fumetto postmoderno eccoli qui gli inseguimenti in placidi pomeriggi domenicali moscoviti tra berline «Volga» della polizia e scassate «Zyguli», 124 Fiat costruite a Togliattigrad, delle milizie nazionalbolsceviche.
Ritornano ancora in questo romanzo reminiscenze di altri momenti della vita e rimandi ad altre storie di Limonov, come in quelle saghe in cui il lettore trova modo di potersi affezionare a situazioni già conosciute: la gioventù scapestrata nella Kharkov proletaria del secondo dopoguerra, la vita bohemien nella Parigi degli anni '80, il cielo di ferro dei giorni dell'insurrezione anti-eltsiniana del 1993, punteggiano una narrazione che resta sospesa tra prosaica quotidianità e Storia.
Romanzo punk, tagliente e comico e in alcuni passaggi melanconico, «Zona Industriale» è «tutto il Limonov che conta». Sicuramente una delle sue migliori performance degli ultimi anni, nel quadro di una produzione sin troppo abbondante (settantadue libri in carriera con una media di quattro titoli negli ultimi anni anni). Limonov ha la capacità non scontata di saper rappresentare la caducità del presente in un modo in cui neppure la biografia di Carrère è riuscita a trasmettere completamente.
Per chi ancora non lo conoscesse, «Zona Industriale» è un ottimo vademecum per avvicinarsi alla sua opera.
È il 2003 quando Eduard Limonov torna a vivere Syry, ex-quartiere operaio di Mosca: ha appena scontato cinque anni di carcere e ha da poco compiuto sessant'anni. Non è più giovane, ma ha comunque la possibilità e la voglia di ricominciare: «L'uomo è fatto così: levagli il pane, ma lasciagli la possibilità di rifarsi una vita».
«Zona industriale» è la testimonianza della rinascita di un uomo; un «romanzo moderno», come lo definisce lui nella prefazione, ricalcato sulla sua biografia, su una vita sempre vissuta al massimo e che ha reso Limonov una persona in carne e ossa dotata di tutti i crismi del personaggio letterario. Ci ha pensato poi Emanuel Carrère, con una biofiction a lui intitolata, a segnare il passaggio di Limonov dal semplice culto alla fama internazionale, a far arrivare a più lettori possibili le innumerevoli esperienze di una figura controversa, affascinante e di difficile collocazione.
Scrittore e poeta, icona pop e per certi versi anche punk, dopo anni trascorsi tra Parigi e New York, ha fatto ritorno in Russia, diventando attivista e capo politico del Partito Nazional-bolscevico. Al partito e ai suoi Naz-Bol sono dedicate diverse pagine di questo libro: del resto, è per quello che Limonov è finito in galera; e sempre per le sue idee, per la sua crociata contro la nuova Russia putiniana, è costretto ad andare in giro sotto scorta.
Ma la vera protagonista del romanzo è Syry, la zona industriale del titolo, dove il nostro narratore abita, scrive, vive e ospita le sue donne, osserva i cambiamenti di un quartiere sempre meno popolare, fagocitato dal neoliberismo e dai nuovi ricchi. Con amarezza Limonov ne descrive le storture, la decadenza; mette in luce l'assenza di una classe operaia sempre più ai margini, della quale lui, malgrado tutto, da figlio del popolo qual è, si sente ancora parte.
I brevi capitoli, narrati con uno stile che è sia asciutto sia debordante, talvolta tendente all'aforistico, sono scanditi dalle sue storie con ragazze molto giovani, fino all'entrata in scena dell'Attrice, al secolo Ekaterina Volkova, che diverrà la madre dei suoi due figli, nonché la moglie ancor più eccentrica e scostante di un marito non proprio ordinario.
Limonov sa essere pieno di contraddizioni: amico degli ultimi e allo stesso tempo con tendenze da superuomo, tanto da fare parallelismi tra se stesso, Goethe e il suo Faust; libertario sui generis ma anche nostalgico dell'Unione Sovietica e combattente nei Balcani per la causa serba; un tombeur des femmes che a un certo punto sposa la causa del matrimonio e del nido famigliare. Una scorza dura sotto la quale si nasconde una sensibilità e una ironia rare, tipicamente russe: lo dimostrano i rimandi a una tradizione letteraria della quale si sente a suo modo prosecutore, e lo testimonia il racconto dell'amicizia con un topolino che abita la sua stessa casa. Uno dei risvolti più commoventi di un testo imperfetto ma imprescindibile per chi abbia voglia di leggere una voce che non ha alcun bisogno di ripetere a se stessa quanto sia fuori dal coro.
Piuttosto scapigliato, sorriso sornione, occhi che puntano a una pianura solcata dagli Sciti. Sandro Teti è inafferrabile — anche per contattarlo, devi compiere un sillogismo tra mail, cellulare, voce. Quando lo incontro, per provvidenziale fatalità, a Varese, è appena tornato da Baku, Azerbaigian, e si inalbera per la vicenda di Aleksandr Dugin, il filosofo russo censurato da Amazon, che ha deciso di non vendere più le sue opere. Un precedente vergognoso (su Amazon, per dire, puoi acquistare tranquillamente il «Mein Kampf» di Hitler). Di Sandro Teti so che con la sua casa editrice, con sede a Roma, ha pubblicato «Zona industriale» di Eduard Limonov, che è stato «il caso» della scorsa stagione, ma lui mi dice «sai che ho appena pubblicate una antologia delle «Poetesse azerbaigiane»»? Formidabile, dico. Poi mi parla del prossimo romanzo di Limonov che sta per pubblicare, «Il Boia», della sua prima vita — o la terza o la quinta — passata nell'allora Unione Sovietica, presso l'agenzia stampa «Novosti», e del Baku International Multiculturalism Centre, di cui guida la filiale italiana. Già che c'è, mi passa un libro, «Il manoscritto incompleto», scritto da Kamal Abdalla, super intellettuale azerbaigiano, una specie di «Nome della rosa» di laggiù — per altro, è piaciuto pure a Eco –, con la prefazione di Franco Cardini. L'ho detto, Sandro Teti — che fa l'editore per amore e passione e guadagna come consulente per i paesi post-sovietici — è un personaggio inafferrabile, ci vorrebbe un Carrère per identificarne la carriera, o un John le Carré, è meglio. Il padre, Nicola Teti, stampava «Il Calendario del Popolo», rivista storica — nasce nel 1945 — legata al Pci, ora editata dal figlio, il quale pubblica, nel catalogo polimorfico, «Masse armate ed esercito regolare» di Giap, lo stratega militare vietnamita, le memorie del Premio Nobel per la fisica Žores I. Alfërov, un libro sulla «Transiberiana» e uno su «Aleppo». «Guerra e diplomazia», e il fatidico «Perché Stalin creò Israele», di Leonid Mlečin — con scritti di Luciano Canfora, Enrico Mentana, Moni Ovadia a stornare i pregiudizi — che «pone in risalto una verità inconfutabile: senza l'Unione Sovietica guidata da Stalin probabilmente lo Stato d'Israele non avrebbe visto la luce. «Perché Stalin creò Israele» si basa sui documenti originali ora desecretati dagli archivi del Politbjuro e del Comitato centrale del Partito comunista, dei servizi segreti e del ministero degli Esteri dell'Unione Sovietica». Qualcuno, sapendo che vorrei attraccare in Novaja Zemlja alla folle ricerca della Zembla di Vladimir Nabokov, ora territorio militare che s'incunea nel mare Artico, mi tocca dentro, chiedi a Teti con lui in Russia vai dappertutto. Poi parliamo di sciamanesimo, di poeti, di Azerbaigian, che per me è un nome che evoca Alessandro Magno. Sto bene, nella bruma dell'enigma. (d.b.)
Amazon censura i libri di Aleksandr Dugin, autore che per altro ti appresti a pubblicare. Come mai? Cosa sta accadendo? Rischiamo un regime da Grande Fratello dove a dominare è il «corretto»? Che posizione dovrebbero prendere gli editori?
Il caso Aleksandr Dugin è di estrema gravità, tuttavia non so se preoccuparmi di più per questo atto di censura o per l'assordante silenzio che lo ha avvolto. Come sai, le due case editrici italiane che hanno pubblicato i suoi libri sono state avvisate da Amazon, con una laconica mail, dell'avvenuta rimozione dal portale di vendita delle opere del filosofo russo. Tutti i media mainstream italiani hanno ignorato la notizia, di cui si è parlato solo in modo sporadico su mezzi di comunicazione non molto diffusi. Questo costituisce un pericolosissimo precedente, che potrebbe in futuro colpire indiscriminatamente qualsiasi pubblicazione. Di fatto, abbiamo affidato un potere sconfinato a un singolo colosso, che non è tenuto a rispettare criteri di equità nella scelta dei contenuti da vendere e da diffondere. Come sai, io condivido solo una parte delle idee di Dugin. Mi interessa soprattutto la posizione che ha assunto sul conflitto azerbaigiano-armeno e avrei voluto pubblicare un suo libro sull'argomento. Il fatto che Dugin sia considerato di estrema destra, anche se lui respinge questa definizione e sostiene che il concetto di destra e di sinistra è superato, non esime gli editori collocati nell'area opposta dall'insorgere e a dal prendere posizione contro la messa all'indice dei suoi libri. È proprio a loro che mi voglio rivolgere e farmi parte attiva per coinvolgerli nella condanna di questo atto di pirateria.
La tua casa editrice ha rapporti specifici e speciali, con Baku, con la Russia. Che cultura e che aria politica si respirano laggiù?
Questa è una domanda che necessiterebbe di una risposta lunga e articolata. Baku e l'Azerbaigian sono una frequentazione «giovane», rispetto alla Russia. Iniziò tutto con la conoscenza di Kamal Abdulla, il rettore dell'Università di Studi Slavi di Baku, una delle più importanti al mondo al di fuori della Russia. Con Kamal, affermato scrittore, ho pubblicato due romanzi, entrambi prefati dal professor Franco Cardini, uno dei quali, «Il manoscritto incompleto», ha avuto ottima critica in Italia e l'apprezzamento personale di Umberto Eco, con il quale io e l'autore abbiamo avuto il piacere di parlare a lungo nella sua casa di Milano. Ho avuto l'opportunità di conoscere da vicino la ricchezza della cultura e della storia dell'Azerbaigian, un Paese collocato in un'area nevralgica dal punto di vista geopolitico e geostrategico. Dopo Kamal, ho incontrato molti altri esponenti dell'intelligencija azerbaigiana e proprio da questo Paese è iniziato il mio percorso di conoscenza degli altri popoli e culture turcofone. Infatti ho pubblicato testi di autori kazaki, turchi e kirghisi. Sono particolarmente legato alla Russia, avendo lavorato a Mosca all'età di vent'anni, presso l'agenzia di stampa Novosti, che aveva 59 redazioni in altrettante lingue diverse, tra le quali l'italiano. Questa immersione totale nel mondo sovietico — non frequentavo «occidentali» — mi ha molto legato a quella terra. Seguo tuttora quotidianamente gli avvenimenti politici, culturali ed economici, non solo della Russia, ma anche di diversi altri paesi dello spazio postsovietico. Preferisco affrontare singoli temi che generalizzare e per questo non me la sento di rispondere in poche righe alla tua specifica domanda.
Limonov. Stai per pubblicare un suo romanzo. Di cosa parla? E come hai conosciuto Limonov? È davvero un personaggio così difficile?
Il libro «Il Boia» narra la storia, segnata da due omicidi, di un immigrato polacco di 30 anni che conduce nella New York di inizio anni Ottanta — dove viveva anche Limonov — un'esistenza da loser e che si realizza pienamente solo attraverso il sesso, unico strumento con cui riesce a riscattare la sua condizione di fallito. Il protagonista sottomette le donne dell'alta società newyorkese coinvolgendole in giochi perversi sadomaso, all'insegna della violenza. Conobbi Eduard Venjaminovič nel febbraio del 1992, di fronte a quello che era stato fino a pochi mesi prima il Museo Lenin, a due passi dal Cremlino. Era lì che si radunava l'embrionale ed eterogenea opposizione al regime ultraliberista di Eltsin, a cui partecipavano personalità come Dughin e Anpilov, leader del movimento «Russia lavoratrice», e militanti anarchici, trotskisti, monarchici, stalinisti.
Il libro che vorresti pubblicare, quello che sei più fiero di aver pubblicato.
Sono sincero, è una domanda a cui non saprei rispondere. Ci sono diversi autori che mi appassionano molto, tuttavia non c'è un testo specifico che sogno di pubblicare. È difficile dire di quale dei miei libri io sia più orgoglioso. Ne cito comunque due. Il libro «Zona industriale» di Limonov, non tanto e non solo per il suo contenuto, ma per tutto quello che l'ha accompagnato. Sono fiero di essere riuscito a riportare in Occidente Eduard dopo più di vent'anni. Dopo la guerra in Bosnia, infatti, cui aveva partecipato nel 1995 al fianco dei serbi, ha fatto ritorno in Russia, che non ha più lasciato perché prima finì in carcere e poi fu privato del passaporto per lungo tempo. Un altro dei motivi per cui non si è più spostato è stato per la sua paranoia di essere arrestato per avere combattuto nell'ex Jugoslavia. Sono riuscito a convincerlo che, non avendo lui compiuto crimini di guerra, non avrebbe corso alcun rischio e quindi l'anno scorso gli ho organizzato un tour di presentazioni che ha avuto un grande successo: il Salone del Libro di Torino, Roma, Firenze, Pistoia, Ferrara, Milano, il «Barlich» di Varese. Un altro libro a cui sono legato è «Perché Stalin creò Israele» dello storico russo Leonid Mlečin. Fui molto colpito da questo testo che scovai nella mia libreria preferita di Mosca e che decisi di pubblicare, dopo averlo letto tutto d'un fiato ed essermi confrontato con alcuni miei amici storici. Si tratta di un libro interessantissimo e serio basato sui documenti desecretati del Politburo, dei Servizi segreti e di Stalin, che svelano non solo il ruolo decisivo dell'Urss nel fare approvare dall'Onu la risoluzione che sancì la nascita di Israele, ma soprattutto il massiccio sostegno militare voluto da Stalin per il nascente Stato ebraico, in violazione dell'embargo delle Nazioni Unite. Il testo, che ho tradotto personalmente, ha avuto due edizioni e ha suscitato un notevole dibattito.
Questo è un paese di rari lettori, dove è notoriamente difficile vivere di cultura, figuriamoci facendo il piccolo, tenace editore. Tu come fai?
Come faccio? Tanta passione, tanta fatica e purtroppo, per rendere sostenibile la casa editrice, sono spesso costretto a trasferire i proventi della mia seconda attività, legata alle consulenze che svolgo in alcuni Stati dello spazio postsovietico.
Penso che Eduard Limonov sia un personaggio interessante, trasgressivo, senza peli sulla lingua.
In questo periodo il partito nazionalbolscevico «Altra Russia», da lui fondato e guidato, ha organizzato diverse manifestazioni per il rispetto dei diritti costituzionali e sociali, contro l'oligarchia liberale in Russia e per il rispetto dell'ambiente. Un po' come stanno facendo da mesi, di sabato in sabato, i Gilet Gialli in Francia.
Sino ad oggi non avevo mai pensato di proporgli una intervista. Pensavo mi avrebbe mandato a quel paese. Limonov, come ha avuto modo di dirmi apertamente, infatti, non ama per nulla rispondere alle interviste ed è stato anche grazie alla comune amica Olga Shalina, responsabile del partito di Mosca, che ringrazio e delle cui imprese politiche e sociali ho avuto modo di parlare in un altro articolo (http://amoreeliberta.blogspot.com/2018/10/olga-shalina-paladina-contro-le-torture.html), se sono riuscito a realizzare questa breve intervista.
«Che progetti state portando avanti?», chiedo a Limonov.
«Che progetti? Stiamo cercando di fare e costruire un avvenimento eroico», mi risponde.
«Avete contatti con gli altri partiti di opposizione al governo Putin?»
«Non ho nessuna relazione con Kasparov, Kasianov, il KPFR e i vari liberali».
Lo incalzo, dunque, chiedendogli del suo relativamente recente passato politico.
«Assieme al musicista Egor Letov ed al filosofo Aleksandr Dugin, lei è stato il fondatore del Partito NazionalBolscevico, messo fuorilegge dalla Corte Siprema nel 2007. Come lei ebbe modo di dire, è stato un partito senza politici di professione, basato sulla generazione punk. Un'idea rivoluzionaria e trasgressiva direi!»
«Sì, è stato il partito dei ragazzi proletari, appartenenti in particolare al movimento punk. Io sono sempre stato un estremista», mi risponde lui.
Gli chiedo, quindi, cosa ne pensi dell'attuale relazione fra Europa e Russia, in generale. Lui è molto pessimista e, senza giri di parole, mi risponde:
«E' una relazione di merda. L'Europa non è indipendente. E' un vassallo degli USA. Non bisogna intrattenere relazioni con l'Europa».
Passo quindi a porgli domande sulla sua attività di intellettuale. In Italia, peraltro, di recente, il regista Mimmo Calopresti, ha realizzato un documentario dal titolo «Limonov e Pasolini», ove lo scrittore russo è stato messo a confronto con il poeta e scrittore friulano. C'è chi, peraltro, l'ha paragonato a Gabriele d'Annunzio. Gli chiedo che cosa ne pensi in merito. Limonov, in realtà, non sembra molto interessato alla cosa. Risponde infatti che accetta tutte le «sciocchezze» che dicono su di lui.
Anche sotto il profilo sentimentale non si sbottona più di tanto. Limonov ha sempre suscitato un certo fascino sul genere femminile. Ha avuto diversi matrimoni alle spalle e relazioni amorose. Purtuttavia, in merito, si limita a rispondere:
«Le donne? Ho una relazione con la stessa donna da dieci anni».
Una delle cose che spesso mi ha colpito dei suoi romanzi, pressoché tutti biografici, è l'aspetto trasgressivo e a tratti erotico. Gli chiedo che cosa ne pensi dell'erotismo. Mi risponde che lui è semplicemente stato un uomo per tutta la vita.
«L'erotismo è letteratura», afferma.
Azzardo nel chiedergli se attualmente stia lavorando a un nuovo romanzo, se può darmi qualche anticipazione, ma Limonov frena:
«Conservo i miei segreti. Non scrivo mai un singolo romanzo. Tutti i miei libri sono saggi o memorie», mi risponde.
Per concludere, gli chiedo come si definirebbe, lui che è — si potrebbe dire — un personaggio storico, al quale è stato dedicato un romanzo biografico (nel quale ad ogni modo ha sempre affermato con forza che non si riconosce per nulla) — «Limonov» di Emmanuel Carrère — e che, sin dagli Anni '60, ha rappresentato e continua a rappresentare un'epoca di passaggio dal XX al XXI secolo.
La risposta d'effetto del Nostro non si fa attendere:
«Mi definisco un piantagrane».
Ecco che, dunque, Eduard Limonov non mi ha mandato a quel paese. Purtuttavia non ha rinunciato al suo stile caustico, che in effetti non mi ha stupito più di tanto.
Articolo originariamente apparso nell'edizione del 1 dicembre de «Il Giornale».
Domani Eduard Limonov sarà a Roma per dialogare con Alessandro Giuli. Noi non stiamo nella pelle, così abbiamo deciso di proporvi un'intervista di fuoco sul suo «Boia»: libro di spericolata violenza recentemente pubblicato dalla Sandro Teti editore e presentato in anteprima domenica 8 a Più Libri Più Liberi — Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria.
Insopportabile, estremista, avventato, avventuriero. Comunque la mastichi, Eduard Limonov, classe 1943, ha fatto della sua vita un'opera d'arte, devoto allo scandalo, coerente nella contraddizione. Soprattutto, Limonov è scrittore autentico, che scortica, che scrive dissipandosi. Sarà in Italia a dicembre, per presentare «Il boia», libro di spericolata violenza, «scritto a Parigi nel 1982», dice lui, pubblicato nel 1986 dalla «casa editrice Ramsay, che temendo la censura mutò con imbarazzo il titolo in «Oscar et les femmes»». Racconta, dietro il velo romanzesco, aspetti della vita newyorkese underground di Limonov. Lo abbiamo raggiunto. Non è stato facile. Tramite una rocambolesca triangolazione tra Rimini, Baku e Mosca, abbiamo digerito il suo inglese alla russa, spezzato, sprezzante.
Quanto c'è di Oscar Chudziński, il protagonista del suo libro, immigrato nella New York anni Ottanta, che da uomo fallito diventa un asceta del sadomaso, in Eduard Limonov?
— Niente. Uno dei destini di Eduard Limonov avrebbe potuto essere quello di diventare Oscar. Ma Eduard Limonov ha preferito un altro destino.
— Il vero protagonista del romanzo, comunque, è il sesso. Sesso estremo, che permette l'ascesa sociale, in una New York turgida, torbida, grottesca. Anche oggi, tutto ruota lì, intorno al sesso, al dominio, alla violenza, all'impotenza: perché?
— Il mio romanzo è il primo nella letteratura mondiale ad aver presentato il sadomasochismo in modo letterariamente serio. Quanto al resto, è come dice lei: ogni attività umana riguarda il sesso. D'altronde, il sesso è una delle principali attività dell'uomo, non è vero?
— Quali sono le fonti narrative o autobiografiche per la scrittura de «Il boia»? Poi dagli Usa è partito per la Francia: perché?
— Sono andato a vedere uno spettacolo sado-maso, a New York. Il club si chiamava «Le Jardin», alla fine dello show mi hanno presentato un tizio, uno dei partecipanti: era un ragazzo di origini polacche. Da lì è iniziato tutto. Eduard Limonov ha deciso di andarsene in Francia perché un suo romanzo, «It's Me, Eddie», è stato acquistato da un editore francese, Jean-Jacques Pauvert.
— Ho letto che negli Stati Uniti è stato vittima dell'FBI. Mi racconti.
— Non sono mai stato vittima di nulla e di nessuno. Sono stato coinvolto in uno scandalo che riguardava un quotidiano dell'emigrazione russa, «Novoe Russkoe Slovo». L'FBI mi ha convocato, abbiamo discusso. Tutto qui.
— Che cosa pensa degli Stati Uniti, oggi?
— Che sono un Paese in declino, che sta perdendo forza e influenza.
— Che rapporti ha avuto con altri celebri dissenti russi come Iosif Brodskij e Aleksandr Solzenicyn?
— Mi sono stati ostili. Non ho mai incontrato Solzenicyn; frequentavo Brodskij, ma non siamo mai diventati amici. Piuttosto, è diventato un nemico quando si è rifiutato di scrivere qualcosa sulla quarta del mio primo libro, «It's me, Eddie», tradotto negli Stati Uniti nel 1983.
— Infine, è tornato in Russia. I suoi rapporti con Putin non sono sempre stati ottimi, diciamo così. Ora, cosa pensa di Putin?
— In Francia mi annoiavo, così, nel marzo del 1994, mi sono trasferito in Russia. Proprio quell'anno si è suicidato Guy Debord… Putin? È l'uomo di punta del regime russo, ma non è il solo a prendere le decisioni.
— Quale libro ha cambiato la sua vita?
— Non sono stato influenzato dai libri, mi ha influenzato la vita. La mia vita.
Intervista allo scrittore russo a Napoli per presentare il suo nuovo libro «Il boia».
Scrittore maledetto, poeta scandaloso, rivoluzionario punk, fondatore e presidente del partito nazbol, i nazionalbolscevichi dell'era post-comunista, sciolto nel 2007. Caustico come il nom de plume, il nome d'arte, che si è scelto: è Eduard Limonov. Sì proprio lui, lo scrittore russo, 76 anni, la cui vita ha ispirato il bestseller di Emmanuel Carrère, arriva oggi a Napoli per presentare il suo libro «Il boia», pubblicato in Italia da Sandro Teti editore. 〈…〉
Intervista a cura di Francesca Moriero e Giacomo Zito
«Io sono un estremista» dice Eduard Limonov al pubblico romano di Più Libri più Liberi ansioso di dare una definizione dell'oggetto misterioso che può finalmente osservare dal vivo: lo scrittore prolifico (di un'opera perlopiù sconosciuta), il politico controverso, il personaggio letterario vivente Limonov.
Idolo dell'underground sovietico, leader del Partito Nazional Bolscevico (un movimento di opposizione che per mettere in chiaro il proprio estremismo usa come vessillo una falce e martello sul fondo di una bandiera nazista), è noto al grande pubblico soprattutto per il ritratto che ne ha fatto Emmanuel Carrère nel romanzo biografico eponimo.
Lo scorso 8 dicembre Limonov era a Roma, alla Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria, per presentare Il Boia (Sandro Teti Editore, trad. Federico Pastore), romanzo in cui raccoglie alcune delle esperienze vissute nel suo esilio a New York negli anni Settanta e Ottanta, tradotto per la prima volta in italiano.
Il Boia è un romanzo noir, dalla struttura classica ma dallo stile avanguardistico, pubblicato per la prima volta, in Francia, quasi 40 anni fa. Lo stesso autore, nella breve introduzione all'edizione italiana, ce ne fornisce una breve storia editoriale: pubblicato in Francia nel 1986 con il nome di Oscar et les femmes dopo che, «con imbarazzo», ne fu cambiato il nome, il romanzo conobbe un buon successo soprattutto in Russia, dove vennero fatte numerose ristampe. Sfacciatamente scandaloso e provocatorio, Il Boia di Limonov è invecchiato bene e, grazie alla dedizione dell'editore italiano, Sandro Teti, si presenta al nostro pubblico, con tanto da dire ancora.
Il romanzo narra le vicende di Oscar, un polacco che da Varsavia si immerge nella contraddittoria New York degli Anni '80, attraverso la quale intraprende un percorso che lo porta ad affrontare una discesa nell'abisso da cui risorgere come uomo nuovo. Se la struttura non sembra regalare grandi sorprese, è nei contenuti che il romanzo scarica tutta la sua irruenza. Grazie al suo corpo, «un corpo muscoloso e scultoreo, severo e implacabile», Oscar si trasforma dallo squattrinato «polacco di merda», frustrato dal non poter competere con i ricchi amanti di Nataša, la donna che ama, nell'«amante polacco della padrona», un uomo al servizio delle donne dell'alta società newyorkese, un toy-boy implacabile e truce. Un boia.
Quando, durante la presentazione pubblica, Limonov viene chiamato ad esprimersi (controvoglia) su questo libro, c'è una cosa che tende spontaneamente a sottolineare. Riguarda il parallelismo con un'opera pop, il già cult Joker di Todd Phillips. Secondo Limonov, «i due protagonisti — Joker e Oscar — sono accomunati dall'essere dei freak nella grande metropoli». Oltre a ciò, verrebbe da aggiungere, sono due freak che hanno subìto un torto da una società cruenta e ingiusta che, attraverso le proprie deviazioni, li ha condotti su strade e destini contorti.
Dietro al racconto, inoltre, si snoda un'altra narrativa che contrappone l'emarginato, l'ultimo, l'immigrato, alla ricca società borghese di New York. La Gotham di Limonov è, quindi, anche teatro di un pesante scontro sociale, dove Oscar, inconsciamente, riversa la potenza del suo spirito e del suo corpo sulle donne che lo cercano, arrivando a diventare lui stesso il dominatore.«Ogni donna in questa città appartiene a me,— si disse con orgoglio Oscar.— Perché so come raggiungerla, so come prenderla. Le mie calde dita offrono un trattamento speciale».
Più tardi incontriamo l'autore in una delle salette riservate della Nuvola per un'intervista in esclusiva. Occhiali, baffi ingrigiti e pizzetto, una vaga somiglianza con Lev Trockij, Limonov appare in linea con il «codice di abbigliamento per il futuro» che ha delineato in uno dei suoi oltre 40 libri: vestito di nero dalla testa ai piedi.
Il nostro taccuino contiene un lungo elenco di domande, ma non siamo sicuri da quale cominciare, Limonov è tutto e il contrario di tutto: poeta d'avanguardia ed esiliato, combattente, mercenario e amico di criminali e assassini, scrittore ispirato, leader politico anti-putiniano. Lui si dice disposto a parlare di qualsiasi cosa — durante la presentazione con Giuseppe Cruciani si è trovato a parlare persino di Salvini — ma meno di questo libro di cui vorrebbe parlassero gli altri. Quando ci proviamo, infatti, le risposte si fanno criptiche come il suo autore.
— Da scrittore, che rapporto ha lei con la letteratura contemporanea?
— Tutti gli scrittori adesso vivono nel politically correct e non vogliono dire le cose come stanno. Ci serve qualcuno che dica qualcosa di nuovo, che sia desideroso di aprire una nuova possibilità che ora non si avverte.
— E con i classici?
— Voi leggete Dante ma vi aiuta a comprendere la contemporaneità? Sono stato invitato in televisione per commemorare la nascita di Marx e mi sono stupito: c'erano dei liberali e non dei comunisti che apprezzavano Marx.
— Nell'introduzione de Il boia, lei cita in rapporto al suo libro Tom Wolfe e il Bret Easton Ellis di American Psycho, ci sono altri libri che lo hanno ispirato?
— Andrebbe chiesto a un critico. Ciò che ha influito su uno scrittore è scritto nella sua biografia. Può darsi che all'epoca (della stesura de Il boia, ndr) sia stato ispirato da qualcosa che ho visto e che ho letto ma che adesso non ricordo. L'evento letterario è qualcosa di casuale, quindi quando si sente dire da uno scrittore con esattezza ciò che lo ha ispirato in realtà si tratta di una menzogna.
— La storia di questo romanzo ci è sembrata quella di un grande amore, una grande passione di Oscar per Nataša. Il rapporto che Oscar ha con le altre donne sembra sempre velato da una sorta di malinconia, dovuta alla la gelosia che prova per Nataša, un desiderio di possesso.
Ho rappresentato più dei caratteri che delle relazioni.
— Oscar alla fine viene ucciso ma la sua vitalità in tutto quanto il romanzo sembra tendere verso il nichilismo, nel senso che se non fosse stato ucciso probabilmente si sarebbe ucciso lui stesso.
— La tesi del suicidio è solo un'ipotesi. Alla fine muore chi muore e chi viene ucciso viene ucciso. Nel corso della mia vita mi è capitato di seppellire tanti miei amici. Stavo lì davanti alla loro tomba e mettermi a pensare al perché erano morti sarebbe stato un po' naïf.
— La morte rappresenta l'inizio e la fine del romanzo, che ha una composizione ciclica. Lei ha paura della morte? E quanto questa paura è presente nel romanzo? Dopo l'omicidio iniziale Oscar decide di cambiare vita. Perché proprio l'omicidio provoca questo cambiamento?
— È più un «sovrappensiero» questo. È un romanzo noir, quindi un omicidio è parte naturale della storia. Sono tutti «sovrappensieri», chiedersi il perché di un omicidio proprio all'inizio del romanzo è un po' una domanda da vecchia scuola, adatta per i romanzi ottocenteschi. Il mio è un romanzo noir, quindi funziona così.
— Il suo libro ruota sul tema del sesso sadomaso. Questo è, per lei, la conseguenza di una noia esistenziale?
— No, era quello che vedevo ed era quello che ho scritto. Ai miei tempi la polizia a New York perseguitava i sadomaso. Li cacciavano e imprigionavano come facevano con i comunisti. Io avevo un'amica che frequentava questi locali sadomaso e che mi ci ha portato. Quando ho smesso di scrivere il libro ho smesso di interessarmi a questi locali e a questi ambienti.
— Lei ha dichiarato più volte che il Limonov-artista e il Limonov-politico sono la stessa persona. In qualche modo l'esperienza a New York ha segnato la sua carriera politica?
— Limonov è sempre una sola persona, non per un terzo politico e per un terzo artista. A New York ho smesso di pensarci perché non ci vivo più dall' 82. Ho scritto dei libri su questo ma fanno ormai parte del passato.
— Qual è la funzione dell'intellettuale oggi nella nostra società, e qual è il rapporto tra intellettuale e potere?
— Gli intellettuali adesso hanno proprio perso il loro ruolo nella società. Bisogna distinguere: l'intelligencija in generale non ha un posto nella società attuale e quindi si è proprio sfaldata data la mancanza di questo suo ruolo. Dall'altra parte invece ci sono gli intellettuali veri e propri, anche se ne nascono due in un secolo. Tuttavia, il grosso dell'intelligencija sta perdendo il proprio ruolo per cui ci sarebbe spazio per nuovi intellettuali nella società di oggi. Anche la scuola si inserisce in questo discorso. Dopo i primi anni non ha più senso andare a scuola perché è tutto come si faceva cento anni fa, mentre adesso ci sono tutte le possibilità di avere un'educazione diversa. Quindi sarebbe meglio lasciare più libertà ai giovani di entrare più facilmente nel mondo del lavoro, o di poter fare matrimoni anche in giovane età, perché l'amore è uno di quei motori che li spinge a chiedersi determinate cose. Io ho studiato tantissimo, ancora oggi si studiano tanto sempre le stesse cose, ma di tutto quello che ho studiato nulla mi è servito.
— Che cosa ne pensa della presunta ingerenza della Russia nei partiti sovranisti europei?
— La Russia, grazie al cielo, è tornata a un livello in cui ha un grandissimo ruolo a livello globale. Proprio per questo sta dimostrando all'Europa che si può fare affidamento su di lei.
— Ritorniamo sulla questione delle ingerenze.
— È normale che un Paese potente come la Russia tenda naturalmente a prevalere sul suo prossimo vicino. La Russia è uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale quindi non capisco perché debba essere solo l'America ad averla vinta. È ridicolo che un mio libro sia stato censurato in Germania e che, proprio la Germania, mi consideri un fascista.
In realtà sia la Germania che l'Italia sono due Paesi sotto occupazione. Nel momento in cui l'Italia non sarà più una nazione occupata potremmo parlare da pari a pari. La Russia, come tutti gli altri Paesi al mondo, insegue le proprie ideologie e vuole dominare gli altri Paesi nel mondo. Si tratta di interessi nazionali.
Con l'Italia riusciamo a comprenderci meglio perché non abbiamo frontiere in comune. Non è colpa né dei russi né della Russia se vengono sempre presi come punto di riferimento per questi movimenti. Nell'immaginario culturale europeo c'è stata una demonizzazione del russo e quindi, per esempio, tutti i paesi del Baltico si lamentano spesso con l'Europa della Russia per ricevere aiuti e attenzione. Ma per la Russia il vero problema è la Cina. La Russia ora collabora con la Cina perché l'Europa ci ha rifiutato.
— Ha nuovi progetti editoriali? Nuovi romanzi?
— In quanto scrittore professionista, sto sempre lavorando a qualche nuovo testo. Adesso in particolare sto scrivendo per quattro riviste in cui mi occupo di politica contemporanea. Pubblico più di 200 articoli l'anno, di cui circa 52 per ognuna delle riviste, ma sono solo articoli.
Eduard Limonov è tornato, merito di Bietti, arrogandosi il diritto e la pretesa di togliere il velo all'ipocrisia di un potere che dietro il paravento di parole roboanti come uguaglianza, impone diseguaglianze peggiori.
Ci perdonerà Emmanuel Carrère, ma è opportuno respingere al mittente la definizione del suo Limonov come «Forrest Gump della storia dell'Unione Sovietica». Un'immagine che mal si adatta ad un punk; del resto, lo stesso Limonov, che pure si è sempre riconosciuto debitore per la risonanza che gli ha regalato la biografia romanzata dello scrittore francese, ha ammesso di aver chiuso il libro «a pagina quarantacinque», come a voler dire, «no, grazie». Leggenda e carogna si confondono sempre in personaggi che costruiscono il proprio destino come mitopoiesi; che assecondano quasi con voluttà i marosi dei propri paradossi, fedeli alle proprie contraddizioni: fondatore del partito nazional bolscevico insieme a Dugin, è stato barbone e maggiordomo di un miliardario a Manhattan, intellettuale à la page a Parigi, soldato nei Balcani, a modo suo poeta e teppista. Limonov ha scorrazzato come un cane sciolto lungo la Storia della Russia post-comunista, e attingendo ad un bagaglio ideologico senza steccati è andato al fondo, a metà tra la profezia e la diagnosi, dello sfascio della civiltà occidentale.
Meritoria la pubblicazione per i tipi di Bietti di «Grande ospizio occidentale», tradotto da Andrea Scarabelli e curato da Andrea Lombardi (con l'introduzione di Alain de Benoist) il testo di Limonov, che risale alla fine degli anni ottanta, è ancora «fresco»: cambiano le marionette, ma il potere — che ha messo i guanti — è sempre più dispotico nella sua mania di controllo, nella sua ansia di sorveglianza continua, con la scusa di proteggerci da noi stessi e di un bene sempre superiore. Scrive Andrea Lombardi nella nota introduttiva, che risuona come un vero e proprio richiamo a fare attenzione al testo, che le parole di Limonov vanno lette non come letteratura, come astrazione. Si inseriscono nella lunga scia di quelle lasciateci da scrittori e studiosi come Orwell e Huxley che ci avvertono del pericolo che incombe su di noi, e cioè la pretesa da parte dei centri di potere di scrivere il reale in cui siamo passivamente immersi, e sono una sollecitazione costante ad assumere su di sé la responsabilità di opporsi.
Limonov ripercorre la parabola discendente di un Occidente che dal mito dell'eroe — «tra le radici più profonde e vivaci dell'umanità» scrive — si arena nella opposta esaltazione della vittima: per inseguire la falsa utopia dell'uguaglianza, civilizzazione ha assunto il significato di negazione delle naturali differenze tra gli esseri umani, riducendo l'orizzonte dei propri desideri alla forza centripeta del puro materialismo. Per inseguire il delirio materialista infatti, gli occidentali, trattati come pazienti di un gigantesco ospizio, hanno perduto il loro destino e lo hanno barattato con un ciclo vitale piatto, dedito ad un piacere che castra la pulsione alla dominazione e ad un benessere che si traduce in un progresso orizzontale capace solo di distruggere la natura. Limonov si arroga diritto e pretesa di togliere il velo all'ipocrisia di un potere che dietro il paravento di parole roboanti come uguaglianza, impone diseguaglianze peggiori. E come dimenticare i benefattori dell'umanità, come Alfred Nobel, che in preda all'ottimismo della tecnica, credono di estirpare il male, compiendone uno più grande? L'inventore della dinamite, infatti, nel 1876 dichiara che solo inventando una sostanza o una macchina spaventosa, dal potere talmente letale, la guerra sarebbe potuta sparire per sempre.
Sottotraccia, Limonov mette indirettamente il dito nella piaga del registro linguistico di questo gigantesco cronicario a cielo aperto che è l'Occidente, in cui lo stato di sorveglianza passa inevitabilmente dal dominio della parola. Scrive Jean Luc Nancy nel saggio Prendere la parola, che compito del linguaggio è creare legami non naturali, lì dove tutto era slegato. Una concezione del linguaggio (Nancy si dilunga sul rapporto tra parole e potere) così «violenta», si addice alla pretesa del potere di costringerci cognitivamente ad un «senso», ovvero costruire significati del tutto distorti, perseguendo come unico fine il controllo. L'ironia di Limonov non risparmia la categoria degli scrittori: la scrittura come professione ha disinnescato la forza «agitatrice» della stessa, sicché al riconoscimento sociale dello scrittore corrisponde la perdita della funzione precipua del libro, qualitativamente appiattita sullo status quo. Si potrebbe sintetizzare con ulteriore ironia dicendo che ormai i volumi fanno soltanto volume. Se accogliamo l'invito di Limonov a guardare fuori dalla finestra come l'orwelliano Winston Smith, cosa vediamo? «Un panorama fantascientifico». Nell'ospizio o sanatorio occidentale, si sta come torme di perenni malati a cui è imposta una cura peggiore della malattia. Rimane la responsabilità di ciascuno, richiamata poco sopra. Attenzione, cioè, al confine labile tra scegliere e subire.
La beat generation? È stata una sottocultura. I Beatles? Erano una band di poveretti effeminati. Elvis? Un omosessuale mancato. Prince? Un latin anti-lover. Il movimento hippy? Si salva solo Charles Manson.
Limonov, noto in Italia per essere protagonista dell'omonima biografia di Emmanuel Carrère in questo saggio definito da Bernard Pivot: «un vangelo per gli skinhead» compie un'analisi lucida della civiltà occidentale.
L'analisi è così precisa e distaccata da ricordare l'angelo de Il rapporto di Uriele di Julien Benda, questo essere inviato da Dio non riusciva a capacitarsi di come gli uomini si affannassero intorno a pezzi di carta disperandosi e preoccupandosi di averne pochi senza apprezzare di avere ancora la vita.
L'analisi è cruda e spietata ma anche giusta e puntuale
«Questo libro contiene pagine poco lusinghiere nei confronti del Popolo. Prima o poi qualcuno doveva pur farlo. Da troppo tempo il Popolo beneficia di privilegi esorbitanti, dichiarandosi vittima delle Amministrazioni di cui in realtà è complice e con cui spartisce i guadagni».
Per Limonov l'Occidente è un Ospizio dove i malati (Il Popolo) vengono assistiti dagli infermieri (l'Amministrazione e i politici) che li intrattengono e li sedano anche attraverso la tv:
«Ogni santo giorno i malati modello sfilano sul «piccolo schermo», cinguettano con le loro voci serene nei microfoni delle radio, sorridono fotogenici sulle copertine dei rotocalchi a colori o in bianco e nero».
O attraverso la moda:
«Di professione i grandi stilisti sono tutti malati modello. Da 1945 in poi il loro ruolo dilaga in una società dove a dominare è l'apparenza, il look».
E ancora:
«Nei romanzi del XIX secolo, il sarto era una figurina che emergeva dalla bottega solo per qualche istante. Insieme all'usuraio (o alla vecchia usuraia) era un personaggio negativo che opprimeva giovani dandy romantici con le sue fatture. Nei vaudeville era un vecchiardo panciuto e scontroso che irrompeva, quando non erano i poliziotti a farlo, nella camera da letto del giovane debitore. «Doveva soldi a tutti, al sarto, all'oste…» è una frase che torna in Balzac, Dickens e Dostoevskij. Ebbene, oggi il sarto è un Yves Saint-Laurent. Trionfa sulla scena sociale e caccia nella bottega i giovani romantici».
La letteratura invece è nemica della civiltà dell'ospizio:
«Al contrario il mondo delle Lettere è pericolosissimo, essendo il più efficace mezzo d'espressione del pensiero. In altri tempi, produceva più Agitati di qualsiasi altra professione. Ma è stata trovata una scappatoia: il meccanismo di riconoscimento dello scrittore nell'Ospizio è talmente complesso che solo i nomi favoriti dall'Amministrazione (in genere, scrittori parecchio in là con gli anni) raggiungono i lettori.
Continua Limonov:
«Ostacolare la diffusione delle opere significa disinnescarle. La selezione consiste non nel proibire, ma nel preferire gli uni agli altri. Facendo delle Lettere un mestiere tra gli altri, la società ha privato lo scrittore del suo statuto specifico». In via del tutto naturale, la crescita dell'importanza dei servizi resi, dell'ascensione sociale dello scrittore, è avvenuta a discapito del libro, del testo in senso vero e proprio».
Poi Limonov conclude:
«Come in altri campi delle attività umane, gli allori finiscono per ornare teste canute. Se Sartre e Camus avevano quarant'anni quando erano diventati i maître-à-penser dell'intellighenzia francese, gli scrittori più celebri dell'Ospizio francese attuale sono sessagenari: Nourissier, Sabatier, d'Ormesson… Ovviamente, mi guardo bene dal mettere a confronto i rispettivi talenti, ma il punto è che i vecchi scrittori, giunti al capolinea, sono in genere così stanchi da non aver più nemmeno la forza per scatenare l'agitazione. Bardi di senilità e fiacchezza, fanno della vecchiaia e dell'impotenza una norma di comportamento per l'insieme della società».
La Beat generation viene considerata una sottocultura:
«Negli anni Cinquanta, è il jazz a strutturare la sottocultura della beat generation». E continua «…i padri fondatori dell'Amministrazione finiscono per comprendere che l'hipster è «il solo radicale non-conformista della sua generazione»».
La civiltà dell'ospizio costruisce i suoi modelli attraverso il Cinema.
«L'Ospizio adotta un vocabolario «neutro». Va matto per «eroi» e «idoli». Vi troviamo star, superstar e megastar. Il cinema ha già messo sul trono il falso eroe, la movie star».
Viene condannato anche l'eccessivo peso dei mass media nella formazione della cultura:
«Oggi il ruolo di arbitro degli arbitri, o poliziotto dei poliziotti, è riservato alle trasmissioni televisive. Regolando purtroppo (anche) le mode letterarie, la tv crea a piacimento una gerarchia di uomini di lettere e s'inserisce brutalmente nella libera circolazione delle idee e nella concorrenza dei talenti».
Anche perché:
«la libertà di parola non è nulla, se non si ha la libertà di essere ascoltati».
L'America nel nuovo corso è diventata un modello:
«Entrata prima di altri Paesi nell'era dell'Ospizio, l'America è stata la prima ad aver capito la necessità di costruire falsi eroi, ma veri Malati modello. Le star del cinema sono eroi monodimensionali. La loro unica funzione è «apparire» importanti davanti alla videocamera. È a una dimensione anche un altro prototipo del Malato ideale dell'Ospizio americano, il «milionario», che sa solo ammassare quattrini».
Il linguaggio diventa uno strumento fondamentale per poter manipolare la comunicazione e rendere possibile la trasmissione di notizie offrendo al Popolo un'interpretazione confortante
«Il pericolo insito nella parola «terrorista» risiede nel suo riferirsi a qualcosa di straordinariamente vago».
L'importante è che i malati non si agitino mai che stiano tranquilli, nel frattempo, gli infermieri cercano di soddisfare i loro capricci tra i quali la ricerca di diritti sempre nuovi.
«L'«agitazione» è il crimine più grave in un Ospizio» perché «l'Ospizio ha risolto la faccenda rendendo gradevole la vita all'uomo medio, alla testa statisticamente media dell'idra popolare. Lo ha fatto attraverso la repressione dei migliori: gli Agitati».
Limonov cita anche alcuni esempi di agitati eroici tra cui
«Mishima, cantore dei samurai nella società delle Honda e delle Mitsubishi, di milioni di virtuosi impiegati senza volto, era tra i migliori» oppure «L'Agitato Pasolini è stato fatto fuori su una spiaggia di Ostia».
Questo libro pubblicato nel 1993 oggi esce per la prima volta in Italia a cura di Andrea Lombardi, con traduzione di Andrea Scarabelli e con introduzione di Alain de Benoist.
Dopo aver preso atto che in politica più che con l'appartenenza ideologica ci si identifica con il proprio genere o con preferenze e condizioni pratiche si giunge alla conclusione che
«Nel mondo dell'Ospizio la storia si è fermata».
Limonov sferra un colpo fortissimo alla cultura pop.
E d'altronde qualcuno doveva pur farlo prima o poi:
«I mercanti discografici ne approfittano, tutti contenti, colonizzando radio e televisione con i popolari disc-jockey che dettano la moda. Si evoca retrospettivamente il grassoccio Elvis con il suo cappello e la chitarra, mentre seduce le ragazzine sulle spiagge californiane, ormai diventato il prototipo del macho».
Elvis secondo Limonov sarebbe diventato un sex symbol per carenze della generazione precedente
«A parte le soavi note da eunuco e i movimenti del bacino poco virili, Elvis era certamente un adolescente virile. Sarebbe diventato un «frocio» o un travestito se la generazione precedente, quella dei gangster e degli asessuati uomini d'affari, non gli avesse fatto un po' di posto».
E sui Beatles commenta:
«All'infantilismo ereditato dalla beat generation si è aggiunto uno stile effemminato: nelle foto del tempo, il quartetto capellone dei Beatles evoca un gruppo di ragazzine spettinate, per non parlare della tenera soavità che emana dalle loro corde vocali».
E poi continua:
«Con le loro frangette da fanciulle castigate, i Beatles hanno girato tutto il mondo, esprimendo con massima precisione la struttura psicologica della nuova generazione europea: impotenza, femminilità, egoismo di comodo e illimitata emotività».
Viene analizzato il conflitto generazionale:
«È normale che la società sia ostile a ogni fenomeno nuovo. Per un certo periodo, i vecchi conservatori dei costumi dell'Ospizio hanno rifiutato di riconoscere i propri figli in questi hippies travestiti da ragazzine.
Fino a che l'Amministrazione non ritiene di essere in grado di riassorbire il fenomeno:
«Ma poi, constatando che i loro figlioli, con le loro canzonette mielose e i loro abiti tinti a mano, facevano tanti quattrini quanto i loro papà negli uffici di avvocati, negli studi notarili e nei gabinetti di medicina, hanno tirato un sospiro di sollievo. Da quel momento in poi, nessun'Amministrazione ha avuto grossi problemi con i giovani in costume che torturavano gli strumenti musicali davanti a folle in delirio».
Infatti:
«Il messaggio in codice del pop è perfettamente compreso dalla società. Nero e milionario, Bob Marley poteva cantare e vendere dieci milioni di copie con I shot the sheriff e Revolution, senza che a nessuno venisse in mente di uccidere gli sceriffi o fare la rivoluzione. Ma quando i Sex Pistols uscirono nel 1975 con le loro magliette strappate dalla boutique Malcom MacLaren di King's Road, i vecchietti dell'Amministrazione tremarono».
Ma anche il movimento punk viene domato:
«Grazie agli sforzi congiunti dello show business e di una parte dei punk stessi, il movimento è stato addomesticato e castrato nel giro di qualche anno. Pur mantenendo aggressivi simboli esteriori — sonorità metal-liche, cuoio, metallo e vestiti neri (teatralità ad oltranza)»
Invece il movimento hippy viene condannato perché
«si è espresso solo nelle fiacche rivolte giovanili degli anni Sessanta. A giudicarla oggi, al di là dell'illusione rivoluzionaria, questa rivolta è più simile a roba tipo Jesus Christ Superstar. La rivoluzione è una cosa seria, dev'essere portata avanti da artisti drammatici, non da buffoni da cabaret. Ebbene, gli hippies erano tutti cabarettisti, ad eccezione di Charles Manson. Quest'assassino è stato forse il solo vero uomo nel movimento hippy».
Il saggio di Limonov denuncia la svirilizzazione dell'uomo nelle rockstar degli anni 80:
«Le nuove star e superstar del pop anni Ottanta si avvicinano a Topolino, Batman, Paperino, Superman, senza contare i personaggi del Mago di Oz».
Limonov sottolinea che
«Nella nuova macina delle rockstar, l'uomo è completamente azzerato» e continua: «l'ET travestito Michael Jackson e il volgare latin (anti)lover Piccolo Prince (snodato e circondato da ballerini «froci» travestiti da teppisti) sono vecchie signore dei tempi nuovi».
L'analisi dei rapporti con le nuove generazioni è impietosa ma puntualissima:
«La virilità è bandita perché rappresenta qualità inutili e ostili al modo di vita dell'Ospizio: un umore bellicoso, l'indipendenza mentale, la dignità. Sono pericolose per la società odierna, il cui scopo è distrarre i giovani e farli passare senza perdite di tempo né troppo rumore nelle acque tranquille della trentina».
Quello che più tocca è il fatto che il libro ha mantenuto questo livello di attualità pur essendo stato scritto nel 1993 e questo depone a favore della profondità delle tesi e della portata profetica dello scritto.
Limonov non rinuncia a farsi domande per riuscire a disinnescare gli effetti più drammatici ed estintivi del rapporto che si è generato tra infermiere e paziente all'interno dell'Ospizio occidentale.
Perché sorga un mondo migliore e per affrontare le grandi questioni della società, (ambiente, sovrappopolamento), secondo l'autore
«Oggi deve nascere una nuova morale, una morale della responsabilità. In caso contrario, il suo avvento sarà solo rimandato, ma la sua natura si rivelerà più violenta».
Perché l'unico modo per evitare di tornare nuovamente a vivere sugli alberi è quello di costruire un mondo in cui sia valsa la pena di esserne scesi.
«Satisfiction», 13 luglio 2023
Eduard Limonov, Grande ospizio occidentale, Bietti 2023, pp. 233, € 21,00
Il saggio. «Grande ospizio occidentale» denuncia la dittatura «morbida» che ci ha ridotto all'obbedienza. La sua conclusione: perché nasca una società migliore «oggi deve nascere una nuova morale della responsabilità».
Primo consiglio: saltate pure questa recensione e correte in libreria per leggere subito «Grande ospizio occidentale» di Eduard Limonov: in questo saggio c'è la radiografia sociale dei nostri tempi devastati e vili. Da una parte il sistema di potere, l'«Amministrazione», che per poterci controllare ci riduce all'infantilismo: una dittatura invisibile, «morbida», che ottiene la nostra obbedienza non attraverso le catene di un regime totalitario ma attraverso i piaceri. E chi mai è pronto a prendere le armi contro un mare di divertimenti?
Dall'altra parte una società di intellettuali — per natura dovrebbero essere i primi «Agitati» — che hanno trovato il modo di riciclarsi nella sfera dell'entertainment: «Si sono scrupolosamente liberati del proprio compito. Formano oggi un gruppo di ausiliari privilegiati e le loro pretese di possesso della verità assoluta sono tanto grottesche quanto l'idea del loro carattere intrinsecamente rivoluzionario».
Biografia romanzata
Eduard Limonov — pseudonimo di Eduard Veniaminovich Savenko (Dzerzhinsk, Nizhny Novgorod, 1943 — Mosca 2020) — è conosciuto da molti per la biografia romanzata dedicategli da Emmanuel Carrère: 220.000 copie vendute solo in Francia e libro di culto e al contempo di grandissimo successo anche in Italia (edito dii Adelphi).
Cresciuto in Ucraina, trasferitosi giovanissimo a Mosca e poi a Parigi e New York: sempre in fuga ma mai da se stesso e dall'analizzare una società che per i suoi libri l'ha fatto ricoverare in un ospedale psichiatrico, condannato a quattro anni di carcere per terrorismo, emarginato perché tra i pochi a non essere un rivoluzionario da salotto.
Questo «Grande ospizio occidendale» — pubblicato in Francia nel 1993 ma tutt'altro che datato — è un atto di immortale coraggio. Assimilando i saggi di Tocqueville, Huxley, Baudrillard, Virilio, Neil Postman (senza diventarne un imitatore) Limonov è geniale nel renderli leggibili grazie ad una prosa poetica e lontana da ogni tentazione accademica: un saggio rigoroso e al contempo una lettura che ci costringe piacevolmente a sottolineare quasi ogni pagina.
La sua analisi è una tra le più moderne, oggettive e potenti degli ultimi anni: una società di idioti in marcia, noi, ormai ricchi davanti ad un Potere che ci culla attraverso i modelli pubblicitari e televisivi: noi viviamo come in tivù, ci vestiamo come in tivù, mangiamo come in tivù.
Perché, scrive Limonov, «tra tutti i crimini, il più orribile, e per nulla amnistiabile, è il delitto contro sé stessi: lo spreco dell'unica vita di cui ognuno di noi dispone. Si ascoltano stupidi rumori musicali, parcheggiamo la macchina. ci consegniamo a un lavoro meno difficile che fastidioso, ed ecco che il nostro soggiorno su questo basso mondo si conclude».
Omero del sottosuolo
In «Grande ospizio occidentale» — curato da Andrea Lombardi, tra i massimi studiosi di Louis-Ferdinand Céline — Limonov (darwiniano c nietzschiano) più che un populista è un futurista, uno scrittore che racconta chi siamo davvero come un Omero del sottosuolo, un Robin Hood talmente generoso da essere perseguitato da una democrazia che non è neanche un Regime ma un Reame. «Affinché le masse domestiche» scrive, «non dimentichino che vivono nella migliore delle società possibili, vengono mostrati loro con grande gusto bambini africani malnutriti e ricoperti di mosche. Oppure gli scheletri di Auschwitz. La morale? È inutile architettare un'altra società. Vedi a cosa portano simili tentativi?».
E le masse, terrorizzate da questa moderna società dello spettacolo restano mute. Anche perché oggi «la libertà di parola non è nulla, se non si ha la libertà di essere ascoltati».
Limonov non rinuncia a farsi domande per riuscire a disinnescare gli effetti più drammatici ed estintivi del rapporto che si è generato tra infermiere e paziente all'interno dell'ospizio occidentale.
Perché nasca un mondo migliore «oggi deve nascere una nuova morale, una morale della responsabilità. In caso contrario, il suo avvento sarà solo rimandato, ma la sua natura si rivelerà più violenta».
Il modello più vicino al «Grande ospizio occidentale» è quello degli Stati Uniti: «Entrata prima di altri Paesi nell'era dell'ospizio, l'America è stata la prima ad aver capito la necessità di costruire falsi eroi».
Come le rockstar. depotenziate dall'essere un pericolo e che «si avvicinano a Topolino, Bai man, Paperino, Superman. senza contare i personaggi del Mago di Oz».
Come gli scrittori: «Gli allori finiscono sempre per ornare teste canute. Se Sartre e Camus avevano quarant'anni quando erano diventati i maître-à-penser dell'intellighenzia francese, gli scrittori più celebri dell'ospizio attuale sono giunti al capolinea, sono in genere così stanchi da non aver più nemmeno la forza per scatenare l'agitazione. Bardi di senilità e fiacchezza, fanno della vecchiaia e dell'impotenza una norma di comportamento per l'insieme della società». Ed è cosi che, tra «milioni di virtuosi impiegati senza volto». Limonov ci suggerisce che l'unico modo per evitare di tornare nuovamente a vivere sugli alberi è quello di costruire un mondo in cui sia valsa la pena di esserne scesi.
Grande ospizio occidentale è l'ultimo libro pubblicato da Bietti dello scrittore russo: un catalogo di intuizioni senza tempo che invitano a rompere.
«Agitato, non mescolato».
Cosa c'entra la storica battuta del James Bond di Sean Connery con il «Grande Ospizio Occidentale» di Eduard Limonov, uscito per Bietti qualche settimana fa? Più di quanto possa sembrare, perché se, da un canto, in questo inedito Limonov sociologo (che si ritiene più ficcante persino di Guy Debord) la figura dell'eroe cerca di riguadagnare la sua centralità nella fiacca mitopoiesi europea, dall'altro gli «Agitati» costituiscono una delle tre classi di una tripartizione che ricorda Dumézil, ma proiettato nella postmodernità. Nel Grande Ospizio Occidentale, infatti, la divisione è tra Amministratori, Malati Modello e Agitati, con una guest-star: le Vittime — di cui alcune, si scoprirà nel corso della lettura, sono «più vittime di altre», orwellianamente.
Il Popolo, anzi, «quel mostro chiamato Popolo», è ovviamente composto per il 99% di Malati Modello in una condizione di perenne adolescenza (anestetizzata però dalla virilità aggressiva ed esplosiva propria della vera adolescenza), e perciò oggetto degli strali dell'Autore, che invoca l'insurrezione contro la dittatura del popolo, considerata «un atto tanto nobile quanto lo fu duecento anni fa sollevarsi contro l'Assolutismo», e giudica il suffragio universale «amorale».
Già da queste prime battute si dovrebbe comprendere qual è il principale talento di Limonov in questa sede per lui inconsueta: la capacità di concepire formule immediate, dirompenti, enfatiche che fanno breccia nell'immaginazione del lettore. Il talento di un narratore, insomma. Orwell è allora «un curioso centauro con le gambe di un poliziotto, il groppone di un anarchico e una cravatta da ex studente di Eton», il nazismo è «figlio legittimo di Madama Europa e non un bastardo nato per caso dagli amoreggiamenti di Hitler con una certa Germania», Bowie un «bisessuale da night club» — quando perfino l'ex amico di Limonov, Dugin, apparentemente assai più serioso, aveva riconosciuto nel suo «I templari del Proletariato» (AGA Edizioni, settembre 2021, euro 32) le forti impronte esoteriche di album come «Absolute Beginners» —, l'Inferno è «sempre a casa degli altri» e «La letteratura ci guadagnerebbe se la televisione la lasciasse in pace!».
Quanto all'impianto teorico e all'immaginario letterario, c'è un po' della sempreverde dialettica schmittiana di amico-nemico, un po' di revival della sacertà dei confini à la Regis Débray, un po' del Drieu anti-statistico e vitalistico di «Misura della Francia», un po' della virilità machista di un Jack Donovan, un po' del Toynbee sul suicidio delle grandi civiltà, un po' del «Mattatoio n.5» di Vonnegut.
Nonostante qualche garbuglio o misunderstanding concettuale, forse almeno in parte dovuto alla lingua (primo fra tutti quello sul rapporto individuo-comunità, dove Limonov a tratti sembra quasi sostenere che il problema dell'Occidente sia la troppa centralità della seconda che marginalizza il primo, mentre il discorso è evidentemente più complesso e, probabilmente, capovolto), Limonov ha delle intuizioni brillanti sull'Europa moderna, che ai suoi occhi somiglia, non a caso, ad una trasposizione sociologica più sottile — ma non meno «violenta» — del suo romanzo «Il boia»: un regime soft di «statomasochismo» in cui «l'atrofia del libero arbitrio non è provocata da torture abominevoli, ma pian piano, con subdoli innesti» e in cui la capacità lavorativa e produttiva, contrapposta alla beata arroganza anarchica del pigro del folklore popolare, è l'unico parametro di valutazione dell'uomo moderno e il look è «la miserabile rivincita dell'uomo contemporaneo sulla storia».
Senza contare che, nonostante il libro sia stato scritto nei primi anni '90, conserva intatta un'attualità notevole su alcune tematiche centrali del dibattito pubblico odierno: la libertà di stampa come diritto «vuoto» in assenza di condizioni economiche e mediatiche minime atte ad esercitarlo, il ruolo della «neolingua» nell'ideologia progressista, il «tele-statismo», più pericoloso di tutti i dipendenti di Goebbels, nonché l'evoluzione della violenza cieca e spontanea in violenza soft per ragioni «non umanitarie ma pragmatiche» e lo stigma «morale» in capo all'avversario, che ha ormai sostituito le vittorie in battaglia sullo scacchiere internazionale.
Insomma, scongiurando il rischio di sembrare, negli ultimi anni della sua vita, una casalinga di Vogh… di Djerzhinsk che avversa il pop, i capelloni e le partite di calcio, Limonov affonda il coltello nel cuore pulsante della contraddizione democratica europea, che consiste, in nuce, nell'affidare «l'elezione di Miss Mondo a una giuria di ciechi». E no, non nel senso di cecoslovacchi.
In «Grande ospizio occidentale» Eduard Limonov descrive gli strumenti di omologazione usati dalla dittatura globale.
Il mio libro si basa su una metafora: equiparare la società evoluta a un Ospizio, i cui pazienti sono curati in un clima morbido, ma comunque disciplinare. Questa metafora intende creare il famoso effetto di distanziamento, affinché il lettore possa vedere il mondo che gli è familiare attraverso uno sguardo estraneo: il mio. Più cauta rispetto all'ingiusta identificazione di URSS e Gulag, l'assimilazione delle società europee (e di matrice europea) a un Ospizio mi è stata ispirata, devo confessarlo, da certe equivalenze sommarie: dato che si tirano continuamente in ballo le società-prigione e le società-lager, perché non parlare allora di società d'Ospizio? Uso termini francesi, o franglesi, perché sono costretto a farlo: avendo dovuto lasciare il mio Paese parecchi anni fa, ignoro del tutto la terminologia russa. Ammesso e non concesso che esista. Ne dubito. Il lettore non troverà nulla che già non conosca. Non ho fatto altro che mettere insieme elementi già noti. La sola cosa che conta è il punto di vista. Il mio. Non verrà dato troppo spazio alla polizia. Infatti, nei regimi dell'Ospizio, non polizieschi — è un punto su cui insisterò molto —, l'irreggimentazione è affare dell'Amministrazione, mentre la polizia vera e propria non è autonoma. Si può dire lo stesso degli intellettuali, derubricati dalla società mediatica. Costoro non costituiscono più una forza indipendente. La funzione di produzione di opinioni prefabbricate è usurpata dai media. Oggi i pensatori non sono più i Voltaire o i Sartre, ma i Patrick Poivre d'Arvor e i Bernard Pivot (conduttori televisivi, NdC). Gran parte degli intellettuali è riuscita a riciclarsi nella sfera dell'entertainment. Avendo scrupolosamente abdicato al proprio compito, formano un gruppo di privilegiati ausiliari, le cui pretese di avere la verità in tasca sono tanto grottesche quando l'idea di essere rivoluzionari. Quanto alla ramificazione dominante nell'ambito professionale, il comportamento sociale può essere ridotto a semplici archetipi. Ecco perché in questo libro uso concetti come Popolo, Amministrazione, Malato ideale, Agitati, Vittime, e non idee tipiche della sociologia, come colletti blu o colletti bianchi. La crescente uniformazione dei modi di vivere, dei gusti, dei bisogni e dei prodotti consumati spinge gruppi differenziati da professione, età, potere d'acquisto, eccetera, a convergere in un unico insieme sociopsicologico: il Popolo. Ho volutamente rinunciato a individuare una borghesia, e uso poco il concetto di classe media: è ormai noto, infatti, come la mentalità e i comportamenti dell'operaio si distinguano poco, o per nulla, da quelli borghesi. Allo stesso modo, assegno ben poca importanza ai fittizi avversari del sistema dell'Ospizio. I sindacati, il Partito Comunista o i gruppi estremisti, tipo Action Directe, non contestano davvero i princìpi della civiltà dell'Ospizio, vale a dire Prosperità e Progresso. Si oppongono solo al sistema di ripartizione della ricchezza nazionale, proponendone un altro, ritenuto più giusto. In un certo senso, non vi sono opposizioni nell'Ospizio. Gli ecologisti e il Fronte Nazionale non si distinguono che per poche sfaccettature. La mia analisi parte dal mondo dell'Ospizio occidentale: la Francia, in cui risiedo, e gli Stati Uniti, dove ho vissuto per sei anni. Dedico parecchie pagine all'Europa orientale, molte meno alle zone esterne all'Ospizio, vale a dire i tre quarti del pianeta. Anzitutto perché la civiltà dell'Ospizio è nata dalla lotta dei due Blocchi contro il nazismo, e poi tra i due Blocchi stessi; in secondo luogo, poiché la mia attenzione è proporzionale all'interesse… sproporzionato dell'Occidente verso i Paesi dell'Est. «Siamo ossessionati dall'Est» ha riconosciuto post factum un alto funzionario statale come Edgar Pisani. «Le nostre relazioni con il Sud sono molto più importanti per noi… Eppure, i rapporti con l'Est non sono un problema strategico, ma economico-culturale». È sempre stato lampante che sono solo criteri economici quantitativi a separare i due mondi (la cultura di Tolstoj, Cechov e Solgenitsin è anche quella di Stendhal, Flaubert e Camus). Il narcisismo e la leggerezza dell'Occidente, la sua necessità di confrontarsi con un Nemico Assoluto, creato pezzo per pezzo — ecco cosa gli ha impedito di riconoscere il proprio fratello gemello. Il Nemico Assoluto è necessario alla salute interna dell'Occidente. Permette di mantenere i cittadini in una docile sottomissione, evacuando all'esterno l'odio e l'aggressività. In mancanza di un Nemico (o, meglio, dell'idea di un nemico, dato che lo scontro reale non è affatto auspicato), la civiltà dell'Ospizio perde la sicurezza del proprio perpetuarsi, definendosi ex negativo e condannando moralmente l'avversario. Questo libro contiene pagine poco lusinghiere nei confronti del Popolo. Prima o poi qualcuno doveva pur farlo. Da troppo tempo il Popolo beneficia di privilegi esorbitanti, dichiarandosi vittima delle Amministrazioni di cui in realtà è complice e con cui spartisce i guadagni. Gli Amministratori ne conoscono la vera natura, profondamente ipocrita, ma preferiscono mantenere il silenzio, per salvaguardare il mito di cattive Amministrazioni (opposte ai Popoli, invariabilmente buoni e innocenti) e mantenere la possibilità di sedurre il Popolo con una buona Amministrazione. Credo che insorgere contro la dittatura del Popolo sia oggi un atto tanto nobile quanto lo fu, duecento anni fa, sollevarsi contro l'Assolutismo.
In Russia esistono delle figure politiche che portano dietro di sé tantissimi discorsi sociali e storici che ci spiegano un po' meglio l'ambiente sovietico e russo. Una di queste è Eduard Limonov, pseudonimo di Eduard Veniaminovič Savenko, attivista dal carattere distintivo, esplosivo.
Queste sue accezioni caratteriali sono state poi, effettivamente, ciò che lo ha portato a una visibilità controversa, suscitata dalla curiosità della gente, in Russia e altrove, per un personaggio tanto particolare.
Nato come scrittore e poeta, Limonov ha da subito espresso nei circoli letterari le sue idee forti e dissidenti per il clima politico ed ideologico degli anni '70 e '80. L'aggettivo che meglio potrebbe descriverlo è, infatti, provocatorio, così come lo erano i gruppi culturali a cui si è avvicinato presto durante la sua attività. Avendo vissuto prima la vita da strada in Unione Sovietica, e integratosi poi nelle comunità punk e avantgarde di New York, Eduard Limonov è riuscito a dare spazio a una prolifica produzione letteraria, caratterizzata anch'essa dalla provocazione sociale. Il suo primo romanzo autobiografico, col titolo «Sono io — Edička» tradotto nella versione italiana «Il poeta russo preferisce i grandi negri», pullula di eccessi senza filtri, frutto delle sue esperienze, anche sessuali, raccontate senza tabuizzazioni e senza vergogna.
La scelta di un tale stile di vita è stata anche di tipo politico. Limonov da sempre ha fatto parte di gruppi politici ideologicamente vicini al socialismo. Una volta tornato in patria, successivamente alla caduta dell'URSS, ha sentito la necessità di proporre un partito, assieme ad Aleksandr Dugin, che unisse le ideologie bolsceviche a quelle nazionaliste. Nel 1993 nacque appunto il Partito Nazional-Bolscevico, dal quale lo scrittore si allontanò però presto, per successive divergenze ideologiche.
Con l'avvento di Putin e della sua politica, Eduard Limonov è risceso sul campo con una coalizione di opposizione che comprendeva partiti estremisti sia di destra che di sinistra, e anche di centro. L'obiettivo della coalizione «L'Altra Russia» non era quello di avere una posizione nel discorso politico bipolare, bensì unire le ideologie nazionaliste, liberiste e socialdemocratiche sotto il nome della dissidenza verso il governo in carica. Prese posizione attiva anche nella guerra civile di Jugoslavia, diventando cecchino a supporto dei serbo-bosniaci.
Nella sua ideologia controversa, Eduard Limonov ha esposto una sua interessante visione della vita che lascia spazio a importanti discussioni sulla percezione sociale dell'esistenza umana e del tempo della vita. Gli anni di carcere, dopo le accuse di cospirazione, sono stati per lui d'ispirazione e crescita, per diventare un uomo migliore. È riuscito a vedere nella prigionia l'opportunità di un'esperienza particolarmente singolare per riuscire ad interfacciarsi con ciò che egli stesso ha chiamato «caos ultraterreno». Un viaggio tutto interiore e, allo stesso tempo, esteriore alla materia in cui i corpi vivono. Anche la morte, per Limonov, non era niente di che, solo un qualcosa che succede di continuo.
Una vita e un personaggio tanto interessanti, non potevano passare inosservati nel mondo delle storie e dei racconti. Così lo scrittore francese Emmanuel Carrère ha scritto una sua biografia romanzata di successo internazionale, accolta dal protagonista in modo alquanto diffidente perché riteneva lo scrittore un «borghese», lontano quindi dalle fondamenta ideologiche di Eduard Limonov, che hanno reso possibile l'accadere di tutti questi eventi.
Esce postumo in Italia un libro degli anni '90 dello scrittore e attivista russo Eduard Limonov, nemico giurato dell'Occidente (che conosceva bene, da intellettuale bohémien qual era). Un'invettiva scintillante contro il nostro modo di vivere addomesticato, in cui l'uomo virile è stato sostituito da un popolo vittimista e malato di dolciastra positività. Catalogabile nella folta schiera dei critici della civiltà di cui gli Usa sono capofila, Limonov è un eccellente diagnostico, ma a differenza del suo bersaglio polemico, George Orwell, difetta di quell'ironia che salva dal pericolo di inseguire un'altra, opposta illusione: l'agitarsi confuso con l'agire.
Dovete leggerlo, questo manuale di istruzioni sulla distruzione. Anche voi, soprattutto voi che nulla sapete di Eduard Limonov (con l'accento sulla seconda o). Nome d'arte di Eduard Veniaminovich Savenko, questo russo all'ennesima potenza, estremo e dunque estremista, scrittore autobiografico che ha figliato romanzi come un coniglio, mille vita in una (vagabondo a New York, intellettuale a Parigi, volontario in ex Yugoslavia, agitatore in patria, punk, detenuto, sempre canaglia, sempre outsider), nel libello appena uscito per i tipi di Bietti, «Grande ospizio occidentale», tradotto da Andrea Scarabelli e curato da Andrea Lombardi, ha riassunto in poco più di 200 pagine un'invettiva contro il nostro modello di vita che, con qualche minimo sforzo da parte del lettore meno avvezzo, può essere considerata un'eccellente introduzione al genere apocalittico anti-occidentalista militante. Se invece già avete letto — segnateveli, ché altrimenti a che servono le recensioni, a parte all'ego del recensore?— «L'Impero del Bene» di Philippe Murray, «Il male americano» di Alain De Benoist e Giorgio Locchi, «L'era del vuoto» di Gilles Lipovetsky, «Il vizio oscuro dell'Occidente» di Massimo Fini, tutto Christopher Lasch, tutto Michel Houellebecq, e andando a ritroso, tutto Céline e «La grande paura dei benpensanti» di George Bernanos nonchè, of course, la colonna portante Nietzsche, allora il libello che avrete fra le mani vi dirà poco di nuovo, nella sostanza. Ma ve lo dirà in forma smagliante, trascinante, seducente.
Come se Limonov fosse lì davanti a voi a scandirvi in un comizio-fiume le verità più odiose su voi stessi, su noi stessi. Su quanto siamo non solo schiavi, manipolati, inebetiti, storditi, ma soprattutto indeboliti, svirilizzati, Malati. Tutti, anche i ricchi, potenti e famosi, che lui chiama gli Amministratori. Su quanto il Popolo sia da sempre barabbesco e vigliacco, un auto-imbroglio per solfeggiarci la cantilena della «democrazia liberale». Su quanto la civiltà di origine giudaico-cristiana, trapassata in liberal-capitalistica, abbia fondato la sua sicurezza da «Reich millenario» sul complesso della Vittima, per cui a una ragionevole maggioranza di benestanti corrisponde una minoranza di disagiati e sfruttati da un lato, e un'altra minoranza di privilegiati e sfruttatori dall'altro, in una disuguaglianza accettata grazie a un certo comfort generale, che blinda e puntella il sistema. Su quanto gli anti-conformisti, gli Agitati, siano espulsi, a volte fatti fisicamente fuori (Gheddafi preclaro esempio, ma anche Guevara, o Pasolini), altre volte commercializzati e assorbiti in veste di santini e gadget (i punk), altre volte ancora scambiati per rivoluzionari mentre rivoluzionari non erano (gli hippie, i beatniks, ecc), o semplicemente, come accade alla gran parte delle opere e dei personaggi di vero valore, ignorati. Su quanto il sesso sia «sovrastimato», la musica pop un «mezzo di abbruttimento», le ideologie «morte» tenute in vita come foglie di fico per gonzi, l'esistenza «digitalizzata», resa numero, bit, informazione quantificabile e rivendibile, e il Piacere e la Prosperità siano l'alpha e l'omega finali di un modo di non vivere, di vegetare, di tirare a campare, di basculare fra lavoro, tv, cinemino e vacanzetta col permesso del padrone.
Scritto negli anni '90, quando le spire di Internet non avevano ancora avvolto le masse nell'ordito del mondo a portata di telefonino, con la sua brava serotonina artificiale in tasca, il pamphlet di Limonov centra senz'altro la diagnosi: l'umanità occidentalizzata, sarebbe a dire americanizzata, è una sterminata mandria di animali addomesticati, la cui reattività è sedata dal mix di tranquillanti ed eccitanti — il nostro stile di vita, controllato da una violenza soft, morbida — che privano l'uomo della naturale aggressività, dell'energia tramite la quale ribellarsi e «prendere il potere». È una tesi, come si accennava, ampiamente e ripetutamente sostenuta in varie salse, ed è vera, nella misura in cui stanno lì a dimostrarla con glaciale oggettività la preponderanza di malattie non trasmissibili, l'uso massiccio di psicofarmaci, la vertiginosa crescita della solitudine, la denatalità galoppante e, in cima a tutto, seppur non misurabile, l'indifferenza, del tutto amorale, per ingiustizie palesi e squilibri inumani che oramai sono percepiti come sfondo del paesaggio. Ma il teppista Limonov mostra anche i suoi limiti là dove confonde la necessità, anche questa onestamente obiettiva, di recuperare il senso profondo che hanno dolore e sofferenza, fonte di vitalità da un punto di vista anzitutto biologico, con la fascinazione per il maschio virile che va in guerra o alla rivolta come fosse un gioco. Forse bestemmiamo perché fu un dissidente anti-putiniano, o magari proprio per questo, ma oggi forse Limonov farebbe il tifo per la brigata Wagner.
È qui, solo qui, che si può dar ragione al suo pseudo-biografo Emmanuel Carrère quando lo definì un «fascista» (inteso in senso culturale, antropologico, Limonov, piuttosto, era lui sì rossobruno, sia pur con venature libertarie, e soprattutto era un avventuriero). È sicuro, certo, che, vuoi per la cesura dell'atomica, vuoi per la comfort zone in cui ci rimpinziamo di grasso, non riusciamo più neanche a capire il «culto degli eroi» di cui Limonov ha nostalgia. Ma imbracciare le armi è una scorciatoia che può valere per qualcuno di limonovianamente agitato, non l'esito di una seria visione tragica della vita, che comporta la responsabilità di distruggere quel che va distrutto, ma anche di costruire, di umanizzare, di mettere dei limiti. Con pazienza, cioè a dire l'aristocratica capacità di sostenere il pathos, la tensione dei conflitti. Interiori e sociali. Limonov, una nuova «morale responsabile» la evoca, la invoca, la desidera, ma poi, spremendo il limone, alla giustissima critica che muove al mood eternamente adolescenziale che ci infantilizza e rimbecillisce, non fa che contrapporre un'etica da esteti del putsch e della sommossa, omettendo che gli uomini e le donne (secondo lui «sopravvalutate») sono ancheanimali sociali, comunitari, istintivamente empatici. Non è solo dall'impulso aggressivo che viene la rigenerazione, viene dalla capacità di immedesimazione, di amare (ma «anche l'amore, bisogna impararlo», si legge nella «Gaia scienza»). È proprio la biologia degli animali più sviluppati a insegnarlo: la natura non è socialmente darwinista, e non è nemmeno una gerarchia di potere in cui l'unico criterio è la forza. Non siamo coccodrilli. È l'appartenenza, e il senso di identità che ne deriva — questa è la vera morale naturale, per dirla con gli anarchici. A quale appartenenza pensa, Limonov? Semplice: non ci pensa. A lui basta vagheggiare non meglio precisate «minoranze» che guideranno la riscossa. Immagina l'azione, la pura azione, senza soggetto. E senza progetto. E allora questa analisi politica dell'occidentale già vecchio da giovane, specie quando fa il giovane da vecchio, va letta esattamente con gli occhiali con cui va letto il George Orwell di «1984» (ma aggiungeremmo anche lo splendido, e vitalista, «Omaggio alla Catalogna»), bersaglio che fa da filo conduttore polemico in questo Limonov postumo: come sana letteratura, come buona letteratura, e ogni buona letteratura, anche quando febbricitante e caustica come quella limonoviana, o ironica e virilmente compassionevole come quella orwelliana, aiuta a guardarsi allo specchio. Non a cambiare il mondo, o non certo in un rapporto causa-effetto. Limonov è un grande agente dissolvitore di illusioni, ma difettava di ironia tragica. Come del resto tutti gli uomini di azione più che di pensiero.
Intervista HuffPost allo scrittore: è una rivolta, Salvini e Meloni danno sfogo alla rabbia di queste persone, che altrimenti prenderebbe altre forme. «Greta? Una scimmietta ammaestrata»
Prima di andarsene, senza dire una parola alle persone accorse ad ascoltarlo con il luccichìo negli occhi, aveva avvertito in questa intervista di maneggiarlo con cura: «Ma che volete da noi russi? Il russo non è una persona allegra. Anzi, è testardo, spesso scontroso, un orso. Come me». L'appuntamento con Eduard Limonov — scrittore che ha narrato la sua vita avventurosa, tra criminali moscoviti, punk sovietico, club gay di New York, e poi anche agitatore politico anti-putiniano, fondatore del partito nazional-bolscevico, il cui simbolo è una bandiera nazista con la falce e il martello al posto della svastica — è al Cremlino, palazzo romano degli anni venti, opera di Carlo Broggi, soprannominato così perché a lungo vi hanno abitato alcuni dirigenti del Partito comunista italiano: «La trovo una coincidenza splendida», dice Limonov all'HuffPost.
È in Italia per presentare il suo romanzo, «Il Boia», ancora inedito nel nostro paese, tradotto dalla Sandro Teti Editore. C'è molto sesso sadomaso, molta alta società newyorkese, molta emigrazione dell'est. Claudia Marchionni, giornalista che lavora a Mediaset, l'ha convinto ad andare a casa sua a parlarne: «Anche io, quando ero giovane, discutevo di libri negli appartamenti. Verrò». Dopo l'intervista con noi, per un'oretta ha gironzolato per casa aspettando che gli dessero la parola. Ha firmato qualche autografo. Si è sottoposto, malvolentieri, ai selfie. Ha mangiato lardo di colonnata, qualche fettina di formaggio, burrata. Ha bevuto acqua, solo acqua, benché qualcuno, pensando alle sue vecchie performance alcoliche, avesse osato una timida bottiglia di vodka standard: «Sto terribilmente invecchiando. Tra poco, compirò 77 anni. Ho un fastidioso problema alla bocca. Non riesco a masticare bene, né posso bere alcolici. Le basta, o vuole continuare a mettere il becco dove non deve?».
Ha atteso, con la guardia del corpo Dimitri sempre al suo fianco, che anche l'ultimo ospite arrivasse all'appuntamento. Con calma, come fanno i romani, un'ora dopo l'orario stabilito. E quand'era tutto pronto, quando nella sala si era fatto silenzio, e anche i più restii ad allontanarsi dal buffet si erano avvicinati ad ascoltare lo scrittore diventato divo grazie al libro di Emmanuel Carrère, «Limonov», da cui sta per essere tratto anche un film, lui, il Limonov reale, esile, avvolto in una giacca nera, con gli anfibi e i jeans chiari, ha percorso la sala in direzione contraria. «Starà andando in bagno prima di cominciare», ha sussurrato qualcuno. Invece, ha preso il cappotto. L'ha indossato. E, senza un arrivederci, uno scusate, un mi avete stufato, razza di deficienti, ha attraversato il corridoio e se n'è andato, lasciando la scena al suo personaggio.
— Limonov, il suo è un romanzo dell'86: aveva già colto lo spirito masochista dell'Occidente?
— Io non parlo dei significati dei miei libri. Odio la psicoanalisi del testo. Io i libri li scrivo, e poi me ne disinteresso. Che li interpretino i lettori: li autorizzo a fare delle mie parole quello che vogliono.
— Lei ha paura della libertà delle donne, come il protagonista del suo romanzo?
— Io non sono come Oscar. Credo che quella delle donne sia una vera e propria insurrezione. Per troppo tempo, gli uomini le hanno soggiogate e sfruttate. Era naturale che prima o poi insorgessero.
— È diventato femminista?
— No, sono semplicemente uno che guarda con sobrietà e razionalità a ciò che accade.
— Si considera un precursore dei populisti?
— No, sono solo uno che, quando viveva in Francia, negli anni ottanta, ha conosciuto e frequentato Jean-Marie Le Pen, accostandosi senza pregiudizi al suo pensiero. Ora, è semplicemente più chiaro che il nazionalismo serve, produce risultati concreti, come ho detto per svariati anni.
— Quali altre idee del passato considera attuali?
— Io credo che alcuni sistemi di pensiero del secolo scorso — per esempio, quello di Marx, di Nietzsche e di Darwin — siano superati. Considero, invece, contemporanee le idee di Malthus, il primo a porsi il problema dell'esaurimento delle risorse della Terra.
— Greta Thunberg è malthusiana?
— Greta è solo una scimmietta ammaestrata. Un fenomeno della stampa scandalistica. Ogni tanto capita che l'umanità partorisca delle solenni stupidaggini. E lei è una di queste.
— Allora perché così tante persone la ascoltano?
— Perché il mondo è anche pieno di persone stupide, ottuse, fortemente influenzabili dalle passioni del momento.
— Cosa vede di intelligente in Europa?
— Al momento, niente di significativo. Ma può darsi che mi sbagli. Sarei pronto a ricredermi, se mi dimostrassero che mi sto perdendo qualcosa.
— Era venuto in Italia nel '74: in cosa l'ha vista cambiata?
— Oggi la trovo molto più sazia di quanto non lo fosse allora. Quarantacinque anni fa, la povertà si vedeva camminando per strada. Oggi non c'è, oppure è nascosta bene. Eppure, alla crescita del tenore di vita, mi pare sia corrisposta una infantilizzazione delle persone, regredite a uno stato di adolescenza permanente.
— È per questo che crescono i consensi per Salvini e Meloni?
— Le persone votano per i partiti sovranisti perché vogliono farla finita con l'immigrazione. Rifiutano di vivere accanto a chi considerano lontano culturalmente, nonché uno spietato concorrente salariale. Tutta l'Europa sta insorgendo contro la tolleranza. Ed è una rivolta molto più radicale della risposta che i singoli governi stanno provando a dare. In questo senso, il consenso massiccio che ricevono Salvini e Meloni è necessario per dare sfogo alla rabbia di queste persone, che altrimenti prenderebbe altre forme.
— La forma del modello autoritario russo?
— Smettetela di credere che la Russia vi salverà oppure vi distruggerà. Salvatevi o distruggetevi da soli. E lasciateci in pace.
— È meglio non guardare alla Russia come un esempio?
— Quelli che lo fanno, cercano delle cose che possano migliorare il sistema europeo. Non li biasimo.
— E cosa potrebbe darci la Russia?
— Il freddo. Se lo volete, ve lo diamo a un prezzo stracciato.
— Preferisce prenderla a ridere?
— Lei sta parlando con Limonov, non con la Russia.
— Me ne ero accorto.
— Allora, cosa vuole che le dica? Anche in Russia abbiamo i problemi che avete qui. I nostri governanti credono di poter gestire quello che chiamano l'islam moderato. Io, invece, non credo esista un islam moderato.
— Perché?
— Perché ogni grande religione, così come ogni grande ideologia, tende a esercitare il proprio controllo sul mondo intero. E l'islam non fa eccezione.
— Oggi è più vicino a Putin?
— È un fatto che, nel 1992, avevo detto che sarebbe stato versato del sangue in Crimea e nel Donbass, perché non era possibile che interi pezzi della Russia rimanessero fuori dallo stato russo. Allora, era considerato uno scriteriato. Oggi è realtà.
— Non ha danneggiato l'immagine della Russia?
— Ai vostri occhi, certo che sì. Voi europei ci avete adorato quando vi abbiamo regalato tutto, le basi militari in Ungheria, il controllo sui paesi del blocco orientale. Ah, come vi piacevamo quando eravamo così docili.
— Sospetto che lei non abbia festeggiato il trentennale della caduto del Muro.
— E cosa ci sarebbe da festeggiare?
— E cosa ci sarebbe da «non» festeggiare?
— Per esempio, non credo ci sarebbe stata la disgregazione dell'ex Jugoslavia se la Germania, di nuovo unita, non fosse tornata a reclamare il controllo sui territori che erano appartenuti all'Impero austro-ungarico. Avremmo evitato la guerra e le tragedie che ha portato.
— Che pensa delle polemiche sul Nobel a Peter Handke?
— Io ho combattuto dalla parte della Serbia. E penso che mi sono rotto i coglioni di sentire ogni volta le solite storie. Ci saranno sempre delle persone che la pensano diversamente da Handke e da me su quello che è successo. Amen, non si può piacere a tutti.
— Meritava il Nobel?
— Lui è bravo, è il Nobel che fa schifo.
— Lei non lo accetterebbe?
— Dipende dai soldi che ho in tasca quando mai dovessero offrirmelo.
— Ora, per esempio?
— Ora ci farei un pensierino.
— Ci sono scrittori italiani che apprezza?
— Pier Paolo Pasolini. Cercai di incontrarlo quando ancora era vivo. Non ci riuscii. Ma sono andato a visitare il posto dove l'hanno ammazzato, a Ostia.
— E poi?
— E poi sto cercando di leggere D'Annunzio in lingua originale.
— È vero che ha un anello con il volto di Mussolini?
— Chi gliel'ha detta questa stronzata?
L'ho letta in un'intervista.
— Ed era venuto qui pronto a dipingermi come un fan di Mussolini?
— No, sono venuto qui curioso di sapere cosa ne pensa.
— Le racconto una storia. Quando ero in carcere, mi sono meravigliato di scoprire che Lenin consigliava di leggere l'Avanti. Lo considerava, sotto la direzione di Mussolini, il migliore giornale del movimento operaio.
— E…
— Ora però basta però, mi ha stancato.
— Permette solo l'ultima domanda?
— Su che?
— Sulla felicità.
— E sentiamo.
— Ha la stessa idea di felicità che aveva un tempo?
— A lungo, ho desiderato riconoscimenti e attenzioni. Oggi, invece, preferisco essere compreso.
I mille volti di un polacco a New York, seduttore di donne annoiate e facoltose dell'alta società, ma innamorato di una russa mozzafiato, a cui lo lega una relazione tormentata. Nelle pagine de «Il boia» di Limonov — che risalgono a quarant'anni fa — la noia e il vuoto di valori dell'elite statunitense.
Chi è Oscar, il protagonista de «Il Boia» (296 pagine, 16 euro) di Eduard Limonov, edito da Sandro Teti Editore, tradotto da Federico Pastore? È Oscar il Potente, il Timido, il Ghignante, il Vittorioso, il Crudele, il Malvagio? O è solo un triste, tristissimo uomo innamorato e non ricambiato, ricco, ma non libero? Chi è davvero costui che si aggira in quella super-città che è New York, agghindato con una maschera di cuoio borchiato e armato di fruste e dildo? Cosa si nasconde dietro questo emigrato polacco, arrivato senza soldi in America e piano piano elevatosi a Conquistatore? Sì, un conquistatore di culi e fiche rigorosamente benestanti, votate al martirio sadomaso e sottomesse a quest'uomo forte che promette loro performance sessuali border-line e un alto tasso adrenalinico.
Sesso, soldi, successo
Va tutto bene al vecchio Oscar: l'incontro con alcune facoltose donne gli garantisce soldi. E poi fama, tanta fama. La fama del «Boia», negli ambienti che contano, in quelli dove scrittori, industriali, giornalisti e fotografi bazzicano tra una cena nella Fifth Avenue o un cocktail in qualche loft vista Manhattan. Tutte lo cercano, tutte lo vogliono. Gira voce che ci sappia fare, che sappia far godere una donna come nessuno. Genevie prima, ma anche Gabrielle e poi Diane, ognuna in qualche modo cade ai suoi piedi. C'è un ardore in lui che non lascia scampo.
Finale enigmatico
Però Oscar ama solo Natasa, una russa mozzafiato che ricambia a modo suo, senza un legame stabile, in un gioco perverso di distanze, promiscuità e sottrazioni. Ha tutto Oscar, ma in fondo non ha niente. La sua vita dipende dai capricci di queste ricche signore annoiate dell'alta società statunitense. Limonov insiste molto su questo tasto: la ricchezza ti da molto, ma ti toglie anche tanto. Il controcanto di Oscar è Jacek, suo conterraneo e spina nel fianco, per quel continuo giudicarlo immorale e addirittura malvagio. Il sesso e le sue perversioni, paradigma di un ambiente elitario e svuotato di ogni valore, sono un'abbuffata di cui Limonov abusa. A un certo punto la noia di Oscar il Boia, che guarda al suo futuro con una certa apprensione, diventa anche la noia del lettore. C'è da apprezzare il taglio volutamente trasgressivo di questo romanzo che, ricordiamocelo, fu scritto quasi quarant'anni fa. Oggi, se non proprio un testo da educande, rivela comunque una flessione nella sua capacità di imbarazzare la morale corrente. È però sempre fresco e piccante il finale enigmatico che diventa sponda per le molte interpretazioni applicabili a questo libro. E che lo consacrano, inevitabilmente, a fatale romanzo giallo.
Ecco finalmente l'occasione di parlare di Limonov. Di parlare di quello vero, dello scrittore, del poeta (già, Limonov è anche poeta), dell'ex spina nel fianco di Putin, dell'ex egocentrico provocatore che ha frequentato i bassifondi di New York e i salotti di Parigi. Quello vero, non la figura romanzesca che troviamo nelle pagine del bel romanzo di Emmanuel Carrère («Limonov», «Adelphi» 2012). Un fenomeno alquanto bizzarro, il grande successo del volume di Carrère: molti lettori italiani si sono appassionati alla biografia di uno scrittore del quale non conoscevano le opere, di un uomo che ha vissuto esperienze inimmaginabili per un occidentale. Di ciò va riconosciuto il merito a Carrère, scrittore specializzato non tanto nell'invenzione, quanto nella narrazione di vite che non sono la sua, che ha unito un'attenta lettura delle opere di Limonov, spesso disinvoltamente pseudoautobiografiche, a una corretta comprensione dei mutamenti della società russa tra gli anni novanta e gli inizi del duemila. Anche se lo scrittore ha affermato di non riconoscersi nella descrizione di Carrère, tutto in questa biografia è vero, la vita spericolata dell'eroe eponimo è reale, reale la dissennata comparsa a Sarajevo al fianco di Karadžić, reali l'arresto e i due anni di detenzione. Una vita davvero romanzesca, che certo potrebbe apparire inventata. Ed è il personaggio dalle esperienze estreme che ha colpito i lettori italiani, non lo scrittore. Anche perché lo scrittore era ed è ancora quasi sconosciuto.
Partiamo allora dall'inizio. «Limonov» è lo pseudonimo di Eduard Savenko, nato a Dzeržinsk, Russia, nel 1943, ma cresciuto a Char'kov, grosso centro dell'industria metallurgica nell'Ucraina orientale. Oltre al frutto, lo pseudonimo evoca la limonka, ossia la granata (e “Limonka” sarà il nome del giornale del Partito nazional-bolscevico creato dallo scrittore). In questo pseudonimo la rivolta, il contenuto esplosivo, la lacerazione sono proposti al potenziale lettore in modo programmaticamente provocatorio. Gli inizi di Eduard sono dedicati alla poesia: i suoi versi sono sorprendenti, mai tradizionali, con immagini grottesche che creano una sorta di narratività assurdista. Dal 1967 a Mosca, Limonov conosce e sposa Elena Ščapova, grande amore e tormento tra Mosca e New York: i due lasciano la Russia nel 1974. Poco dopo l'inizio di una difficile emigrazione Elena lo tradisce e lo lascia. Eduard non si inserisce affatto nell'ambiente dei fuoriusciti russi, è polemico con i colleghi scrittori e contesta apertamente la società americana che fa di lui un emarginato.
È a questo punto che nasce il Limonov prosatore. Nel 1976 ecco il primo romanzo, che è anche il suo insuperato capolavoro, «Eto ja, Edička» (letteralmente «Sono io, Edička»). Ma quest'opera per il lettore italiano non esiste. È stata tradotta da Marina Marazza nel 1985, ma dal francese, e dal francese prende anche il titolo, penosamente fuorviante: «Il poeta russo preferisce i grandi negri». Questa edizione, inoltre, è assolutamente introvabile. Il romanzo è un grido di dolore, il dibattersi furioso di un giovane che vive il tradimento e la gelosia con una sorta di smania erotica masochistica, ed è la rivolta di un uomo che ha visto trasformarsi il sogno americano in una inarrestabile discesa verso il basso, verso la marginalità. Il dolore e il livore sociale esplodono in una lingua nuovissima per l'epoca, nella quale si uniscono la tenerezza del discorso amoroso e la violenza del linguaggio esplicito del sesso, per il quale il russo non ha forse ancora una lingua di traduzione che non sia il turpiloquio. Lo scrittore chiama le parti del corpo con parole da caserma e attenta alla purezza della lingua russa ibridizzandola con il suo inglese spesso approssimativo. Sconcerta quindi il lettore su vari piani, lo turba e lo coinvolge, lo costringe a soffrire e a ribellarsi con lui. Pubblicarlo fu difficile per le ovvie accuse di oscenità, e il libro uscì prima in Francia che negli Stati Uniti.
L'opera successiva di Limonov invece in Italia esiste, è «Diario di un fallito» (1977, tradotto nel 2004 da Marina Sorina), in cui dolore e rivolta sono ripresi e interiorizzati, a volte perfino con un certo lirismo. Anche questo è un libro che va letto. Come il primo, ci fa capire che lo scrittore ha individuato da subito il proprio percorso: sarà il narratore di se stesso. Dal 1982 lo scrittore si trasferisce a Parigi, poi negli anni novanta rientra in patria e si impegna in un'aspra polemica contro la nuova Russia travolta dall'economia di mercato, si dedica a un'intensa attività pubblicistica e si allontana dal filone pseudoautobiografico. Sono gli anni della creazione del Partito nazional-bolscevico, che non ha lunga vita ma desta scalpore e fastidio, anni irrequieti che si chiuderanno con un processo per detenzione di armi e tentativo di eversione e con il carcere, tra il 2001 e il 2003. A questo punto lo scrittore, ormai sessantenne, compie una nuova svolta. Abbandona l'autofiction per una forma nuova meno impegnativa, costituita da frammenti di diverse lunghezze, note, osservazioni, che lui unisce in base a un filo conduttore di volta in volta diverso. Ecco quindi i tre «Libri dei morti» (2001, 2010, 2015) e il «Libro dell'acqua» (2001), tempestivamente tradotto da Mario Caramitti. A questo nuovo genere appartengono le molte raccolte di ricordi del periodo della detenzione, tra le quali è stato tradotto da Giulia De Florio e Elena Freda Piredda «Il trionfo della metafisica» (2005, Salani 2013). In questa e nelle altre raccolte la galleria dei ritratti di detenuti ci colpisce per l'acutezza dell'osservazione, per la conoscenza che Limonov dimostra (ed esibisce) della Russia meno glamour, ma a emergere sono sempre la sua conoscenza dell'uomo, la sua saggezza nei comportamenti adottati nel carcere, la sua forza di volontà, la sua coerenza, il suo fascino, il tutto volto a definire i tratti di una personalità unica.
E arriviamo così alle due recenti edizioni Sandro Teti: «Zona industriale» (2018), tradotto da Sandro Teti e Stefano Fronteddu, e «Il boia» (2019), tradotto da Federico Pastore Edu (pp. 296, € 16, Sandro Teti, Roma 2019). Il primo tratta di un grigio periodo successivo alla scarcerazione, «Il boia» è invece uno dei primissimi lavori dello scrittore, è del 1982 ed è uscito per la prima volta in francese nel 1986; stupisce quindi (ma non poi troppo) il vederlo pubblicato oggi. Se all'autore, all'epoca, il tema sadomaso poteva causare guai giudiziari, i problemi che ha il lettore sono invece di altro tipo: le scene di sesso sono decisamente hard e, come già sappiamo, Limonov non usa eufemismi. Chi si scandalizza facilmente si tenga alla larga, chi è curioso può invece interessarsi alle vicende di Oscar, giovane polacco emigrato a New York, che decide, forse per vendetta sociale, ma certamente per sbarcare il lunario, di intraprendere una carriera come Master, dominante, e che riesce, con inverosimile rapidità, a legare a sé ricche signore del bel mondo newyorkese. Il romanzo presenta con ironia e malcelato disprezzo un mondo di intellettuali e imprenditori americani descritto in modo abbastanza convenzionale, e segue uno sviluppo da thriller; ma ciò che lo caratterizza sono, come si può immaginare, le scene di sesso, sadomaso e non, che nulla lasciano all'immaginazione. E il problema è proprio questo: Limonov qui dice tutto, entra in tutti i particolari, ma i particolari, più o meno ripugnanti o grotteschi (un grottesco del tutto involontario), non sono funzionali a un'idea, a una tensione interiore (l'amore calpestato, lo slancio rivoluzionario, come in «Sono io, Edička»), a un assunto ideologico (l'odio per una società che schiaccia gli ultimi, come in «Diario di un fallito»), e neppure alla crescita del personaggio come suo alter ego (come in «Eddy-baby ti amo» tradotto per Salani da Matteo Falcucci). Sembrano piuttosto non avere scopo alcuno se non quello di scandalizzare. E proprio per questo disturbano, forse, ma non turbano, non eccitano, non smuovono l'eros del lettore, che può essere coinvolto, chissà, soltanto dalla scena finale. Viene quindi da chiedersi perché mai Limonov, che nei due romanzi di esordio ha mostrato un'estrema maestria stilistica, un'immaginazione inquieta e parossistica e un vero genio per il disvelamento delle più recondite pieghe dell'io, tanto da imporsi come una sorta di Dostoevskij tardonovecentesco, scivoli deliberatamente sul piano del romanzo pornografico. Quanto è drammaticamente «sincero» nelle scene di sesso e di violenza dei primi due romanzi, altrettanto meccanico e freddo è nel «Boia» (che forse sarebbe stato meglio tradurre come Master, o almeno Carnefice), nel quale il protagonista pianifica a tavolino il proprio futuro, facendo di quella che dovrebbe essere una pulsione profonda una professione. Una spiegazione che si può ipotizzare è che, divertito ma anche infastidito dalle accuse di oscenità che avevano accolto il romanzo d'esordio, abbia deciso di andare beffardamente incontro a critici e detrattori, di accontentarli in pieno, di mettersi sul piano della loro angusta percezione, fornendo loro un vero romanzo porno, osceno in quanto privo di vissuto, di eros e di dolore. L'impressione è che Edička sia diventato adulto (quando scrive «Il boia» ha 39 anni), che abbia concluso il suo periodo di formazione come uomo e come scrittore e abbia deciso di passare a una nuova fase della propria vita: quella della costruzione di una personalità programmaticamente eversiva, spudorata e provocatoria, che è appunto ciò che farà nei decenni successivi.
Qualche parola sulla traduzione. Senz'altro scorrevole e controllata, adeguata all'originale, non rende però un buon servizio all'autore per l'abbassamento del registro lessicale, che Limonov in realtà si concede raramente. Se per indicare il sesso femminile il termine usato anche in russo è solo quello volgare, per quello maschile Limonov, guarda caso, è più rispettoso e usa di preferenza il termine «membro», laddove nella traduzione troviamo quasi sempre la nota parola di cinque lettere: che essa sia ormai frequente nell'italiano non giustifica il salto di registro, soprattutto in un ambito, quello del sesso, che per Limonov è, se così si può dire, sacro. Così viene messo in parte a rischio il tono neutro, quasi notarile, con il quale le scene più estreme vengono descritte da un controllatissimo narratore.
E una coda sull'uomo Limonov: tra le tante cose di cui lo scrittore, con assoluta serietà, si fa vanto, c'è quella di non possedere beni di alcun tipo. Limonov scrive incessantemente e vive dei proventi delle sue pubblicazioni, che peraltro possono essere tutte lette o scaricate gratuitamente dal suo sito. Piaccia o no, al di là della provocazione il ribelle mostra una sua coerenza profonda, che lo porterà forse davvero, prima o poi, a una metafisica asciuttezza.
rosanna.giaquinta@uniud.it
R.A. Giaquinta ha insegnato lingua e letteratura russa all'Università di Udine
Eduard Limonov è un paradosso vivente: il paradosso di essere, almeno in Occidente — e con l'eccezione della Francia — uno scrittore conosciuto più per il libro scritto da un altro che per i 62 libri che ha scritto lui. Mi riferisco naturalmente a Emmanuel Carrère, che raccontò la vita di quest'uomo in «Limonov» (Adeplhi, 2012) prima ancora che sapessimo della sua esistenza: una biografia che tutti abbiamo letto come un romanzo, perché quella di Eduard Limonov è una di quelle vite che risultano più incredibili della fiction.
Nato nel 1943 in unione Sovietica, vero nome Eduard Veniaminovič Savenko, considerato asociale dalle autorità per il suo atteggiamento punk, adotta lo pseudonimo Limonov in riferimento al gusto aspro degli agrumi. Deciso a sfondare nel mondo della letteratura, si trasferisce a Mosca insieme alla seconda moglie Elena Kozlova, pubblica due volumi di poesie a sue spese, infine lascia l'Unione Sovietica nel 1974 come apolide, perché è stato privato della cittadinanza; si trasferisce a New York dove in un primo tempo viene accolto a braccia aperte per ragioni politiche: un dissidente negli anni in cui la Guerra fredda si era intiepidita. Anche negli Stati Uniti però Limonov si atteggia a punk, frequenta ambienti di sinistra radicale, trascorre un periodo come homeless dopo il secondo divorzio, ha esperienze omosessuali e scrive il suo primo romanzo, che sarà tradotto in italiano come «Il poeta russo preferisce i grandi negri» (Frassinelli, 1985). Nel 1980, disilluso dsgli Stasti Uniti e indagato dall'FBI, si trasferisce a Parigi. In Francia il suo libro è un successo immediato, sposa la cantante Natalija Medvedeva (trasparente ispirazione per il personaggio di Nataša in «Il boia», scritto proprio a Parigi), ottiene la cittadinanza francese, viene reintegrato come cittadino russo nel 1991 e alla dissoluzione dell'Unione Sovietica torna in patria per impegnarsi in politica.
Seguono anni burrascosi. Limonov fonda un «partito nazionalbolscevico» che ha come stemma falce e martello in un cerchio bianco su sfondo rosso, per richiamare in maniera esplicita la bandiera nazista, con un programma massimalista: un'Eurasia sotto il dominio russo. È parte di questo progetto, per esempio, l'appoggio ai nazionalisti serbi durante le guerre in Jugoslavia, e non per caso Limonov festeggia il cinquantesimo compleanno sparando con un'arma di grosso calibro sulle posizioni dell'esercito croato nell'enclave serba della Krajna.
In tempi più recenti Limonov ritratta l'alleanza con il leader ultranazionalista Vladimir Žirinovskij, che considera troppo moderato, e si impegna in una dura opposizione da destra al regime autocratico di Putin — con qualche incidente di percorso, per esempio quando a 67 anni di età viene filmato durante un'orgia con una donna, un politico di estrema destra e un giornalista.
Limonov scrive «Il boia» nel 1982, durante il periodo trascorso a Parigi; il libro viene pubblicato in francese quattro anni dopo, con il titolo «Oscar et les femmes», perché l'editore teme la censura, e poi in russo nel 1993; secondo l'autore, in patria vendette un milione di copie. La storia sfrutta l'ambientazione newyorchese che Limonov conosce per esperienza diretta. Il protagonista è un polacco, Oscar, espatriato in America per ragioni di anticonformismo (si dichiara apolitico). Terminato il sussidio di disoccupazione, un giorno in un fast-food assiste all'insensato omicidio di un uomo. Decide su due piedi di terminare con la deriva che sta prendendo la sua vita e di guadagnarsi da vivere con ciò che sa fare meglio: vale a dire soddisfare sessualmente una donna. Siccome frequenta occasionalmente un negozio di articoli sadomaso, si procura quelli che considera i primi articoli del mestiere e si da fare per trovare la prima cliente. Il suo target è una donna che ha passato la mezza età ma che ha ancora desideri sessuali, sola e naturalmente agiata. Ha infatti deciso di diventare il Boia, gigolo d'alto bordo che impone alle sue (consapevoli) clienti un grottesco role-play di ceppi, fruste, maschere di cuoio in una stanza appositamente arredata per somigliare al dongione di una prigione medioevale.
Questo è l'inizio di una ascesa sociale favorita dal passa-parola, dall'atteggiamento tollerante dei circoli che si trova a frequentare e dalla propaganda gratuita che gli fa una rivista sensazionalistica, contribuendo a lanciare il suo nome e la sua professione in tutto il paese.
Oscar si trova così diviso tra il suo nuovo ruolo dominante (ma solo durante il lavoro, perché per il resto dipende totalmente dalle sue donne, che da dominate a letto si rivelano dominanti nel rapporto), il proprio passato (rappresentato da Nataša, la giovane russa di cui è innamorato e che non fa mistero di adorare il sesso con chiunque) e la consapevolezza della mezz'età che si avvicina, e con essa il momento di fare i conti con la propria vita.
Lo stile del romanzo è decisamente esplicito, senza essere per questo pornografico in modo aperto. Oscar giustifica a se stesso ciò che succede con la mercificazione estrema del mondo capitalista, che pure accetta mettendo da parte qualsiasi ambizione letteraria. Il suo cinismo si riflette, ma al contrario, nel connazionale Jacek Gutor, che invece rifiuta di scendere a patti con la propria coscienza.
«Il boia» non sembra invecchiato in oltre trent'anni di vita; rimanda ancora agli anni della presidenza di Ronald Reagan, che allora si definiva «riflusso» per indicare che il tempo della contestazione era finito. Racconta un mondo forse meno radicalmente squallido rispetto ad «American Psycho» di Bret Easton Ellis, ma altrettanto vuoto. Verso il finale c'è qualche scatto e una possibilità di riscatto; Oscar sembra trovare un'alternativa rispetto a un motore che gira a vuoto (forse per colpa di un numero di pagine eccessivo), ma il fatto che Limonov offra al lettore un punto di vista asettico, che riduce ai minimi termini la partecipazione emotiva, non significa che voglia lasciare indeterminato il finale — infatti il romanzo ha uno scatto d'orgoglio, e termina in un modo effettivamente imprevedibile.
«Pulp Magazine», 10 marzo 2020
Eduard Limonov, «Il boia», tr. Federico Pastore, Sandro Teti Editore, pp. 296, euro 16,00 stampa
Autore di oltre70 libri e fondatore del Partito nazional bolscevico (oggi fuorilegge) e di Altra Russia, era diventato famoso come protagonista del romanzo omonimo di Emmanuel Carrère.
Non è certo questo il finale che Limonov avrebbe scritto per sé: solo su un letto d'ospedale. Sempre fedele all'iconografia di se stesso, fisico asciutto, faccia aguzza, baffi e barbetta affusolata in un pizzetto alla Trotskij, Eduard Veniaminovich Savenko, in arte e in battaglia Eduard Limonov, sembrava avesse fatto un patto con il diavolo alla Dorian Gray. E invece se l'è portato via un tumore con cui lottava da tempo. Forse è per questo che, agli auguri per i suoi 77 anni, lo scorso 22 febbraio, aveva risposto tagliente: «Odio i miei compleanni. Spero che lei odii i suoi». O forse è solo che, aspro e bellicoso come il suo nome d'arte che richiamava il «limone» e la «granata» (limonka), sguazzava nella parte del demolitore.
Prima della biografia di Emmanuel Carrère (in Italia pubblicata da Adelphi), c'era stato un tempo in cui Limonov era stato il personaggio dei suoi libri ed era stata la sua stessa penna di scrittore a moltiplicare le sue identità in cerca d'autore. L'adolescente travagliato e teppistello di strada che vinceva concorsi di poesie a Kharkov, in Ucraina («Eddy-baby ti amo»). L'esule negli anni Settanta a New York: sciupafemmine che si concedeva a uomini e senzatetto finito per diventare il maggiordomo di un miliardario («Il poeta russo preferisce i grandi negri», «Diario di un fallito»).
L'idolo dei circoli parigini («Domare una tigre a Parigi») e il loro abominio perché, quando il mondo osannava la perestrojka, lui chiedeva che Gorbaciov venisse messo a morte o in un documentario veniva ripreso mentre mitragliava su Sarajevo assediata sotto lo sguardo dell'ex presidente serbo-bosniaco Radovan Karadzic incriminato di fronte all'Aja.
Una vita di ascese e discese. Sempre sul crinale. Una summa di contraddizioni. A partire dalla sua creatura: il Partito nazional bolscevico, oggi fuorilegge, dalla bandiera nazista con falce e martello al posto della svastica, fondato insieme al filosofo Aleksandr Dugin dopo il suo ritorno in Russia poco dopo il crollo dell'Urss. Le sue scorribande rosso-brune gli costarono due anni in carcere, tra il 2001 e il 2003. «Non immaginavo che un uomo di oltre 60 anni uscito di prigione potesse iniziare una nuova vita, ma è successo».
Nel 2010 una nuova avventura politica: il partito «Altra Russia» al fianco dello scacchista Garri Kasparov e le passeggiate di «Strategia 31» ogni 31 del mese in nome dell'articolo della Costituzione russa che tutela il diritto alle riunioni pacifiche. Più volte agli arresti, diventa nuovo martire dell'opposizione.
Del paradosso d'aver scritto oltre 70 libri ed esser diventato famoso come personaggio di un romanzo altrui, non si crucciava. «Quello che ha fatto Carrère per me è una cosa buona. È come se avesse resuscitato uno scrittore morto». Eppure, tra le spoglie mura paglierine del suo piccolo appartamento al quinto piano non lontano da piazza Triumfalnaja, dove si erge la statua del poeta Vladimir Majakovskij, cantore della rivoluzione del 1917, amava vantarsi: «Quel libro non l'ho mai letto. L'ho lasciato perdere dopo poche pagine. Con Emmanuel ci siamo conosciuti in Francia. Quando arrivò a Mosca, lo ricordavo a stento. È stato con me un paio di settimane. Alla fine non ne potevo più. Su di me sbaglia da morire. Il suo libro è solo una raccolta delle sue idee bourgeois su uno scrittore russo. Usa il mio nome e alcune delle storie che ho raccontato nelle mie autobiografie romanzate, ma non è la mia vita». E, insisteva, la sua non era neppure stata una «vita di merda».
La verità è che Limonov, come nessun altro, sapeva come raccontare di sé. «La mia vita non è importante, è solo un'occasione per parlare dell'epoca. Come un turista che va in Egitto e sta sotto le piramidi per misurare la sua piccolezza». Rimpianti non ne aveva. «Io, pentito di qualcosa? Che errori dovrei aver fatto? Non ho mai inseguito né il successo né i soldi». E neppure paure: «Che cosa dovrei temere? Non penso che mi resti molto da vivere. Ma quando scrivono un libro su di te, hai già vinto».
Solo venerdì scorso aveva annunciato sulla sua pagina Facebook di aver firmato un contratto per un nuovo libro con la casa editrice Individuum. «Il volume è già stato scritto», aveva scritto. Uscirà postumo. Già quattro anni fa era stato ricoverato in rianimazione nel reparto di neurochirurgia. «Sono stato quasi nell'aldilà, ma ora sto bene», aveva scritto sul suo blog dal letto d'ospedale per rassicurare i suoi fan. Stavolta invece solo silenzio.
A dicembre lo scrittore russo fece una comparsata in un appartamento della capitale. Doveva presentare un suo libro, ma ecco come andò.
L'ultima volta di Limonov a Roma fu un flop. O, forse, un grandissimo successo. Perché, come che sia andata, per giorni sulla stampa italiana e in quelli che a qualcuno piace chiamare i «salotti buoni» della Capitale si parlò di quella bizzarra comparsata del controverso intellettuale post-sovietico.
Davvero una comparsata in realtà, perché più che per qualche selfie e un paio di battute Limonov non si concesse. La location, di per sé, era già tutta un programma: un raffinato appartamento al Cremlino Bianco in cui una giornalista organizza affollate e apprezzate presentazioni di libri, dopo esservisi trasferita da una soffitta con terrazza nella centralissima via Giulia.
Per comprendere l'ironia bisogna spiegare che il Cremlino Bianco si chiama così per molteplici ragioni: uno dei più eleganti appartamenti di questo maestoso complesso sulle sponde del Tevere, nel cuore del popolare quartiere di Testaccio, era un tempo una delle sedi più importanti del partito comunista italiano. Ora in quelle stanze vive il giudice Rosario Priore (quello dell'inchiesta sulla strage di Ustica, per intenderci) che nella parete del salone ha voluto lasciare un enorme falce e martello di epoca postbellica. Al Cremlino Bianco, oltre a Priore, vivono (o hanno vissuto) esponenti di spicco dell'intellighenzia di sinistra (o fu tale) come Giuliano Ferrara ed Enrico Letta.
Ed è quindi più che ironico che proprio al Cremlino Bianco fosse andato a parlare uno degli intellettuali più invisi al Cremlino (quello vero). Anche se 'parlare' è, per l'appunto, una parola grossa, Perché nel'affollato salone dell'appartamento dove sedeva davanti a un albero di Natale, le finestre spalancate per dare un po' d'aria in un inverno insolitamente caldo, Limonov quasi non spiccicò verbo.
Si era mostrato irrequieto fin dal primo momento. Irrequieto per la lunga intervista cui era stato costretto e che lo aveva — a detta del suo editore italiano — stremato; irrequieto per la chiassosa folla che in parte non riconosceva in lui la controversa figura politica, il discusso rivoluzionario, l'ambiguo guerrigliero. Irrequieto per il continuo italico ciarlare che, tra una fetta di salame e un bicchiere di Chianti, non sembrava volersi acquietare per cedere la parola all'uomo venuto dalla steppa dopo un larghissimo giro di conflitti ed esili.
Fatto sta che proprio mentre la sala si azzittava e tutti si disponevano a dargli ascolto, Limonov borbottò qualcosa, si alzò, uscì dalla stanza, trovò a fatica il proprio cappotto tra quelli delle decine di ospiti e andò via — esile, minuto, sofferente — seguito dalla imbarazzata padrona di casa, dal costernato editore e dagli sguardi sorpresi degli astanti.
Sorpresi, per la verità, solo per poco, perché dopo che lo stupore si fu trasformato in fastidio e gli sguardi di curiosità e ammirazione si furono romanamente mutati in qualche «ma vaff...», si tornò placidamente a parlare di libri e, pure, di lui. Di quel Limonov del quale, se non fosse stato un altro autore dall'ego ipertrofico come Emanuele Carrére a dargli fama, oggi (a torto) si ricorderebbero in pochi nei chiusi, nostalgici tinelli costretti all'isolamento.
Limonov, il leggendario dissidente russo reso famoso dall'omonimo romanzo di Carrère, è morto ieri a 77 anni. Ma con la morte aveva già maturato una certa familiarità.
Gli uomini, ha scritto una volta Eduard Limonov in uno dei suoi libri, muoiono ininterrottamente. Ragion per cui, dal punto di vista della trama, neppure lui probabilmente darebbe troppo peso alla notizia della sua di morte, avvenuta ieri a Mosca in ospedale dopo una lunga malattia: sono cose che succedono, direbbe adesso se potesse, voltandosi di lato. A 77 anni, con una ventina di romanzi alle spalle, tre guerre vissute come giornalista e come mercenario fra Caucaso, Balcani e Moldavia e qualche mese in cella nel carcere-fortezza di Lefertovo, ha passato gli ultimi tempi nella consapevolezza decisamente confortevole di essere il più grande fra gli scrittori russi, quantomeno fra i viventi. Con gli altri, con i morti, aveva poco da spartire. Il tempo non ne aveva fatto un santo come Dostoeveskij, e neppure un martire come Solzhenitsin: Limonov stava invecchiando come t'immagini che invecchino i punk, con le tempie rasate, gli occhi spalancati e gli occhiali calcati appena sopra al naso. Somigliava vagamente a Leon Trockij, del quale apprezzava il pensiero. Portava un anello alla mano sinistra con il volto di Mussolini, per il quale nutriva un ambiguo rispetto. Diceva che tutto sommato non aveva più alcun senso parlare di rivoluzione, soprattutto in Russia al giorno d'oggi.
A Mosca Limonov viveva in un appartamento che aveva preso in affitto al quinto o sesto piano di una palazzina in centro, dalle parti della stazione Belorussky. Il citofono era spessa rotto, quindi mandava in cortile ad aspettarti un ragazzo sui trenta di nome Sergei con la camicia aperta e una grossa croce d'oro che rimbalzava a ogni scalino sul torace depilato. Sergei gli faceva da assistente, da guardia del corpo e chissà cos'altro. Prima ti guardava da vicino per evitare di perquisirti e poi ti salutava. Bel tipo cinematografico, Sergei. A casa sua, Limonov dava l'impressione di tenersi a debita distanza dal passato. Aveva uno scaffale per i libri, due ritratti alle pareti e un paio di foto della Bosnia appese sopra al computer. Era come se la mercanzia messa insieme in cinquant'anni di bravate a Gudauty, sul Mar Nero, a Parigi, Gare du Nord, e Tompinks Square a New York dovesse arrivare da un momento all'altro a destinazione. Ma la mercanzia semplicemente non c'era, o l'avevano perduta quelli delle spedizioni in qualche naufragio lungo la rotta. Con i figli non aveva rapporti. A seconda delle versioni, ho sentito che ne avesse quattro, cinque o addirittura sei. La prima moglie, Elena, che vive a Roma, aveva rifiutato d'incontrarla a dicembre, durante il suo ultimo viaggio in Italia.
Era tornato per pochi giorni e soltanto per presentare un libro che era appena stato tradotto, ma anche Roma, in effetti, Limonov se la sarebbe evitata volentieri. Forse è per averci fatto la fame, a metà degli anni Settanta, quando tirava avanti a Trastevere con i soldi del Fondo Tolstoij per giovani scrittori aspettando di partire per gli Stati Uniti: 122.000 lire al mese, sessanta succhiate da una certa Francesca per una stanza fredda, con il lucchetto al telefono e la doccia una volta a settimana. Oppure per i giovanotti vanitosi che nonostante tutto, nonostante quella povertà schifosa, nei giorni di festa, verso sera, uscivano da caseggiati indecenti con le giacche strette, le camicie di seta e i pantaloni stretti al sedere. Leggendo Fomenko e Nosovskij e le loro tesi parastoriche si era convinto che Roma fosse un imbroglio e per di più maleodorante, che nessun impero era mai esistito lungo le rive del Tevere e che in fin dei conti la città fosse un campionario di edifici in rovina e di rovine isolate, di colonne, pareti e pavimenti che per giunta cominciavano a crollare: Roma si fa pagare da chi vuole guardare le sue pietre apparentemente antiche, questo e niente altro, se non un vago senso di putrefazione.
Con la morte, come detto, e con i morti e con i segni premonitori Limonov aveva maturato una certa fratellanza. «Nessuno dovrebbe opporsi al destino», è la cosa migliore che gli abbia sentito dire: credo che sia un modo molto russo di guardare alle cose. Non credeva di essere uno in grado di prevedere il futuro, ma di sentirlo arrivare, beh, quello senza dubbio alcuno. A persone morte, poco importa se le avesse conosciute o meno, aveva dedicato decine di racconti che si trovano in un paio di volumi pubblicati in Russia. «Sì, Morte!» era il motto del Partito Nazional-Bolscevico, il movimento estremista che aveva fondato il Primo di maggio del '93, quando la Russia somigliava tanto a un grosso rave a cielo aperto con oligarchi, mafia armena e droghe sintetiche. Quelle imprese gli hanno portato una certa popolarità in Europa, non fosse altro per avere fatto la sua parte contro Putin, una popolarità che è cresciuta con la biografia dello scrittore francese Emmanuel Carrère, che Limonov riteneva comunque nient'altro che un «borghese», e nei confronti del quale nutriva parecchia diffidenza. Pochi giorni prima di entrare in ospedale Limonov ha fatto sapere sul suo blog di avere chiuso un nuovo libro. Il libro dovrebbe chiamarsi «Il vecchio viaggia»: neppure una parola sulla malattia. In fondo, tutti muoiono. Senza eccezione.
La morte di Eduard Limonov segna, senza che possa apparire banale, la fine di un fenomeno politico-letterario che in alcuni momenti ha incarnato alcuni motivi culturali della Russia post-sovietica. Lo scrittore russo, venuto a mancare a causa dei postumi di un'operazione a 77 anni, ha percorso gli anni della sua vita in marcia, infrangendo regole, costumi e buonsenso, sempre mosso da una costante tensione tra repulsione e accettazione, marginalità e celebrità.
Nato nel 1943 a Dzeržinsk nella famiglia di un militare, il piccolo Limonov (allora ancora Eduard Savenko) passa i suoi anni di formazione a Saltovka, alla periferia di Char'kov, già capitale dell'Ucraina sovietica fino al 1934, distrutta dalle tre battaglie combattute per il controllo della città durante la Seconda guerra mondiale. L'adolescente Savenko cresce tra letture e atti di teppismo, Emanuel Carrère nel suo suggestivo romanzo dedicato alla vita dello scrittore russo lo descrive in questo modo: «Ovunque vada, è il più giovane, il più piccolo, l'unico con gli occhiali, ma ha sempre in tasca un coltello a serramanico dotato di una lama che misura un po' più del palmo della mano, la distanza tra il petto e il cuore, e questo significa che quel coltello può uccidere». Già in questi anni si sviluppa quell'ambivalenza tetra e affascinante tipica del personaggio Limonov, sempre volto a cercare una vitalità brutale nei fatti del quotidiano, siano le risse dei quartieri di periferia o le guerre dello spazio post-sovietico. Una vitalità brutale volutamente filtrata dal racconto spietato, di uno scrittore che diceva di sé stesso nel 1980 alla conferenza sulla letteratura dell'emigrazione russa della terza ondata a Los Angeles che sarebbe nato volentieri in America, per esser parte di quella letteratura americana che riteneva maggiormente adatta al suo stile.
Il Limonov autore nasce come poeta nella Char'kov del disgelo degli anni Sessanta, dove immediatamente acquisisce notorietà tra i giovani intellettuali della città. Ma, nonostante all'epoca fosse già una delle principali metropoli dell'Unione Sovietica, Char'kov e la sua scena culturale risultano essere troppo piccole, provinciali, per il talento e l'ego del giovane Savenko. Come le tre sorelle dell'omonimo dramma di Anton Čechov, è Mosca ad attrarre Edik, il quale entra nel panorama dell'underground intellettuale moscovita in modo bizzarro. Limonov a Mosca è il poeta-sarto, dalle sue mani escono versi e paia di jeans, e ne diventa una figura importante, prima di essere mandato via dal paese, con l'accusa di essere un elemento anti-sovietico nel 1974. Ironie della sorte, per colui che negli anni Novanta darà una propria personalissima interpretazione fin troppo esaltata e ipernazionalista dell'Unione Sovietica.
È a New York che nasce definitivamente il Limonov scrittore e fenomeno culturale. Così diverso dall'immagine tradizionale dell'intellettuale oppositore del regime, Limonov frequenta gli ambienti del Socialist Workers' Party e vive una vita ai margini, da cui scaturisce il suo primo, fulminante romanzo, un successo, «Eto ja, Edička» (tradotto in italiano col titolo di «Il poeta russo preferisce i grandi negri»). Vi è un passaggio di un altro suo romanzo, «Dnevnik neudačnika» («Diario di un fallito»), dove vi è la rabbia di Limonov, la mai sopita volontà di potenza e di rivolta di un talentuoso messo all'angolo da un'esistenza rabberciata: «Verrà la grande e valorosa tribù dei falliti, losers in inglese, in russo neudačniki. Verranno tutti, imbracceranno le armi, occuperanno una città dopo l'altra, distruggeranno le banche, le fabbriche, gli uffici, le case editrici, e io, Eduard Limonov, marcerò in testa alla colonna, e tutti mi riconosceranno e mi ameranno» (E. Limonov, «Diario di un fallito», 1982, la traduzione italiana è del 2004). La fascinazione per la rivolta, il desiderio di essere riconosciuto e amato lo accompagneranno per tutta la vita. La russista Maria Candida Ghidini ha notato nella sua introduzione alla traduzione italiana di «Il trionfo della metafisica» come il radicalismo estremistico proprio della carriera di scrittore e uomo politico di Limonov sia in realtà una costruzione, una scelta creativa. Questo sonoro «schiaffo al gusto pubblico», questa continua sfida, spesso oltre ogni limite e immaginazione, sono state notate anche da una grande amica dello scrittore russo e famosa studiosa di letteratura, Ol'ga Matič, che nelle sue memorie dedica un intero capitolo a Edička, sottolineandone il carattere di «uomo-evento» e non celando il grande affetto verso l'uomo Limonov. Il percorso e le opere dello scrittore, che si trasferisce all'inizio degli anni Ottanta in Francia, conoscono un successo forse inizialmente di nicchia, ma che lo rendono tra gli autori di lingua russa maggiormente tradotti e discussi in Europa. La sua fortuna è dovuta anche alla sua postura radicale, che avrà uno sviluppo peculiare con il crollo dell'Unione Sovietica.
Eduard Limonov si reca in viaggio in patria nel 1989, e trova un paese nel pieno delle contorsioni della perestrojka. Tra il 1991 e il 1993 viaggia nei teatri di guerra della nuova Europa Orientale: Croazia, Bosnia, Transnistria, Abcasia. Verrà ripreso dalle telecamere a sparar colpi verso le postazioni bosniache. Lo scrittore è di nuovo alla ricerca di avventure in grado di dare alimento a una bruciante vitalità, e il caos della Russia post-sovietica sembra far al suo caso. Si getta a capofitto nel panorama politico aperto dal crollo della superpotenza e dal vuoto da essa lasciato, tra formazioni di nazionalisti, nostalgici dello zar, organizzazioni ultrastaliniste e della nuova destra, ma sembra non trovare la sua esatta dimensione. Limonov fonda il Partito nazional-bolscevico russo, un altro schiaffo a tutti: agli intellettuali francesi che sino agli avvenimenti jugoslavi lo osannavano, ai suoi ammiratori letterari, al semplice buonsenso. Con lui a capo del movimento vi è Aleksandr Dugin, seguace di Julius Evola, ammiratore di Alain de Benoist e amico di Jean Thiriart, esponenti dell'estrema destra europea da cui comunque Limonov negli anni francesi era stato ben lontano, preferendo a loro gli ambienti a sinistra del Ps e del Pcf. Ma non vi è solo Dugin con le sue suggestioni neofasciste e ambizioni da ayatollah ideologico nel Partito nazional-bolscevico: la vitalità della formazione è assicurata dai taglienti editoriali di Limonov pubblicati sul giornale di partito «Limonka» (gioco di parole tra granata — limonka in russo — e lo pseudonimo del leader), dai giovani che accorrono in cerca di esperienze tra la controcultura, il punk e il ribellismo tout-court propri dello spirito dello scrittore. Il radicalismo di Limonov affascina non solo i giovani, ma anche i principali esponenti della scena musicale alternativa russa: Egor Letov, anima e voce dei Graždanskaja Oborona, e Sergej Kurechin, musicista guru della scena di Leningrado/Pietroburgo sono al fianco di Limonov. Essere nazbol diventa molto più di una scelta puramente politica, si tratta di uno stile, di un urlo confuso che vuol affermare la propria presenza nella società russa disgregata dalle riforme all'insegna dello shock neoliberale e dalla delusione per la promessa mai mantenuta di una vita prospera e serena. L'estetica della distruzione, la volontà di potenza innalzata ad unica missione, di Limonov sembrano essere la risposta per i giovani accorsi nel suo partito, inebriati anche dai suoi libri. Le parole del leader, negli anni Novanta ultracinquantenne, sembrano parlare alle generazioni cresciute negli anni post-sovietici, e la loro durezza non li spaventa, e anzi ne rispecchia lo stato d'animo. Limonov nel 2002, già in galera, nel «Libro dell'acqua» descrive il suo concetto di spazio urbano in questo modo: «Nel complesso il mio atteggiamento verso le città è il seguente: deve essere stata splendida, immagino, la città di Phnom Penh deserta e bruciata. Di persona ne ho viste parecchie di città bombardate e crivellate: c'è in loro una qualche grandezza, un'estrema saggezza. Erano belle le città malate, la New York degli anni Settanta, la Parigi dei primi anni Ottanta. La cosa più disgustosa è una città in piena salute, che trabocca grasso e merda. È questo l'effetto che mi ha fatto New York nel 1990.» (Eduard Limonov, «Libro dell'acqua», 2002 — apparso in italiano nel 2004).
I nazbol non disdegnano la politica di strada e le azioni dimostrative, spesso eclatanti — non solo in Russia, ma anche in Lettonia e in Ucraina, dove vengono visti come meri esponenti del nazionalismo sciovinista russo. Lo slogan «i nostri MiG atterreranno a Riga» e la rivendicazione della Crimea e delle regioni sud-orientali dell'Ucraina come parte dello stato russo, d'altronde, erano parte del programma d'azione dei nazbol, parole d'ordine poi diventate in alcuni casi realtà della politica di Mosca tra il 2014 e il 2016. Ma l'inizio del primo mandato presidenziale di Vladimir Putin coincide con la stretta repressiva verso i militanti del partito di Limonov: lo scrittore verrà condannato a 4 anni di prigione per aver pianificato l'organizzazione di una rivolta nelle regioni nord-orientali del Kazakistan, a maggioranza russa — in realtà nell'ambito della riorganizzazione dello scenario politico russo i nazbol erano visti dal Cremlino come una potenziale minaccia ai propri piani. Limonov dal 2001 al 2003 è in galera, inizialmente nel carcere di Lefortovo per poi essere trasferito in una colonia penale nei pressi di Saratov. Liberato per buona condotta, da subito si getta di nuovo nella mischia, il partito cambia nome in Drugaja Rossija (L'Altra Russia) e partecipa alle iniziative dell'opposizione liberale a Putin, anche promuovendo proprie azioni come Strategija-31, incontri il 31 di ogni mese nella piazza Triumfal'naja a Mosca per difendere il diritto a manifestare, previsto dall'articolo 31 della costituzione.
Quando nell'inverno 2011–12 esplode la contestazione contro i brogli durante le elezioni alla Duma, inizialmente Limonov è in piazza, per poi progressivamente allontanarsi dal carattere a suo avviso troppo moderato e liberale delle manifestazioni. Con gli avvenimenti della crisi ucraina e l'annessione della Crimea, lo scrittore, sempre mantenendo una propria autonomia, comincia ad aver maggior spazio sui media governativi, anche per via delle proprie note posizioni espansionistiche e nazionaliste. Diventa editorialista per il sito di Russia Today, e sue colonne vengono pubblicate dalle «Izvestija». Ma nell'autunno della sua vita, la figura dello scrittore non perde il suo spirito estremista e radicale, la sua irriverenza spesso sottolineata nelle apparizioni dalla sua tipica risatina sardonica. Reagisce alla provocatoria intervista del videoblogger Jurij Dud' del 2018, dicendo che morirà da grande ed indomito scrittore russo.
E Limonov era indomito e unico, nel suo essere contraddittorio e spietato. C'è chi lo ha paragonato a D'Annunzio per il suo spirito avventuroso e ducesco, chi a Marinetti e al suo amore per la guerra come igiene del mondo e chi alla Beat generation americana per stile di scrittura e di vita. Vi è stato nel fenomeno Limonov anche molto dello spirito punk primigenio, più simile a Johnny Rotten che a un Ginsberg o a un Bukowski. Vi è un brano di «Il libro dell'acqua», dove Limonov descrive i ricordi legati allo stagno di Tjur'enka, alla periferia di Char'kov, che aprono uno squarcio nella rappresentazione che ha sempre fornito di sé e che forse potrebbero fornirne un'interpretazione un po' più sfaccettata: «se avessi adesso la possibilità di camminare lungo quell'infelice laghetto, mi sembrerebbe un basso, ordinario, squallido, sconcio specchio d'acqua russo di piccole dimensioni. Ma quando non sei ancora cresciuto e stai accanto a tuo padre, e gli arrivi al petto, tutto quell'anfiteatro, lo stagno pullulante di gente che prende il sole ti sembrano la culla dell'universo.» Ed è forse inconsciamente alla ricerca di quella culla dell'universo che si è mossa la vita di Eduard Limonov, scrittore russo.
Ora che è morto siamo perlomeno sicuri che sia esistito davvero.
Ora che è morto siamo perlomeno sicuri che sia esistito davvero. Mai come per la vita di Eduard Limonov, iniziata in Ucraina 77 anni fa e terminata ieri, la definizione di «sopra le righe» non risulta esagerata. Se la sua storia è conosciuta anche al di fuori dell'Unione Sovietica non lo dobbiamo più di tanto alla sua carriera da scrittore e ai libri scritti da lui, quanto al libro scritto su di lui da Emmanuel Carrère, romanziere specialista in raccontare vite degli altri e talvolta nel riabilitarle.
Vi ricordate le classifiche dei libri più belli del decennio appena finito? Il libro di Carrère, che si intitola — con impeccabile essenzialità — semplicemente «Limonov», c'era, in tutte quante, nonostante fosse sostanzialmente una biografia. Va da sé che la vita di Limonov, magari non invidiabile e di sicuro non esemplare, sia stata tutto tranne che banale.
Eduard Limonov è stato innanzitutto uno scrittore, benché — la citazione è di Carrère — «sapeva raccontare soltanto la sua vita, ma la sua vita era appassionante e lui la raccontava bene». Nella sua vita farà il sarto, il barbone, il guerrigliero in Jugoslavia, il gigolò di maschi e femmine. Sarà sostanzialmente cacciato dall'Unione Sovietica, diventerà star a New York e a Parigi. Il suo idolo è Johnny Rotten, il leader dei Sex Pistols. Tra i suoi amici, Lou Reed. Il libro con cui raggiunge il successo viene diffuso nel mondo con il titolo «Il poeta russo preferisce i grandi negri». Dal punto di vista sessuale — si sarà capito — non si pone orizzonti.
La seconda parte della vita, invece, la dedica alla politica, ovviamente alla sua maniera. Combatte nei balcani a fianco dei nazionalisti serbi. E con la caduta del comunismo torna in patria, «annoiato» dalla perestrojka, per restaurare quei valori che da giovane ripudiava. È forse il capostipite dei rosso-bruni. Fonda un partito insieme ad Aleksandr Dugin — intellettuale putiniano poi dichiarato supporter anche di Salvini — e lo chiama «partito nazional-bolscevico». Nome contraddittorio, all'apparenza, esattamente come lui.
Tutta la vita di Limonov non entra in un articolo solo. E del resto, tanto vale leggere il libro per chi è interessato a quest'uomo che sembra uscito dal testo dell'«Avvelenata» di Guccini: tutto, niente, stronzo ed ubriacone, poeta e buffone, anarchico e fascista. Può invece essere utile il giudizio che ne dà Carrère, che si è sempre detto disgustato da Limonov e ne detesta le idee. Perché allora ha voluto conoscerlo, passare delle settimane con lui e poi raccontare la sua vita?
La risposta sta in tutti i libri dello scrittore francese. Carrère è affascinato dalle storie degli altri e non a caso uno dei suoi libri più noti si chiama proprio «Vite che non sono la mia». A un certo punto della sua carriera ha deciso che nei suoi romanzi non voleva più affidarsi alla fantasia. Da allora preferisce raccontare la vita di qualcun altro cercando poi i punti di contatto con la sua.
Il suo capolavoro, uscito dieci anni prima di «Limonov», si intitola L'«Avversario» ed è la storia di un padre di famiglia modello, medico prestigioso e ricercatore dell'OMS, che un giorno uccide tutta la sua famiglia e tenta il suicidio, ma si salva. Durante le indagini successive alla strage, si scopre che non era un ricercatore né un medico. Nemmeno era laureato in medicina. Ma era riuscito a far credere a coloro che gli erano attorno al castello di bugie che aveva costruito. E quando stava per essere scoperto, invece di svelare la verità, li ha uccisi tutti. Trovare il punto di contatto tra la vita di quest'uomo e le nostre è l'ambizione di Carrère. Lo ha spiegato lui stesso in una recente intervista: «Dov'è l'universalità? Nel fatto che tutti, a livelli diversi siamo un bluff. Il protagonista de L'«Avversario» all'estremo, ma tutti, me compreso, abbiamo uno scarto tra immagine e realtà».
Svelare il nostro bluff. Questa è il principio che governa i libri di Carrère. Di conseguenza il lettore può approcciarsi ai suoi libri in due modi. Può leggere la storia di questi personaggi così lontani, come Romand (il medico omicida) o Limonov, e mantenerli a distanza di sicurezza dai propri impulsi. Oppure scavare più a fondo, compiere uno scatto in avanti e scoprire che se solo un evento della nostra vita fosse andato diversamente, se solo avessimo scelto un bivio anziché un altro, saremmo potuti essere, magari solo in parte, come i protagonisti di questi libri.
La letteratura era già l'indagine di noi stessi. Con Carrère diventa qualcos'altro: l'indagine di ciò che non siamo stati, ma di quanto ci siamo andati vicino.
«Io ho diverse vite: quella letteraria, quella politica, addirittura quella mistica, e, naturalmente, quella privata. Il destino però non ha voluto che mi sistemassi: le varie famiglie che ho cercato di metter su si sono sempre sgretolate. E ora vivo in questo modo: vado a prendere le ragazze alla stazione Lelingradskaja o, altrimenti, trascorro lunghi mesi da solo in compagnia del mio topo» (Zona industriale)
Apprendo ora della sua morte. Il fiato incespica di fronte al ricordo di una giornata dicembrina, pochi mesi orsono. L'eccitazione di fronte alla notizia del suo ritorno in Italia, la gioia al suo ingresso sul «palcoscenico» della conferenza stampa (lui che era un attore shakespeariano nato), l'onore nel poter intrattenere una conversazione, seppur breve, con lui, il disappunto nel riconoscere la sua dura freddezza slava, la serenità, di poco successiva, nell'esperienza del pathos della distanza — quello che Nietzsche insegna, pochi comprendono, ancor meno praticano. Emmanuel Carrère ha tentato di coglierlo, con esiti letterari straordinari, arrivando a creare un esteso fenomeno culturale: al proletario anarchico ed elitista che ha fondato Limonka — giornale dal titolo dadaista, «granata Limonov» — non risultò mai gradito.
Ma il mio plurale sentire altro non era che un déjà vu, lucido nella sua vorticosità, del nostro precedente incontro, nella primavera del 2018: l'inseguimento del generoso editore Sandro Teti, per intervistare il titano del nazionalbolscevismo, le difficoltà logistiche dell'impresa, la dedica del suo splendido «Zona industriale», il dono, da parte mia, di un volumetto collettaneo, Studi evoliani 2013, che conteneva una mia recensione del libro di Carrère, lo stupore nel saperlo in volo, con lui, per Mosca, infine l'atmosfera da queste, quasi che Limonov recasse in sé un Graal misterioso, quasi che dietro la sua prosa incalzante, sporca, bukowskiana, si dovesse celare lo sguardo escatologico della Madonna di Kazan' — icona par excellence della Madre di Dio (Theotókos), cuore del Logos russo.
Dietro il suo cipiglio, invece, nella sua voce carismatica, si nascondeva lo stigma della semplicità. Poca trascendenza — sebbene «Il trionfo della metafisica», un suo capolavoro, parli apertamente dell'esperienza del sacro («vuoto più pieno di tutto ciò che è pieno al mondo, da un'assenza più presente di tutto ciò che riempie il mondo della propria presenza») —, nessun iperuranio, piuttosto una spaesante assenza di riduzionismi, dualismi, parcellizzazioni di sorta. Solo il reale, nella sua nuda, organica, provocante pienezza. Nella durezza del suo imporsi sulla fragilità dell'esistenza del singolo. La scrittura di Limonov, la sua poetica, rivendicava proprio questo potere: scorgere la bellezza nell'istante, vivere intensamente. Lui era un novello D'Annunzio russo: testa calda, occhi di ghiaccio, bizzosamente antipatico, talora empatico, narcisistico come lo è il mondo. I suoi schemi di geopolitica, animati da un'intransigente fusione di ideale e machiavellico pragmatismo, erano cartografie plastiche del suo animo, della sua irrequieta narrazione interiore. Uno stile del tutto diverso dal suo altrettanto geniale sodale giovanile, Aleksandr Dugin. Lo stesso vale per i suoi progetti politici: visioni comunitarie fatte di pura estetica, in cui le «armate rivoluzionarie dei falliti» avrebbero mostrato la bancarotta di tutto quanto odora di capitalismo, liberalismo e razionalismo. Non è caso che sia stato definito «un cinico sognatore».
Sulla sua opera letteraria, sulla sua biografia e sul suo impegno politico molto è stato scritto. E molto dovrà esserlo, con il rigore e la profondità che sgorgheranno dal tempo e dalla maturità generazionale dei suoi studiosi futuri. Io stesso tentai, insieme all'amico Nicola Berti, la composizione di un denso «dossier» Limonov, per «L'Intellettuale Dissidente». Sciamano del culturalmente scorretto, lo definimmo nel titolo. Non so se il risultato fosse soddisfacente. Lo sembrava, finché l'eccedenza della vita dell'autore, la sua freschezza intellettuale e umana, ne alimentava l'altrimenti piana esposizione. Ora che ci ha lasciato — a 77 anni, età palindroma, quasi un vezzo estetico —, in questo preciso momento parlano ben più francamente gli scatti fotografici di cui è stato protagonista. La loro semplice presenza, per chi l'ha conosciuto, per chi ne ha forse ingenuamente fatto un mito, evoca un prisma incendiario.
«Mi piace la follìa» scriveva nel Diario di un fallito, aggiungendo: «Tutta la mia vita ne è l'esempio. Coltivo non la logica, bensì il godimento. I miei dolori mi procurano il piacere». Seguiva, poche pagine dopo, un monito oscuro: «Fate scorrere il mio sangue, uccidetemi, torturatemi a morte, tagliatemi a pezzi! Non può esistere Limonov vecchio! Fàtelo nei prossimi anni. Preferisco che sia fatto di aprile o di maggio!». Un mese in anticipo, caro Eddy.
In realtà, mentre scrivo queste righe non so nulla delle ragioni mediche del decesso. Né m'interessa. L'Eurasia di Limonov — ovunque essa si trovi — oggi è in lutto. È scomparso il cantore dell'«istinto al superamento della solitudine cosmica», quell'evento, fondamentale nella vita del singolo, in cui «unendosi con un altro essere, è come se lui (o lei) ricaricasse le batterie» della propria esistenza. Eppure vive ancora, con forza rinnovata, nelle sue opere — estroflessione narrativa di una vita dinamitarda.
Bisessuale, libertino, eroe dell'underground e della protesta in generale: un ricordo dello scrittore e dissidente scomparso ieri.
Una vita da romanzo, uno scrittore esagerato e scandaloso, un politico combattente di cause perse. Eduard Limonov è stato uno dei più eccentrici intellettuali russo-sovietici vissuti a cavallo dei due secoli. A un certo punto qualcuno ha pure pensato che egli fosse un personaggio letterario inventato e non un uomo in carne e ossa.
Dopo esserci sfiorati varie volte in locali frequentati dall'intellighentsja moscovita, lo andammo a incontrare, senza farci annunciare, in un afoso 31 luglio sotto al monumento dedicato ai rivoluzionari del 1905.
Qui con voce rauca, circondato da energumeni, il carismatico poeta-militante catechizzava una cinquantina di suoi incalliti sostenitori, commentando gli eventi del mese. Dietro a lui una giovane ragazza in divisa viola teneva fiera in pugno un bandierone rosso al cui centro su fondo bianco era disegnata una bomba a mano.
Le sue tesi erano simili a quelle di un ingegnoso patriota russo, di un accanito ultraconservatore bianco, di un fervido difensore di quel mondo euro-asiatico (con a capo la Russia) che la globalizzazione sta cambiando.
Ce l'aveva con Vladimir Putin, definito «un presidente troppo debole», con la politica di amicizia del Cremlino verso la Turchia invece di appoggiare i curdi, con il mondo euro-americano e con l'Islam radicale, con l'approccio troppo morbido di Mosca verso l'Ucraina, dove allora all'est erano in migliaia a morire e quasi 2 milioni erano gli sfollati.
Gli facemmo un cenno, mentre un suo vice parlava. Forse la nostra frequentazione con persone a lui note lo indusse ad avvicinarsi.
Alto non più di un metro e 65, dallo sguardo profondo e penetrante, barba e baffi alla Trotsky, Eduard Savenko — questo il suo vero nome — iniziò quasi a balbettare, quando scoprì di trovarsi davanti a uno straniero.
Ammorbidì di molto le sue dichiarazioni in precedenza fatte dal palco. La sua visione era comunque quella di far rioccupare alla Russia contemporanea l'area un tempo occupata dall'impero zarista: dal Kazakhstan all'Ucraina fino a Kiev.
Limonov non nascondeva che aveva inviato nelle repubbliche popolari filo-russe del Donbass suoi uomini, tanti dei quali non erano più tornati. Nei mesi successivi, il suo amico e collega (l'allievo prediletto), Zakhar Prilepin, proseguì questa linea interventista con incarichi al fronte.
Quindi azione, non solo parole. Colpiscono le immagini, forse rubate, in cui si osserva Eduard Limonov sparare con un fucile mitragliatore al fianco delle milizie serbe di Bosnia su Sarajevo nel 1992.
Nel 2010 la rivista «Foreign Policy» definì il suo messaggio politico un «mix infiammabile di socialismo della vecchia scuola, nazionalismo russo e teatro di strada anarchico».
Non solo. Nel 1993 Limonov fondò il partito nazional-bolscevico, che riuniva stalinisti e fascisti, formazione poi sciolta per essere «estremista» dal ministero della Giustizia federale. Insomma, gli opposti.
Ma è tutta la sua vita, raccontata in un mirabile saggio da Emmanuel Carrère, piena di avventure, eventi estremi, acrobazie, spesso difficilmente comprensibili.
A 15 anni Eduard iniziò a comporre poesie. Il suo primo romanzo «Sono io, Edichka» è pubblicato nel 1976 negli Stati Uniti, dove era emigrato su pressione del Kgb. Qui lo scrittore aderisce al Partito socialista prima di trasferirsi nel 1980 in Francia, dove diviene una specie di «idolo» di una parte della sinistra locale anche per la sua difesa ad oltranza di Stalin.
Bisessuale, libertino, eroe dell'underground e della protesta in generale è stato amato per il suo fascino da donne belle e famose. Fece scandalo il suo «Il poeta russo preferisce i grandi negri». Emmanuel Carrère, che lo aveva conosciuto negli anni parigini, lo definì “un marinaio in libera uscita ed una rockstar”.
Oltre a hooligans, panslavisti, anti-establishment, tanti negli anni sono stati i personaggi che si sono fatti vedere con lui: il criminale di guerra Radovan Karadzic, il paramilitare serbo Arkan, il leader dell'estrema destra francese Jean-Marie Le Pen. Nell'ultimo periodo di vita Limonov si è avvicinato anche ad Aleksandr Dughin, oggi uno degli ideologi di Putin.
Sintetizzare l'inconciliabile, ecco la sua missione!
È morto il 17 marzo in Russia Eduard Limonov, scrittore, attivista e leader politico. Dissidente in epoca sovietica, aveva fondato il partito Nazional-bolscevico.
Discusso, provocatorio, controverso. Si è spento all'età di 77 anni Eduard Limonov, il dissidente russo, scrittore e politico diventato noto al pubblico occidentale soprattutto grazie al romanzo omonimo dello scrittore francese Emmanuel Carrère, pubblicato nel 2011 (edito in Italia da Adelphi nel 2012).
Il decesso è avvenuto a causa di complicazioni in seguito a un intervento chirurgico in Russia, dove era tornato dopo molti anni di esilio all'indomani della caduta dell'URSS.
Di recente, lo scrittore era stato in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, «Il boia». Durante il tour di incontri a cui ha partecipato non sono mancate le polemiche, scaturite da alcune sue forti dichiarazioni. In una intervista per «Huffington Post» ha affermato: «Greta Thunberg? È solo una scimmietta ammaestrata. Un fenomeno della stampa scandalistica. Ogni tanto capita che l'umanità partorisca delle solenni stupidaggini. E lei è una di queste».
In una intervista per Repubblica dell'anno scorso ha dichiarato, riguardo al politico sovietico Gorbaciov: «Per lui ci vorrebbe la ghigliottina. Voi occidentali continuate a considerarlo un eroe. Ma qui in Russia non lo sopporta nessuno. Vi siete mai chiesti il perché? Perché ha smantellato il Patto di Varsavia, ci ha fatto perdere tutto quello che controllavamo. Ha fatto riunire la Germania devastando ogni equilibrio in Europa».
Limonov ha infranto regole, costumi e buonsenso.
«Ubriacarmi, recitare poesia, discutere d'arte, chiacchierare e flirtare con le ragazze» spiegava e riassumeva così la sua vita. Punk, fascista, comunista, nazional-bolscevico, sempre all'opposizione e mai al potere, Limonov è stato tutto e il contrario di tutto.
Nato Eduard Veniaminovič Savenko a Dzerzhinsk, nell'Ucraina in guerra contro l'Asse nel 1943, col suo Partito nazional bolscevico fondato dopo la dissoluzione dell'impero nel 1993, è stata una delle figure centrali del fronte di opposizione a Vladimir Putin chiamato L'Altra Russia — attivo tra il 2006 e il 2010. Esso comprendeva varie sigle politiche che andavano dall'estrema sinistra all'estrema destra. A causa delle azioni di protesta e della lotta continua contro il regime di Vladimir Putin, il partito è stato messo al bando nel 2007. Nel 2001 è stato arrestato con l'accusa di terrorismo, cospirazione contro l'ordine costituzionale e traffico di armi; condannato a quattro anni di carcere, è stato rilasciato due anni prima per buona condotta.
L'ironia della sorte: l'aver scritto oltre settanta libri ed esser diventato famoso come personaggio di un romanzo altrui. Così, nel risvolto di copertina dell'edizione del romanzo di Carrère viene presentato Eduard Limonov:
«Limonov non è un personaggio inventato. Esiste davvero: «è stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio» si legge nelle prime pagine di questo libro. E se Carrère ha deciso di scriverlo è perché ha pensato «che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale»».
Ha avuto una vita a dir poco sregolata. Alla fine degli anni '60 è stato un giovane poeta punk a fianco di personaggi famosi della letteratura come Joseph Brodsky Yevgeny Yevtushenko e di Solzhenitsyn, l'autore di «Arcipelago gulag»; a metà degli anni '70 si è trovato a New York da emigrato senza lavoro, perde tutto e finisce a vivere da senzatetto; negli anni '90 ha partecipato alla guerra civile yugoslava al fianco dei serbi, supportando anche il colpo di stato del Kgb dell'estate 1991; si è fatto arrestare diverse volte in Russia, sempre per lo stesso motivo: esprimere il suo diritto di manifestare in piazza.
«Sono cose che succedono» direbbe oggi a proposito della sua morte. Infatti, in uno dei suoi libri, scrisse che gli uomini muoiono ininterrottamente. Come riporta «Rolling Stone», Limonov somigliava vagamente a Leon Trockij, del quale apprezzava il pensiero. Portava un anello alla mano sinistra con il volto di Mussolini, per il quale nutriva un ambiguo rispetto. Diceva che tutto sommato non aveva più alcun senso parlare di rivoluzione, soprattutto in Russia al giorno d'oggi.
Nel tempo è diventato una figura di spicco della cultura underground russa. Le sue autobiografie hanno avuto successo prima in Francia e poi nel suo paese natale, non ottenendo, però, lo stesso successo del fortunato romanzo con cui lui stesso è stato consacrato, dello scrittore francese Carrère. Con lui, artefice di molto del suo successo, ha detto in passato di avere un rapporto cordiale, pur specificando che lo considera pur sempre «un nemico della lotta di classe».
Tra le sue opere uscite in Italia: Il libro dell'acqua (2004); Diario di un fallito (2004); Il trionfo della metafisica. Memorie di uno scrittore in prigione (2013), il testo autobiografico Zona industriale (2018) e il romanzo Il boia (2019).
Non sapremo mai se Eduard Limonov sia morto o meno di coronavirus. Il politico e scrittore teneva un diario on line, su un vecchissimo social, «LiveJournal», dove fino all'ultimo ha preferito parlare di progetti futuri, come della futura pubblicazione del «Viaggio del Vecchio», annunciato il 14 marzo. All'ultimo però ha chiesto soccorso agli amici, quelli che gli avevano trovato le diverse cliniche di ricovero. A metà marzo non c'era ancora alcuna quarantena in Russia ed il regime minimizzava ogni possibile epidemia. Malato da tempo di cancro alla gola, era già stato ospedalizzato per poi tornare nel suo appartamento nella zona di Syry, l'ex zona industriale nel centro di Mosca, sorta alle spalle della stazione Kurskaja, affacciata sul Sadovoe Kalsò (uno dei più antichi raccordi anulari della città). Tornato nel 2003 dalla galera di Engels, nella Russia meridionale, nei pressi di Saratov, aveva sempre vissuto in ex comunalki, appartamenti un tempo collettivi, condivisi con giovani compagne fidanzate che potevano essergli nipoti, in genere membri del suo partito.
Le girls del suo partito, Nazional-Bolscevico, formazione nazista e stalinista creata nel '94, l'avevano reso famosa, grazie a «Ragazze del partito» («Девушки Партии»), opera del 2005 del suo amico avvocato Sergei Belyak, un fotolibro molto timorato per gli standard russi dove le partigiane, molto coperte, fulminavano dagli occhi il lettore; non certo Pussy Riot o Fifi, giovanissima fidanzata dello scrittore, esibitagli accanto nel 2012, nuda di spalle, sulla retrocopertina di Rolling Stone Russia, in occasione del 100° numero. Il fotolibro fece scandalo ugualmente a danno dei nazibol, illegali in Russia dal 2003 per l'accusa di minacciato colpo di stato. L'avvocato cercò inutilmente di permettere ad Eduard di sfidare Putin nella corsa per la presidenza ma non ci fu mai nulla da fare. Beliak, questo metà Taormina, metà Casaleggio russo, scrisse anche «Avvocato del diavolo», in riferimento sia a Limonov che all'altro suo cliente, politico famoso, Girinoskji, leader liberaldemocratico, una sorta di Bossi prima maniera, divenuto celebre per lo slogan Un uomo per ogni donna.
Negli ultimi giorni se non mesi, Limonov era stato scippato a Beliak da Sergei Shargunov, giovane scrittore, già deputato e conduttore Tv. Shargunov ha raccontato la fine di Limonov che spiccava nell'immaginario russo per il volto simile a Trotskji, la voce acuta alla Lenin ed il soprannome alla Molotov (Lemonka, bomba a mano) come uno sceneggiato. Ha tralasciato le vicende e cause di morte, l'emorragia improvvisa del 15 marzo, le due operazioni chirurgiche, l'affanno respiratorio, le finali complicazioni per grossa infiammazione. Ha invece subito fatto dell'infausto evento uno suo show. La morte del politico e romanziere di Gerzhinsk e Karkhov è divenuta un gran gossip intellettuale sulle onde delle chiacchiere al telefono dal letto d'ospedale tra grand malade e conduttore. Shargunov ha dato la notizia del trapasso del martedì 17 marzo alla stampa e poi redatto una dettagliata cronaca dei funerali attorno al tumulo che riportava il nome vero del deceduto, Eduard Veniaminovich Savenko, al cimitero moscovita di Troekurov. Infine ne ha fatto l'elogio televisivo, durante il suo programma di Mezzanotte «Libro aperto» sul canale Kultura TV, con toni da Marco Aurelio sulle spoglie di Cesare. Il programma titolava «Soldat giv», come dire, all'italiana, Vive e lotta assieme a noi, riallacciandosi all' ultima intervista live concessa da Limonov sempre all'adorante Sergei che con piena piaggeria gli chiedeva del progetto editoriale «I miei pittori».
E' piaciuta al grande pubblico russo la tanta retorica espressa a piene mani, da la mente lucida e abbagliante del 77enne dall'ospedale all'inchino alla bara, Grazie Edward, all'enfasi sulle Molte più persone di quanto ci si sarebbe attesi accorse all'ultimo saluto, al finale cordoglio drammatico, Non c'è mai stato e mai ci sarà uno come lui, uno dei più brillanti scrittori, poeti e politici russi. Sarebbe piaciuta anche a Limonov che in fondo ha sempre cercato di apparire in un cerchio di fuoco in mezzo ai fuochi d'artificio, sia da ladruncolo che da dissidente ed antidissidente, teddyboy alla Warhol, pornonazipunk, sciamano, filo terrorista, criminale di guerra, combattente nel golpe moscovita, in Croazia e Bosnia, Altai e Ucraina. Shargunov, collega di Limonov nella rivista «Yunost», confuso politicamente come lui (già liberale di Yabloko e difensore delle Pussy Riot poi nazionalista antiKiev — i russi sono ostaggi in Ucraina) ha seguito il sui eroe nella grande propensione che malignamente gli viene riconosciuta, più che per il giornalismo o la letteratura, per le pubbliche relazioni 24 ore su 24. L'omaggio televisivo ha messo fuorigioco l'ufficio stampa del partito che pretendeva funerali strettamente privati.
Il 20 marzo in un contesto squallido di parcheggio d'asfalto periferico l'assembramento di 300 vecchi e giovani, fan e giornalisti, assiepati tra bandiere con falci e martello e bracciali alla nazista, faceva sparire i membri di famiglia, presenti (l'ex moglie, Yekaterina Volkova chiamata dallo scrittore l'Attrice ed il figlio 14enne Bogdan) o meno (l'ex moglie Elena Shchapova divenuta contessa De Carli, la poetessa Natalya Medvedeva scomparsa nel 2003). Malgrado le tante bandiere con falce e martello, faceva sparire anche la politica. Ai funerali non c'erano gli ex amici, Dugin cofondatore dei nazibol, da tempo avviato alla grandezza eurasiana, non c'erano i liberali alla Kasparov della fallita alleanza Altra Russia. Meglio così, da tempo nell'opinione pubblica e nelle canzoni era comune ridere dei pizdabol (riferimento osceno al sesso femminile).
Sparita la politica, il monumento a Limonov è divenuto letterario. Quanti però hanno letto in Russia e all'estero
«Io, Edichka» o «Il poeta russo preferisce i grandi negri» '79;
«Il diario del perdente» '82;
«La storia del suo servo» '82;
«Il boia» '82;
«Teenage Savenko» o «Eddy-Baby ti amo» '83;
«La morte degli eroi moderni» '85,
«Giovane mascalzone» '86;
«Abbiamo avuto una grande epoca» '90;
«Libro dell'acqua» '04,
«Il trionfo della metafisica: memorie di uno scrittore in prigione» '05;
«Zona industriale», '07;
«La morte degli eroi contemporanei» '08;
«Le eresie: il saggio della filosofia naturale» '08;
«Sotto il cielo di Parigi» '17?
Limonov ha pubblicato 62 libri ma ne appaiono in genere 6 o 7 di cui parecchi già visibili gratuitamente online. Anche la letteratura allora forse langue.
Il problema è che il suo libro migliore resta in assoluto scitto da altri, la biografia del figlio della più grande sovietologa francese, il «Limonov» di Carrère. La fama dell'uomo che insultò Broskji, Solženicyn (e ne fu ricambiato), Sacharov, Gorbacev, Ciubais, Sobciak, Navalny e Putin, grandi russi e russo bianchi, di destra e di sinistra (termini che in Russia non corrispondono al significato che gli si dà all'Ovest) poggia sul mito costruitone in Europa, incluso quello di nuovo Rasputin; e che di rimbalzo si è sposata con la nostalgia slava della potenza sovietica. Non perché piacesse ma solo perché dispiaceva all'Occidente.
A quasi dieci anni dalla prima pubblicazione di «Limonov» in Francia, con la scomparsa del protagonista Eduard Limonov a marzo di questo 2020 e con l'uscita del nuovo libro «Yoga» di Emmanuel Carrère (in Francia nell' agosto 2020, in Italia in primavera 2021 per Adelphi), è tempo di ricordare uno dei migliori romanzi dello scrittore d'oltralpe e la figura del dissidente russo racchiuso nelle sue pagine. Ėduard Veniaminovič Savenko era stato contattato da Carrère, incaricato di fare un reportage su di lui, ma dopo un lavoro di poche settimane lo scrittore si era innamorato del russo burbero e aveva capito che avrebbe potuto scriverne un intero libro, se Limonov avesse accettato. Con scetticismo gli aveva risposto di sì e lui ha iniziato.
Il lavoro compiuto non è una biografia ma un romanzo biografico e la differenza è netta. Non possiamo sapere nei minimi particolari quanto di quello che appare nelle pagine si sia veramente verificato e quanto sia stata invece una pregevole modifica della magica penna di Carrère. Inoltre, come spiega l'autore in qualche passaggio, non possiamo neanche immaginare quanto di tutto ciò che gli ha riferito Eduard sia poi accaduto e quanto di vero ci sia nelle decine di autobiografie che il poeta russo ha scritto di sé. Di certo la sua storia non è ordinaria e, anche se qualche parte è stata scritta calcando un po' la mano, è comprensibile come la figura di Limonov risulti essere così affascinante e si capisce perché una vasta schiera di giovani punk russi lo abbiano innalzato a eroe della patria nei primi anni duemila.
Limonov potrebbe sembrare un personaggio inventato ma non lo è, esiste davvero.
«È stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare anche una carogna: io sospendo il giudizio»
si legge nelle prime pagine del libro.
L'autore si era reso conto di avere davanti un personaggio assoluto, magnifico dal punto di vista letterario, un avventuriero, un uomo libero. Aveva capito che tutti avrebbero dovuto conoscere la sua storia, ma la storia di Limonov racconta anche la Russia e il suo popolo, racconta New York e Parigi. Racconta la storia dell'uomo schiacciato dalla fredda Unione Sovietica, ma anche la storia di ogni uomo che cerca di districarsi dalla monotonia a favore di una libertà difficile da conquistare. È impossibile fare una sinossi esaustiva del libro. Ogni pagina è un tassello fondamentale per comporre il mosaico della vita di Eduard. Si può però provare ripercorrere brevemente la sua storia, se non altro per far capire in poche righe il perché di quanto scritto finora.
Eduard nasce in Russia ma cresce nella periferia di Charkiv, nell'Ucraina sovietica. Ha un'infanzia legata alla piccola criminalità, guarda dal basso i suoi amici criminali con rispetto e ammirazione, ma capisce ben presto che sono relegati anche loro a una vita sciatta. Probabilmente destinati a vita al carcere o alla fabbrica, chiedendosi cosa sia peggio. Ciò che caratterizza Limonov è la sua ossessione di diventare qualcuno, vuole distinguersi, vuole diventare un punto di riferimento ma non si sa bene per chi o cosa.
Proprio per questo motivo la sua vita diventa un'avventura, vuole arrivare in alto e le prova tutte. Piccolo poeta a Mosca, giovane russo in cerca di futuro a New York e intellettuale a Parigi. È in continuo movimento soprattutto perché tocca più volte il fondo. Dopo essere stato tradito (e aver tradito) la sua compagna a Mosca, si trasferisce con la sua amata Tanja a New York. Ma dopo i primi mesi idilliaci, Tanja lo lascia e lui cade in un oblio profondo. Vive per mesi da senzatetto per poi diventare il domestico di un giovane miliardario. Fino a quando capisce che il suo soggetto preferito è lui stesso, egocentrico come è non può che scrivere e raccontare la sua storia. Così diventa un intellettuale (termine che lui odia) a Parigi, un guerrigliero a fianco dei serbi nella guerra Jugoslava, un politico e oppositore di Putin e infine un prigioniero politico, non senza orgoglio.
Scrive libri su di lui, racconta la sua storia e comincia a farsi conoscere. Una vita del genere non può rimanere nascosta e non vede l'ora di poter esprimere a tutti le sue idee politiche, quanto meno opinabili, e diventare finalmente un «personaggio». Lo aiuterà Carrère: «Limonov» diverrà il suo romanzo più famoso.
Il romanziere e giornalista francese assembla i pezzi per costruire un uomo che sembrerebbe l'antieroe per eccellenza di un libro d'avventura, ma Eduard Limonov è esistito in tutta la sua ambiguità, adrenalina e grandiosità. È una carogna? È un fascista? È un intellettuale? L'autore «sospende il giudizio» ed è meglio così, sta ai lettori assistere a questa storia così affascinante, ricordando che è tutto (o quasi) vero, sospendendo magari a loro volta il proprio giudizio sulla persona, per godersi i risvolti di una narrazione così avvincente.
Alla ricerca del superamento, nella vita come negli scacchi.
Un vecchio adagio recita che ci sono più modi di vivere la vita: giocando a poker, come fanno gli americani, o giocando a scacchi, come fanno i russi. In questo senso, poche personalità possono essere poste agli antipodi come Eduard Limonov e Garry Kasparov. Il primo è, in effetti, un vero e proprio antipodo, un uomo che è egli stesso contraddizione e ossimoro per la sua vita e per le sue idee. Un pokerista dell'esistenza, pur essendo di natali russi. Il secondo è invece ritenuto uno dei più grandi scacchisti di sempre, se non il più grande.
«L'umanità civilizzata si è affrancata dai regimi duri, optando per i regimi molli. Se la violenza dura consiste nel reprimere fisicamente l'individuo, al contrario la violenza morbida si basa sullo sfruttamento delle sue debolezze. La prima tende a trasformare il mondo in una cella di massima sicurezza, mentre la seconda mira a fare dell'uomo un animale domestico».
Limonov ha condotto una vita al limite dell'eccesso, funambolo in bilico sul filo del politicamente corretto, sicuramente un avventuriero. Kasparov è invece un uomo metodico, ma anche lui avventuriero a suo modo. Parliamo di un campione del mondo in grado di sovvertire le catalogazioni e la scolastica di un gioco che in Russia era soprattutto difesa passiva, mentre per lui è attacco sulle ali della fantasia. Un punto di contatto tra i due allora c'è: la ricerca e il superamento del limite, nella vita come negli scacchi.
Il vero nome di Limonov è Eduard Veniaminovic Savenko, nasce a Dzeržinsk nel '43 in pieno conflitto mondiale, ma cresce a Charkiv. Si trasferisce a Mosca nel '67 con Anna, una donna affetta da problemi psichici. Qualche anno prima, nel '63, a Baku nasce invece Garry Kimovic Vajnštejn. Sotto la guida del padre, Garry impara a giocare a scacchi. Mostra da subito di essere particolarmente dotato. A Mosca Eduard frequenta ambienti culturali dove inizia a farsi un nome, lavorando nel frattempo come sarto per mantenersi. Garry invece perde il padre nel 1971, così la madre decide di cambiare cognome russificando il suo armeno Kasparjan in Kasparov, cognome che prende anche il figlio. Eduard diventa Limonov, invece, per via di un soprannome affibbiatogli da alcuni colleghi artisti: «limonka», termine che in gergo viene usato per indicare la bomba a mano. Lo stile esplosivo è lo stesso.
«Gli schermi televisivi, del computer e dei Videotel hanno luminescenze seducenti e gradevoli nelle vetrine della civiltà attuale. Il pubblico è obnubilato dalla bulimia di informazioni, e dalla superpotenza dei motori delle macchine nell'euforia di una follia collettiva. Il ritratto di Big Brother appeso al muro farebbe una ben pallida figura a confronto dei processi sempre più pervasivi della pubblicità.
Sbalordito dalle manipolazioni dei TASSI sotto il rullo dei tamburi della STATISTICA, immerso nel brusio di una musica pop sempre meno buona da quando è diventata un must (la musica che si oppone ormai al pensiero), l'abitante civilizzato delle prospere contrade industrializzate compie la sua corsa accelerata dalla nascita al pensionamento».
Eduard (bomba a mano) Limonov
A soli 10 anni Kasparov viene notato da Michail Botvinnik che lo affida alle cure del maestro Vladimir Makogonov: è l'inizio di una carriera folgorante. Proprio nel tentativo di far detonare la sua di carriera, in ambito artistico, Limonov si trasferisce in quegli anni con la nuova compagna, Tanja, negli Stati Uniti, a New York. Qui svolge una serie di lavori, non riesce a farsi pubblicare negli States e viene lasciato da Tanja. Ha esperienze omosessuali da cui trae ispirazione per il suo «io, Edicka». Rifiutato dagli editori statunitensi, giunge a Parigi dove Jean-Jacques Pauvert decide di pubblicarlo col titolo chiaramente provocatorio «il poeta russo preferisce i grandi negri».
Limonov diventa una celebrità e decide di rimanere a Parigi. Conosce inoltre la sua nuova fiamma, Natalja, ma scopre in lei una natura votata all'eccesso, soprattutto in campo sessuale — un'inclinazione, slegata da vincoli, sofferta parecchio da Limonov. Intanto, a Minsk, anche Kasparov compie il suo battesimo del fuoco: il giovane scacchista vince il Sokolsky Memorial, è il più giovane di sempre a qualificarsi per il campionato sovietico di scacchi e diventa Grande Maestro conquistando il podio più alto nei campionati mondiali juniores. Limonov si tiene impegnato. Conosce Emmanuel Carrère che pubblicherà una sua biografia romanzata, opera dalle alterne fortune visto che lo scrittore Prilepin lo definisce così:
«Nel libro di Carrère manca la distanza fra il personaggio letterario e il vero Limonov. È un romanzo o una biografia? Io credo che sia un romanzo».
Limonov collabora inoltre con «L'idiot International», rivista provocatoria sulle cui pagine esprime tutto il suo dissenso per la galoppante politica della Perestrojka. Proprio agli inizi degli anni '80, mentre Limonov lascia gli USA per recarsi a Parigi, Kasparov dovrebbe giocare le semifinali del torneo dei candidati a Pasadena, California. Ma Kasparov non è iscritto al PCUS, e in quel periodo diventa per lui impossibile raggiungere il suo avversario, Korčnoj.
La partita viene allora spostata a Londra dove si concretizza l'ascesa tra i più grandi del giovane Kasparov, che nell'84 si iscrive al PCUS e si prepara per i mondiali. Davanti a Kasparov si staglia il mito di Karpov, campione del mondo in carica. I due battagliano per 48 partite da cui si conferma campione del mondo Karpov: forse per l'inesperienza, forse per l'emozione, Kasparov non mostra il suo gioco offensivo, fatto di assalti arrembanti. La partita viene sospesa vista la durata eccessiva, il titolo resta così a Karpov. Nell'85 si rigioca e Kasparov ottiene la vittoria. Nasce così il terzo fattore dell' «elemento K», quello che ha portato ai vertici del mondo scacchistico prima Korčnoj, poi Karpov e ora Kasaparov.
Gli anni '90 sono forieri di scandali e polemiche per entrambi. Limonov riesce a compiere un'esperienza, a suo dire, fondamentale nella vita di ogni uomo: partecipa ad una guerra, nel suo caso quella in Jugoslavia dove aderisce alla causa cetnica, intrattenendo rapporti di collaborazione con le famigerate Tigri di Arkan. La situazione politica in Russia è al collasso, e Limonov fonda insieme al filosofo Aleksandr Gel'evič Dugin il partito Nazional Bolscevico.
Un partito che è esso stesso una contraddizione: unisce l'ideologia fascista a quella comunista, producendo un risultato ultranazionalista che porta Limonov a teorizzare la nascita di uno Stato guidato dall'etnia russa che possa riunire tutti i popoli slavi, e più in generale l'intera Eurasia, sotto la guida di Mosca.
Unisce anche simboli contraddittori strizzando l'occhio sia alla simbologia nazista sia a quella comunista. Alle prime elezioni a cui partecipa, il partito naz-bol ottiene risultati scoraggianti. Inoltre Limonov chiude definitivamente la sua storia con Natalja, che morirà di overdose. Avrà in seguito altre liaison. Kasparov combatte invece un'altra lotta, quella con la FIDE. L'aggressività dalla scacchiera è trasportata al campo delle relazioni con la massima organizzazione competitiva di scacchi, rea, secondo Kasparov, di svilire i giocatori mondiali. Kasparov fonda così la PCA (Professional Chess Association), in molti vi aderiscono ma alcuni no, come ad esempio Karpov.
Kasparov mantiene il titolo di campione del mondo PCA vincendo contro l'astro nascente Anand. È l'inizio di un vero e proprio scisma nel mondo degli scacchi competitivi. Anni di lotte, a cui Limonov risponde con un viaggio nell' Altaj, al confine con la Mongolia. Qui conosce le popolazioni locali e le loro tradizioni, cambia idea sull'islam, ora visto con simpatia. Lotte che sono sia esteriori per l'affermazione della sua idea politica, sia interiori viste le sue sfortune in amore. Un lottatore come Limonov trova stavolta non nella violenza, ma nella meditazione, lo strumento per rigenerare se stesso. Tuttavia la salita al potere di Putin mette al bando il partito nazional bolscevico, e Limonov si ritrova quindi in uno stato di semiclandestinità.
La lotta che conduce Kasparov è invece quella ugualmente epica contro la tecnologia. Nel '96 Kasparov gioca la sua prima partita contro il computer «Deep Blue» progettato dalla IBM. Perde la prima partita, ma vince con il punteggio di 4-2. Nel '97 si rigioca, e stavolta Kasparov perde ma sospetta che dietro la sua sconfitta vi sia stato l'aiuto di uno scacchista esperto, sospetto mai completamente fugato dalla IBM che comunque ritira il suo super-computer. Lo stesso Kasparov, nel suo «La vita, gli scacchi», spiega che nel gioco degli scacchi ci saranno computer sempre più capaci di superare col ragionamento logico-matematico il giocatore umano, ma il giocatore umano ha qualcosa che il computer non potrà mai possedere: il senso di posizionamento, i vantaggi temporali e la fantasia.
Nei primi anni 2000 Limonov viene arrestato con l'accusa di star organizzando un colpo di stato, tenuto in detenzione prima nel carcere di massima sicurezza di Lefortovo, poi a Saratov e infine a Engels, dove viene scarcerato nonostante una dura condanna, per il mutare del clima politico che vede in lui più uno scrittore che un sovversivo.
«Il carcere per me è stato come un monastero. A me è piaciuto starci, è un luogo in cui l'uomo si incontra con il caos ultraterreno», dice Limonov nel 2018 in un'intervista. Sugli scacchi invece Kasparov scrive «gli scacchi sono un talento per controllare cose prive di relazione. È come controllare il caos».
Kasparov in quegli anni prova il riavvicinamento con la FIDE, che intanto ha cambiato i vertici. Non vi riesce, e la sua PCA entra in crisi per mancanza di sponsor. In particolare, la Intel, sponsor principale dell'associazione di Kasparov, si è ritirata dopo che Kasparov ha accettato di giocare contro un computer della rivale IBM. Kasparov però proprio nel 2000 riesce a trovare uno sponsor e a giocare contro un'altra K, quella di Vladimir Kramnik, perdendo nello stupore generale.
Anche Kasparov ha le sue velleità politiche. Cresciuto come ragazzo fuori dagli schemi, si dimostra un liberale socialdemocratico e sostiene Eltsin prima di fondare il suo Fronte Civico Unito. Sono gli anni in cui Limonov fonda il partito nazional bolscevico.
Lo scrittore esplosivo sempre al limite dell'eccesso e il prodigio degli scacchi, che in quel gioco i limiti li ha ridisegnati, si incontrano nel 2007. Ad unirli sembra essere un comune spirito combattivo sublimato in azioni e comportamenti molto diversi. Se Limonov sostiene di aver raggiunto il nirvana in conseguenza delle sue pratiche meditative, Kasparov ha appreso l'arte della riflessione dal gioco che lo ha reso famoso. Entrambi scrivono, Limonov soprattutto delle sue vicissitudini reali, Kasparov di politica col suo «Winter is Coming» e «Scacco Matto a Putin».
Limonov ha sempre detestato Eltsin, Kasparov invece lo ha supportato. I due si ritrovano fianco a fianco nella piattaforma «L'Altra Russia», contenitore di un universo di partiti che spazia dai Nazional Bolscevichi, con tutte le loro contraddizioni e aporie, ai liberali di Kasparov. Proprio nel 2007, in occasione di alcune manifestazioni vengono arrestati e trattenuti. Kasparov si candida alle presidenziali nel 2008 ma non riesce a ricevere l'investitura dalla piattaforma L'Altra Russia. Ma nonostante abbiano condiviso le stesse barricate del dissenso, Kasparov e Limonov non devono essersi lasciati bene.
Limonov infatti risponde a Carrère, nel 2009, che è ben contento di vedere che il suo sito ha più visitatori di quello di Kasparov.
Fonda quindi nel 2010 un partito sempre con il nome «L'Altra Russia», utilizzando come simbolo l'essenza del suo pseudonimo, la bomba a mano; nel 2014, poi, si trova d'accordo con la politica estera russa sulla materia ucraina. Kasparov nel frattempo continua a insegnare scacchi alle nuove generazioni di campioni, e a prendere parte a iniziative concedendo qualche partita.
Morto nel 2020, Limonov è stato un iconico soldato del caos moderno, che pure ha intrecciato la sua vita con un genio della scacchiera, un fautore dell'ordine o almeno alfiere di chi tenta di generare ordine dal caos. Genio e Follia, come si sa, vanno a braccetto.
Nella prefazione a un suo libro, lo scrittore morto nel 2020 scrive che l'Occidente, la Russia e forse il mondo intero hanno optato o opteranno per regimi «morbidi». Sono oppressivi ma danno l'illusione della sicurezza e del benessere.
I metodi morbidi di manipolazione delle masse sono nati ben prima della fine dell'ultima guerra. Pur reprimendo le popolazioni degli altri paesi, Hitler seduceva i suoi Germanici attraverso le lusinghe della dottrina nazista. A partire dal 1924, incarcerato nella fortezza di Landsberg, aveva disegnato un modello d'automobile popolare, la Volkswagen, così come un progetto di casa ideale per il tedesco moderno: cinque vani con bagno. Intendeva governare il suo popolo tramite una violenza morbida.
Spaventata dalle manifestazioni del suo stesso cannibalismo durante la Grande Guerra e più ancora la Seconda guerra mondiale, l'umanità civilizzata si è affrancata dai regimi duri, optando risolutamente per i regimi molli. (Due fattori essenziali hanno ugualmente influito a tal proposito: le armi nucleari, che hanno esercitato un'influenza dissuasiva sull'aggressività, e l'innovazione tecnologica, che ha permesso di saziare l'appetito delle masse). Se la violenza dura consiste essenzialmente nel reprimere fisicamente l'individuo, al contrario la violenza morbida si basa sullo sfruttamento delle sue debolezze. La prima tende a trasformare il mondo in una cella di massima sicurezza, mentre la seconda mira a fare dell'uomo un animale domestico.
Insomma, un regime morbido fa a meno di divise nere, manganelli e tortura. Attinge dal suo arsenale: il falso progetto del benessere materiale, il timore della disoccupazione e della crisi, il timore e la vergogna di essere più povero e quindi meno buono del vicino e, infine, la pigrizia. L'inerzia è tipica dell'uomo allo stesso modo dell'energia. I suicidi di disoccupati forniscono un esempio della forte presa della violenza morbida, del grado di pressione psicologica subita, del canto delle sirene della prosperità a cui sono sottomessi i cittadini delle zone civilizzate del pianeta.
Gli schermi televisivi, del computer e dei Videotel hanno luminescenze seducenti e gradevoli nelle vetrine della civiltà attuale. Il pubblico è obnubilato dalla bulimia di informazioni, e dalla superpotenza dei motori delle macchine nell'euforia di una follia collettiva. Il ritratto di Big Brother appeso al muro farebbe una ben pallida figura a confronto dei processi sempre più pervasivi della pubblicità. Sbalordito dalle manipolazioni dei TASSI sotto il rullo dei tamburi della STATISTICA (la civiltà dà grande preferenza all'aritmetica molto relativa delle percentuali, che il pubblico non ha mai il tempo di analizzare), immerso nel brusio di una musica pop sempre meno buona da quando è diventata un must (la musica che si oppone ormai al pensiero), l'abitante civilizzato delle prospere contrade industrializzate compie la sua corsa accelerata dalla nascita al pensionamento. E si compiace tutto felice che quel tenore di vita materiale straordinariamente elevato venga raggiunto in Europa, negli Stati Uniti, in Australia e in alcune enclave, essenzialmente bianche, del pianeta, come Israele e il Sud Africa.
Protetto e vivendo a credito (spesso alle spese dei paesi sottosviluppati che disprezza), l'uomo civilizzato ha una paura incredibile della disoccupazione, in realtà di una vita fatta di libertà. Ecco perché giura quotidianamente fedeltà allo stato tutelare, avendo perduto (rinunciandoci volontariamente!) i privilegi essenziali dell'uomo, quelli che gli sono propri in quanto specie biologica: l'indipendenza e il libero arbitrio.
La sua docilità viene ricompensata da surrogati. I suoi sogni di viaggio si realizzano nel turismo organizzato, e può placare la sua sete di avventura accendendo la tv o comprando un biglietto del cinema. I gialli (libri o tele) con le loro sempiterne sparatorie sono un sostituto alla dose indispensabile all'essere umano di lotta per la sopravvivenza. Avendo perduto l'abitudine a difendersi, l'uomo civilizzato ha una preoccupazione paranoica della sua sicurezza. Ma qualsiasi tentativo da parte sua per garantire la propria sicurezza, non solo non è il benvenuto, ma finisce subito sotto la scure della legge. In una società civilizzata sottomessa a un regime morbido, la sicurezza dei cittadini è una faccenda esclusiva della polizia.
Sotto un regime morbido (ed è ciò che lo distingue fondamentalmente da un regime duro), la maggioranza impaurita non è repressa da un Partito unico, da una banda di malviventi. Ognuno vi partecipa in un modo o nell'altro. Tale è il carattere delle relazioni tra individui. Ma il regime morbido è più clemente verso parecchi di loro.
Affinché le masse domestiche non dimentichino che vivono nella migliore delle società possibili, vengono mostrati loro con grande gusto bambini africani malnutriti e ricoperti di mosche. Oppure gli scheletri di Auschwitz La morale è la seguente: è inutile architettare un'altra società. Vedi a cosa portano simili tentativi. Quello che ha portato il marxismo in Etiopia, e anche il Nazismo.
E le masse, terrorizzate, restano mute. Ipnotizzate dalla pubblicità dei formaggi, dei vini e dei detersivi. Gli si propone di comprare un rotolo di carta igienica super soffice, di vestirsi non più di nero, ma con tessuti dai colori accesi. Alla matematizzazione e alla sonorizzazione forzata della vita, bisogna aggiungere la sua infantilizzazione non meno forzata.
Tra tutti i crimini, il più orribile, e per nulla amnistiabile, è il delitto contro se stessi: lo spreco dell'unica vita di cui ognuno di noi dispone. Si ascoltano stupidi rumori musicali, parcheggiamo la macchina, ci consegniamo a un lavoro meno difficile che fastidioso, ed ecco che il nostro soggiorno su questo basso mondo si conclude. La collettività, vale a dire il preteso mondo civilizzato ha vinto producendo un'esistenza incolore, noiosa, desolante, privata dei veri piaceri. L'esistenza degli animali domestici.
Di fronte alla violenza di Big Brother, del vecchio regime duro indossante stivali e sinistre divise nere, potevamo un bel giorno sollevarci (e la storia mostra che questo prima o poi succederà). Ma come ribellarsi contro le proprie debolezze?
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In questo libro, verrà dato poco spazio alla polizia. In quanto nei regimi dell'Ospizio, che non sono polizieschi, ed è un punto su cui insisterò, l'irreggimentazione è una prerogativa della pubblica amministrazione, la polizia propriamente detta non essendo una forza autonoma. Possiamo dire lo stesso degli intellettuali, relegati al secondo piano dalla società mediatica. Gli intellettuali non costituiscono più una forza autonoma, la funzione di produrre opinioni precostituite essendo usurpata dai media. Oggi i pensatori non sono più dei Voltaire o dei Sartre, ma dei PPDA (Patrick Poivre d'Arvor) e dei Bernard Pivot (entrambi conduttori televisivi). La maggior parte degli intellettuali ha trovato modo di riciclarsi nella sfera dell'entertainment. E gli intellettuali si liberano scrupolosamente del loro compito. Formano oggi un gruppo di ausiliari privilegiati e le loro pretese di possesso della verità assoluta sono tanto grottesche quanto l'idea del loro carattere intrinsecamente rivoluzionario.
Rispetto alla ramificazione che prevale nel settore professionale, il comportamento sociale può essere ricondotto a degli archetipi semplici. Ecco perché, nel libro, utilizzo concetti come Popolo, Amministrazione, Malato ideale, Agitati, Vittime e non le nozioni consacrate, in sociologia, di colletto blu, colletto bianco, ecc. L'omologazione crescente dei modi di vita, dei gusti, dei bisogni e dei prodotti consumati sfocia nella confusione di gruppi che si differenziano per professione, età, potere d'acquisto, ecc. all'interno di un insieme socio-psicologico unico: il POPOLO. Ho rinunciato intenzionalmente al concetto di borghesia e utilizzo poco il termine classe media, in quanto sappiamo bene che, ormai, la mentalità comportamentale dell'operaio si distingue solo poco, se non per niente, da quella del borghese.
Ho perfino dato poca importanza agli avversari fittizi del sistema dell'Ospizio. I sindacati, il Partito Comunista e i gruppi estremisti tipo Action directe non contestano davvero i principi di civiltà dell'Ospizio: Prosperità e Progresso. Non fanno obiezione che al sistema di ripartizione della ricchezza nazionale, a cui si propongono di sostituire un sistema che pretendono più giusto. In un certo senso, non esiste opposizione negli Ospizi. Gli ecologisti e il Front National sono solo oppositori, rispettivamente, di una sola sfaccettatura del loro pensiero.
La mia analisi è vista dal mondo dell'Ospizio occidentale: dalla Francia, dove vivo, e dagli Stati Uniti, dove ho vissuto sei anni. Dedico numerose pagine al mondo dell'Ospizio dell'Est Europa e molte meno al mondo esterno all'Ospizio, che copre i tre quarti del pianeta. Perché la civiltà dell'Ospizio proviene dalla lotta dei due Blocchi contro il Nazismo, e poi tra loro. In secondo luogo, perché la mia attenzione è proporzionale all'interesse… sproporzionato dell'Occidente per i paesi dell'Est. Noi siamo ossessionati dall'Est, ha riconosciuto post factum Edgar Pisani, un alto funzionario di Stato. E, indica, le nostre relazioni con il Sud sono molto più importanti per noi… In compenso, le nostre relazioni con l'Est sono un problema non più strategico, ma economico-culturale.
È stato sempre evidente che solo i criteri economici quantitativi separano i due mondi (tanto è vero che la cultura di Tolstoj, echov e Solgenitsin è anche quella di Stendhal, Flaubert e Camus). Ci è voluto il narcisismo e la leggerezza dell'Occidente, la necessità in cui si trovava di confrontarsi con il Nemico assoluto, creato da zero, per impedirgli di riconoscere il suo fratello gemello. Il Nemico assoluto è altamente necessario alla salute interna dell'Occidente. Consente di mantenere i suoi cittadini in una sottomissione timorosa, di incanalare l'odio e l'aggressività dal grembo della società verso l'esterno. In mancanza del Nemico (o piuttosto dell'idea di nemico, poiché uno scontro reale non è auspicato ed è evitato), la civiltà dell'Ospizio non può essere sicura del suo perpetuarsi in quanto essa si definisce negando, condannando moralmente l'avversario.
Ho espresso, nel libro, riflessioni poco lodevoli sul Popolo. Ebbene, prima o poi, qualcuno doveva dirlo. Da troppo tempo il Popolo ha beneficiato di uno straordinario privilegio, pretendendosi una vittima dei governi, mentre era in realtà il loro complice e condivideva con loro i profitti. Gli Amministratori conoscono la vera natura, profondamente ipocrita, del Popolo, ma preferiscono mantenere il silenzio per salvaguardare il mito dei cattivi governi (opposti ai Popoli invariabilmente buoni e innocenti). Questo per mantenere la possibilità di sedurre il Popolo tramite un governo buono. Mi sembra che elevarsi oggi contro la dittatura del Popolo sia un atto tanto nobile quanto, duecento anni fa, insorgere contro l'Assolutismo.
«il Giornale.it», 14 novembre 2021
Эдуард Лимонов «Исчезновение варваров»
// Москва: журнал «Глагол», № 9, 1992, мягкая обложка, 272 стр., тираж: 25.000 экз., ISBN: 5-87532-002-8
Intervistiamo il ricercatore Fabrizio Fenghi sulle complesse vicende dell'ideologia nazional-bolscevica ed euroasiatica in Russia, da alcuni considerata molto rilevante per comprendere la guerra in corso.
Con l'invasione dell'Ucraina da parte di Putin, e ancor prima con il discorso che la giustificava e ne enumerava le ragioni dal suo punto di vista, è tornata alla ribalta la figura del filosofo e politico russo Aleksandr Dugin. Fondatore assieme a Eduard Limonov del partito nazional-bolscevico, autore di numerosi testi sul ruolo della Russia nel mondo e sullo scenario internazionale (tra cui «La quarta teoria politica»), fautore del concetto di «euroasiatismo» e di una rivitalizzazione di sentimenti imperiali all'interno della Federazione, da alcuni viene considerato l'ideologo dietro alla decisione da parte del Cremlino di attaccare la vicina repubblica. Certo è che alcuni dei termini da lui coniati (come quello di «Nuova Russia» per indicare le repubbliche del Donbass) sono stati ripresi e utilizzati da Putin e che alcuni dei concetti da lui elaborati, e fatti circolare soprattutto sul web, risuonino dietro alcune delle parole del presidente russo.
Ma la storia di Dugin, Limonov e del «nazional-bolscevismo» russo è una storia articolata e complessa, che interessa e chiama in causa anche tante realtà politiche dell'Europa occidentale. Non è un segreto che il primo sia stato lungamente in contatto con l'estrema destra nostrana di CasaPound, per esempio. Allo stesso modo, il secondo ha assorbito alcune tendenze politiche anche dagli ambienti del rosso-brunismo francese degli anni '90. Abbiamo provato a districare questi nodi e queste contraddizioni con il ricercatore e studioso Fabrizio Fenghi, autore del libro sul nazionalismo nella Russia post-sovietica «It Will Be Fun and Terrifying».
— Come definiresti il nazionalbolscevismo?
— C'è una definizione «storica» del concetto di nazionalbolscevismo, che rimanda agli anni '20 e '30 del secolo scorso e che assunse diverse forme: dalla «sinistra» del partito nazista in Germania in cui erano attivi personaggi come Ernst Niekisch, che teorizzava la possibilità di un'alleanza con l'Unione Sovietica, a Nikolay Ustryalov in Russia e ad altri intellettuali dell'emigrazione vicini al concetto di euroasismo (tutti intellettuali in qualche modo anti-comunisti e anti-sovietici), che a un certo punto elaborarono l'idea di un supporto all'Unione Sovietica che si basasse però su un sentimento nazionale e un radicamento nell'identità ortodossa. Ma ci sono stati anche storici che hanno parlato dello stalinismo stesso come una possibile forma di nazionalbolscevismo.
Ma, al di là di questa contestualizzazione storica (qui succintamente descritta), il nazionalbolscevismo che dal mio punto di vista ha avuto una maggiore influenza nella costituzione dello spazio pubblico e del dibattito pubblico nella Russia contemporanea è quello che inizia negli anni '90 e che ha un precedente in Francia in una coalizione politica che già allora si definiva «rossobruna». Una coalizione basata sull'idea che la sinistra francese si fosse ormai completamente imborghesita e fosse divenuta parte del sistema e che per questo necessitava una sorta di rivitalizzazione del suo potenziale di protesta e dissenso. In quel momento, lo scrittore Eduard Limonov era in Francia ed era attivo in questa coalizione prima di far ritorno in Russia.
Qui, nella Federazione Russa, il fenomeno del nazionalbolscevismo inizia attorno al 93-94, appena dopo la crisi parlamentare che si è prodotta in «resistenza» alla cosidetta «shock terapy» neoliberista promossa da Eltsin. A partire da questi eventi nasce dunque una coalizione «rossobruna», nella misura in cui in quel momento il dissenso al potere era sostanzialmente composto da comunisti radicali, anarchici o comunisti nostalgici (per così dire), o nazionalisti di vario genere (anche di estrema destra). E nasce secondo due direttrici: da un lato, appunto, come radicalizzazione di questa resistenza alle riforme neoliberali, dall'altro anche come riappropriazione del termine «rossobruno» stesso che era considerato dispregiativo (nei media mainstream russi degli anni '90 infatti molto spesso si bollava ogni dissenso indicandolo con termini come «piaga» o «peste rossobruna»).
— Che ruolo giocano in quel momento Limonov e Dugin?
— È appunto in un tale contesto che si incontrano Limonov — stravagante scrittore dell'emigrazione che è tornato in patria che è passato dall'essere un anti-capitalista di sinistra negli anni '70 a New York all'essere un esponente della controcultura e dell'underground russo, transitando in mezzo per Parigi — e Dugin — strano personaggio che, per come lo descriveva Limonov stesso, è una specie di «Cirillo e Metodio» del fascismo russo e che viene anche lui da ambienti della controcultura, avendo fatto parte negli anni '70 del circolo dello scrittore postmoderno Yuri Mamleev. Insieme decidono di creare un partito che sia un misto dell'estrema destra e dell'estrema sinistra, che fa propri alcuni elementi di stampo controculturale, punk e giovanile (celebrando allo stesso tempo realtà come le Brigate Rosse o il fascismo di Mussolini) tanto che inizialmente si tratta di una forza che si inserisce nella vita politica con modalità soprattutto creative e, appunto, controculturali. In seguito, verso la fine degli anni '90, diventa un movimento più radicato sul territorio che include una base più diversificata, che può includere tanto punk e radicali di sinistra quanto skinheads e radicali di destra (in particolare nelle periferie) e che quindi possiede diverse identità.
Dopo si verifica un maldestro tentativo, da parte di Limonov e altri, di trasformare questo movimento in un'organizzazione militare e di organizzare una ribellione armata nel Kazakhstan (attorno al 99-2000) che finisce con l'arresto dello stesso Limonov. Più o meno parallelamente, Dugin lascia il partito per trasformarsi in una figura maggiormente parte del sistema costituito: diventa un sostenitore ardente del governo di Putin e di un ritorno all'imperialismo, vale dire a favore di una ricostituzione del progetto imperiale sovietico e in un certo senso anche pre-sovietico. Si verifica dunque una biforcazione all'inizio degli anni 2000: Dugin e i suoi «scismatici» diventano una sorta di corrente di destra del nazionalbolscevismo, ferventi sostenitori di Putin e con delle connessioni anche istituzionali a livello del ministero della difesa e del governo russo (ma comunque con una visione del putinismo virata verso l'imperialismo estremo, soprattutto ispirato a filosofi nazionalisti degli anni '20) formando una sorta di «partito euroasiatico». Limonov e i suoi seguaci, dal canto loro (che a questo punto si trovano in uno stato di «illegalità», visto che il partito viene messo fuori legge dalle autorità russe), per una quindicina d'anni si trasformano in una sorta di «avanguardia di strada» dell'opposizione liberale contro Putin e si iniziano, paradossalmente, a focalizzare su idee quali i diritti civili, la libertà di assemblea e di parola, ecc.
Il tutto partendo dall'idea, di fatto piuttosto conscia, che il partito nazionalbolscevico fosse un partito nella sua essenza «rivoluzionario» e che siccome il potere costituto, nella figura di Putin, si era convertito a un'idea di impero e di conservatorismo, ecco che per coerenza strutturale loro avrebbero dovuto prendere la posizione opposta. Si forma così la coalizione «L'altra Russia» con Kasparov e altri—ed ecco che i nazionalbolscevichi diventano famosi come performer di strada, attuando azioni di protesta come l'occupazione di istituzioni pubbliche, l'ufficio della presidenza o del ministero della saluto manifestando contro problemi quali la diseguaglianza sociale e simili. Diventano anche molto visibili nei media.
— Concentrandoci su Dugin, su quali basi si forma l'attrazione verso Putin? Ma soprattutto: è un'attrazione ricambiata?
— Dugin e Putin sono due figure non sempre allineate e le cui reciproche influenze hanno una dinamica complessa. Se esiste un'influenza di Dugin sulla politica putiniana è di stampo indiretto. Esistono delle relazioni concrete, visto che anche grazie alla propria provenienza famigliare, Dugin ha avuto contatti con persone interne ai ministeri (nei cosiddetti ministeri forti, soprattutto al ministero della difesa). Ci sono dunque stati momenti in cui Dugin ha avuto il potere di esercitare un'influenza politica in maniera più diretta: ne è un esempio il caso del suo libro «Fondamenti della geopolitica», che è stato adottato come libro di testo per alcune scuole militari in Russia o, più recentemente, con la sua collaborazione con l'oligarca Malofeev che ha in qualche modo supportato e finanziato il partito euroasiatico.
Dal mio punto di vista, però, credo che l'influenza sul pensiero di Putin sia un tipo di influenza soprattutto indiretta. Il braccio destro di Dugin, Valery Korovin, nel corso di un'intervista che ho condotto con lui per il mio lavoro di ricerca mi ha così sintetizzato la questione (uso una parafrasi): «L'influenza più diretta che abbiamo sul Cremlino è data dal nostro predominio di Internet. Succede che qualche burocrate dice al proprio sottoposto di andare a cercare qualcosa sull'eurasiatismo e di rubarlo. Questo sottoposto cerca su internet, trova praticamente solo cose nostre e se le prende per il discorsi del presidente». Dugin e gli euroasiatici, che sono stati molto pioneristici in questo senso, hanno infatti creato una miriade di siti dedicati alle loro teorie e ideologia. Questo lo si evince bene dal fatto che se si prova a fare una ricerca del termine «eurasia» sui vari motori di ricerca russi, all'incirca i primi trenta risultati provengono tutti da siti creati da Dugin e il suo movimento. Ora, il braccio destro di Dugin sosteneva sostanzialmente che stralci di discorsi e idee contenuti su questi siti venivano spesso ripresi nei discorsi di Putin magari per la sciatteria e inesperienza dei vari assistenti.
Insomma, questo per dire che il cosiddetto «movimento euroasiatico» — in tutte le sue diverse incarnazioni — ha avuto sempre scarsa presenza sul territorio ma anche dal punto di vista istituzionale è rimasto sempre ai margini della politica di massa. Ciò detto, storicamente parlando, la politica putiniana e l'ideologia putiniana sono state molto opportunistiche nel captare e appropriarsi di tendenze che fiutavano essere «nell'aria». Hanno assorbito in maniera molto fluida idee e concetti che potessero tornarle utili. In questo senso, penso che Dugin sia stato utilizzato da Putin e i suoi, in diversi momenti di congiuntura e a seconda del momento politico, per diversi scopi. Qualcosa di differente forse dall'eminenza grigia della politica putiniana Vladislav Surkov, fondare del movimento pro-Putin «Nashi» (di stampo più neoliberale) a cui però ha partecipato lo stesso Dugin. Questo per dire, in definitiva, che la questione delle influenze dell'ideologo «rossobruno» ed euroasiatico sulla politica istituzionale russa e nella cultura di messa russa non è lineare. Si può forse riassumere dicendo che Dugin ha costruito e «testato» sul campo idee molto radicali che sono state poi riassorbite da altri movimenti e realtà che le hanno rielaborate in una forma più «digeribile» per il mainstream. Il movimento «Nashi» stesso può essere letta come una versione più di massa della «gioventù euroasiatica.» Oppure pensiamo al termine «Nuova Russia», utilizzato per la prima volta sui media da Dugin e poi impiegato per indicare le repubbliche di Lugansk e Donetsk.
— Per non parlare della «denazificazione» addotta da Putin a motivo dell'invasione…
— Sì, Putin ha preso come pretesto per l'invasione, demagogicamente, la presenza nelle proteste di Euromaidan e poi successivamente nella società e nell'esercito ucraino di forze di estrema destra. È interessante considerare questa affermazione nel contesto della Russia post-sovietica in cui l'eredità del «nazismo» (non tanto del fascismo, che non rappresenta un riferimento così conosciuto a livello di massa) e l'evocazione della resistenza alla Germania di Hitler vengono utilizzate per diversi scopi. Intanto, va rivelato come già al tempo della «Rivoluzione Arancione» del 2004 in Ucraina si diffuse all'interno della cerchia di Putin e in particolare per Surkov un certo timore, tanto che si iniziò a dire che fosse necessario resistere alla «peste» o «piaga arancione» (stessi termini utilizzati peraltro per il rossobrunismo, come accennavamo in precedenza) e questo sforzo si coagulò attorno al già citato movimento «Nashi» (che nella sua dicitura officiale si presenta appunto come «movimento antifascista» evocando la resistenza al nazifascismo della Grande Guerra Patriottica, fortemente voluto e finanziato da Putin e con dei tratti molto «reazionari» e militareschi e proprio per questo chiamati, ironicamente, «fashisti» dai loro oppositori oppure «Putinjugend» per la loro assonanza di atteggiamento e stile con la Hitlerjugend). Ora, in quegli anni Nashi si è concentrato sulla persecuzione (anche in forma di scontri violenti di piazza) degli oppositori a Putin tra cui gli stessi nazional-bolscevichi, dai quali però mutuano certe estetiche e questa fascinazione per il richiamo ai momenti più totalitaristici della storia sovietica, presentandosi però, in sostanza, come «antifascisti» e tentando di occupare il loro stesso spazio politico.
Lo dico per sottolineare che, nel complesso quadro della Russia post-sovietica, presentarsi come anti-fascisti o accusare i propri avversari di fascismo è l'atto per eccellenza che serve a «disqualificare» qualcuno o qualcosa. Così, in seguito a Euromaidan — facendo leva sulla complessa storia dell'Ucraina al tempo dell'occupazione nazista — Putin ha iniziato a bollare i governi della vicina repubblica con questo termine, mentre internamente prima chiamava «liberal-nazisti» Limonov e gli altri membri della coalizione «L'altra Russia» (Kasparov, Kasianov, ecc). Insomma, si tratta di una parola che da oltre vent'anni viene utilizzata da più parti in maniera altamente demagogica e strumentale. Nel caso dell'invasione dell'Ucraina, penso che Putin volesse sostanzialmente alimentare una visione binaria della storia di quanto stava accadendo. Interessante rilevare che questa strategia nel 2014 aveva sostanzialmente funzionato: in quel caso, i sondaggi (a cui va forse fatta una tara, ma che io reputo in quel caso nel complesso attendibili) indicavano un grande rialzo nel sostegno a Putin e una forte polarizzazione del dibattito interno attorno alle dicotomia pro-Russia o pro-Ucraina.
— Che tipo di influenza ha avuto e ha invece il «rossobrunismo» nella società? Non solo in Russia, ma anche in altri paesi…
— È difficile da dire con certezza. Basandomi sulle mie ricerche e sulle mie impressioni, ti direi che la figura di Dugin in Russia non sia molto popolare, anzi. Sicuramente, rispetto a 7-8 anni fa, ci sono più persone che lo conoscono e che ne hanno sentito parlare ma in generale direi che «il russo medio» probabilmente non sa di chi si tratti o ne ha solo una vaga conoscenza, e comunque la sua ideologia tendenzialmente non fa presa sulle persone a un livello di massa. Nemmeno nei momenti in cui Dugin ha provato scientemente a creare egemonia, pure in modi aggressivi (penso alla «Marcia russa», mobilitazione dominata dall'estrema destra di cui Dugin ha provato a mettersi a capo a metà degli anni 2000, fallendo completamente).
Insomma, penso che il rossobrunismo non sia un fenomeno che di per sé esiste in misura rilevante nella cultura di massa russa. Ci sono degli elementi che, come accennavo prima, sono entrati a far parte del discorso comune passando però un processo di rielaborazione di lunga durata. E questo ha a che fare appunto con una massiccia circolazione di queste idee che si è verificata negli ultimi anni in special modo online, sia in Russia che fuori dalla Russia, e che potremmo leggere come una reazione populistica di stampo estremo alle politiche neoliberistiche e a un'idea di «fine della storia» à la Fukuyama. Il concetto di populismo (che ovviamente va preso con le pinze e usato con cautela) ci dice però di un elemento interessante, anche riguardo alle affinità fra Putin e Dugin: entrambi hanno un atteggiamento in tutto e per tutto «postmoderno», nel senso della capacità di assorbire e mescolare temi, autori e concetti con genealogie politiche radicalmente differenti fra loro (faccio un esempio: nel «calderone» elaborato da Dugin rientrano tanto Gramsci e Negri-Hardt quanto Julius Evola e la cultura di estrema destra francese).
In questo senso è opportuno rilevare come il Dugin «degli inizi» si ispiri in maniera massiccia ad Alain De Benoist: uno dei primi sostenitori della necessità di appropriazione delle idee gramsciane da parte della nuova destra. Il paradosso quindi è che Dugin, nel suo nazionalismo estremo, è di fatto un «nazionalista cosmopolita» dal momento che la sua ideologia risulta principalmente ispirata dalla nuova destra francese à la De Benoist e dal conservatorismo rivoluzionario del ventennio e, al tempo stesso, dall'eurasismo. Quindi se vogliamo trattare il tema dell'influenza del pensiero di Dugin sul populismo europeo-occidentale e americano (nello specifico, l'alt-right) è bene rilevare che c'è una sorta di «doppio movimento»: da una parte, Dugin assorbe e prende tante idee dall'esterno, riciclandole, trasformandole e combinandole con la cultura del nazionalbolscevismo di cui ha fatto parte; poi, negli ultimi anni (diciamo poco prima della vittoria di Trump), c'è un movimento che — soprattutto attraverso canali informali e online — va nella direzione opposta, per cui Dugin diventa ora promotore di idee di cui si riappropriano populismi europei e statunitensi.
La guerra inattesa. La grande letteratura, da Tolstoj a Grossman. I suoi amici che scappano da Mosca. Intervista all'autore di «Un romanzo russo» sul Paese che ama. E che forse non rivedrà mai più.
Quando è partito per Mosca, a metà febbraio, Emmanuel Carrère ha messo in valigia «Stalingrado» di Vasilij Grossman. Avrebbe dovuto parlarne al ritorno con il suo editore italiano, Adelphi, in vista della nuova edizione. «Mi ero incuriosito, non sapevo che Grossman avesse fatto una sorta di prequel di «Vita e destino»». Il romanzo sull'epica battaglia contro il nazismo, con l'Armata rossa che attraversa l'Ucraina, era una lettura da viaggio.
C'è stato solo il tempo di sfogliare qualche pagina. Non appena ha messo piede nella capitale russa, Carrère è precipitato in una nuova «Grande Guerra Patriottica» (come i russi chiamano la Seconda guerra mondiale) e le pagine dello scrittore sovietico hanno preso un'altra dimensione.
Quasi mai i libri sono una presenza innocente. Carrère si è trovato a raccontare la vertigine di un conflitto che nessuno aveva previsto, neanche lui che ha sangue russo e un'insana attrazione per un Paese di cui vede la «smisuratezza» in tutto.
«Non posso dire che a Mosca mi senta a casa, ma non è neanche un altrove» ci racconta lo scrittore francese, tornato a Parigi subito dopo aver mandato alle redazioni il suo reportage (uscito su Repubblica il 13 marzo, e ancora disponibile sul sito, ndr).
«Sono fottuto, ormai le autorità non mi daranno più il visto d'ingresso». Si schermisce: «Parlo un russo maccheronico, non sono un esperto». Ma sua madre, la storica Hélène Carrère d'Encausse, è la sovietologa che aveva previsto il crollo dell'Urss.
Alla fine di Un romanzo russo, Carrère ha ricordato la sensazione di orgoglio di quando, bambino, imparava a nuotare seguito dallo sguardo materno. Una dichiarazione d'amore, dopo aver tradito nel libro un segreto di famiglia: il nonno, immigrato georgiano, ammiratore di Mussolini e Hitler, scomparso nel 1944, probabilmente ucciso per aver collaborato con i tedeschi.
«Un fantasma che ossessiona le nostre vite» scriveva nell'epistola alla madre, tentando di liberarsi finalmente di quella «tara». Ancora oggi per lui la Russia è una faglia aperta.
— È riuscito a finire Stalingrado?
— Tornato a Parigi, per tre giorni ho avuto quaranta di febbre. Una grossa influenza, niente di grave, mi sembrava di spurgare tutto quello che avevo assorbito a Mosca. È in questo stato un po' alterato che ho ripreso la lettura di Grossman. A piccole dosi, ogni volta che riemergevo dal torpore. Ed è accaduta una cosa strana. Mi sono ritrovato dentro Stalingrado. Il libro aveva una potenza quasi allucinatoria.
— Grossman parla al nostro presente?
— Si discuteva di nuove guerre chirurgiche, ibride, tecnologiche. In Ucraina vediamo un conflitto classico, all'antica, con tecniche di assedio alle città, esattamente come successe tra russi e tedeschi a Stalingrado ottant' anni fa.
— Vladimir Putin usa molto la retorica della «Grande Guerra patriottica». Parla di «denazificare» l'Ucraina.
— La Guerra patriottica è sacra in Russia. C'è un'eco particolare quando si usano parole come nazismo, genocidio. Non so però fino a che punto funzioni.
— Crede che l'orgoglio nazionalista appartenga ancora al Dna culturale russo o è un vecchio cliché?
— Ci sono sicuramente molti russi che aderiscono a questa retorica. Purtroppo credo la maggioranza. Altra cosa è capire se hanno voglia di arruolarsi e combattere una nuova «Guerra patriottica». Francamente non ne sarei così sicuro.
— Eduard Limonov, lo scrittore e avventuriero russo a cui lei ha dedicato una celebre biografia, è morto due anni fa. Se fosse vivo, come si sarebbe schierato?
— Era già stato a combattere nel Donbass, a Sebastopoli, in Transnistria.
Se c'era da difendere russi maltrattati, o che lui pensava tali, o territori sottratti alla Grande Russia, era sempre il primo a partire. Quindi non c'è alcun dubbio: Limonov oggi sarebbe al fronte, da qualche parte nel sud dell'Ucraina.
— Fa parte della sua ambiguità?
— Complicato farne una sintesi politica. È stato un oppositore di Putin, anche coraggioso. E al tempo stesso, quando scavavi, era evidente che ne condivideva le idee. Rimproverava a Putin di essere troppo molle. Oggi non lo direbbe più.
— Molti non credevano il presidente russo capace di scatenare questa offensiva. E lei?
— In un reportage pubblicato qualche anno fa, avevo descritto un Paese in cerca di un nemico, che si prepara alla guerra, convinto di essere circondato solo da avversari. Non so perché l'ho scritto. Era una fugace sensazione, non correlata da fatti. Tra i miei amici a Mosca non c'era alcun desiderio bellico, anche perché sono esponenti di una classe media urbana.
— I suoi amici sono andati via?
— Alcuni sono partiti, altri stanno pensando di farlo. Tutti sono convinti che sia successo qualcosa di irreversibile. Si è improvvisamente richiusa la parentesi di quasi normalità cominciata con la fine dell'Urss e durata circa trent' anni. Nella migliore delle ipotesi il mondo non precipiterà in una guerra nucleare. Ma i russi che non aspirano a una vita sovietica sono spacciati.
— Lei da che parte sta?
— Qualcuno mi ha accusato di fare racconti lacrimevoli sui russi. Io ho tentato solo di mostrare che ci sono anche persone che non vogliono questa guerra, e la subiscono.
— Il presidente russo è popolare come prima?
— Non sono capace di misurare l'adesione dei russi ai discorsi di Putin. Lui presenta la guerra come difensiva. E molti ci credono. Come pure credono all'idea «Ora che facciamo paura finalmente gli altri ci rispettano».
— Un sentimento di rivalsa contro l'Occidente.
— Qualcosa del genere. C'è un uomo solo al comando, che spaventa tutti. Non capita spesso che l'umanità intera stia con il fiato sospeso per capire le prossime mosse di un uomo solo e poco aperto al mondo.
Putin si vanta di usare poco internet, di leggere solo le note dei suoi consiglieri: immagino dicano quello che lui ha voglia di sentirsi dire. Deve essere straordinariamente poco informato. E al tempo stesso è straordinariamente protetto. Non sarà facile sbarazzarsi di lui.
— Quale autore russo ha raccontato meglio il ventennio di Putin?
— Onestamente non ne conosco. Vladimir Sorokin m' interessa poco, e ho l'impressione che oggi in Russia nessuno legga più nulla. C'è stata un'epoca, quando è cominciata la Perestroika, in cui ogni settimana venivano pubblicati libri un tempo introvabili, si scoprivano autori prima banditi. E c'era un appetito folle per una letteratura ritrovata, in una sorta di perpetua meraviglia.
— Scrittori russi contemporanei che le piacciono?
— Mi è piaciuto molto Underground di Vladimir Makanin, che narra la Russia degli anni Novanta. Manca anche qualcuno che abbia raccontato il prodigioso momento della fine dell'Urss. O forse mi sbaglio, c'è Svetlana Aleksievic. Ecco, lei forse è l'unica.
— Quando ha scoperto Grossman?
— Lessi Vita e Destino una quindicina di anni fa e come tutti ne rimasi impressionato. Poi ho letto il suo romanzo breve su un uomo che torna dal gulag: molto bello anche se più modesto nell'ambizione e nella stesura.
Stalingrado non lo conoscevo fino a quando non me ha parlato Adelphi. Ho usato l'edizione francese che ha ancora il titolo Pour une juste cause. Ingenuamente pensavo fosse solo una prima stesura scritta a caldo, rispetto a Vita e Destino.
Ho scoperto invece che è un insieme perfettamente coerente. Ci sono gli stessi personaggi, la stessa famiglia. C'è la lettera della madre di Strum che passa di mano in mano e finalmente si svela nel secondo volume. Tra l'altro c'è una magnifica suspense. Solo l'approccio politico è davvero diverso.
— In che modo?
— Stalingrado è un romanzo più legato all'ortodossia comunista, manca la potenza dell'accostamento tra nazismo e stalinismo. La vita stessa di Grossman è enigmatica. Mi domando come abbia fatto ad avere una carriera letteraria senza essersi mai iscritto al partito comunista. Non ho la risposta.
— Ha letto anche le sue corrispondenze di guerra?
— Sì, e pensavo che due dei più grandi autori sovietici sono stati giornalisti al fronte. Babel', entrato nell'Armata rossa durante il conflitto russo-polacco. E poi Grossman nella Seconda guerra mondiale. I suoi articoli sono ricchi di testimonianze, riflessioni, ha una straordinaria capacità di abbozzare ritratti in presa diretta, incarnati. Come all'inizio di Stalingrado, quando descrive Mussolini e Hitler.
— È davvero il Tolstoj del Novecento?
— L'ispirazione è rivendicata, Grossman ha spiegato che Guerra e pace era l'unico libro che portava con sé al fronte. Stalingrado è abitato da Tolstoj e ha qualità letterarie e psicologiche molto vicine. Vedo anche una presenza della natura e dei paesaggi unica nella letteratura russa.
Detto questo, non sono sicuro che Grossman sia uno scrittore immenso quanto Tolstoj, ma li accomuna la stessa ambizione.
— Raccontare la guerra.
— Mi viene in mente un film del regista russo Guerman, molto meno famoso di Tarkovskij o Mikhalkov. Il suo Venti giorni senza guerra è uno dei migliori racconti che abbia mai visto. Il protagonista, un giornalista chiaramente ispirato da Grossman, ha venti giorni di permesso per tornarsene a casa. Ci sono poche scene di battaglia eppure riesce a comunicare fisicamente il sudicio e il pantano di chi sta al fronte.
— E invece il suo prossimo reportage? Da dove?
— In Russia penso di essermi bruciato, e non mi vedo a scrivere sotto le bombe in Ucraina. Non sono abbastanza coraggioso, e poi ci sono già ottimi inviati di guerra. A un certo punto ho pensato alla Moldavia, alla Georgia o all'Armenia, magari per incontrare i russi costretti a emigrare, a rifarsi una vita. Si parla poco di loro, e forse è ingiusto. Non è la loro guerra.
Lo scrittore dissidente russo di fama internazionale, Eduard Limonov, il 22 febbraio di quest'anno avrebbe compiuto 80 anni.
L'ultimo e definitivo numero della rivista statunitense «Esquire», in Russia, che uscì nell'aprile 2022 (prima di chiudere la versione russa, a causa delle sanzioni), gli dedicò la copertina con il titolo: «La vita e il posto nella Storia del grande scrittore russo» e, da tempo, è in lavorazione un film ispirato alla sua vita —
«Limonov: The Ballad of Eddie», scritto dal regista polacco Paweł Pawlikowski, diretto dal regista russo Kirill Serebrennikov e interpretato dall'attore britannico Ben Whishaw (celebre per aver recitato nei film «The Danish Girl», «Il ritorno di Mary Poppins» e «La vita straordinaria di David Copperfield).
Il film, peraltro, è ispirato al romanzo-biografia «Limonov», del francese Emmanuel Carrère, del 2011, edito in Italia da Adelphi. Romanzo che, in verità, Limonov non considerava per nulla, in quanto lo riteneva scritto dal punto di vista di un «ricco borghese» e dichiarò di non averlo mai voluto leggere.
Da dire che, già nel 2018, il regista italiano Mimmo Calopresti gli dedicò un docu-film, ove accostò Limonov alla figura di Pier Paolo Pasolini.
Limonov, alla sua morte, avvenuta il 17 marzo 2020, aveva all'attivo oltre 60 libri. Prevalentemente romanzi a sfondo autobiografico.
Dissidente integrale, negli Anni '70, si fece volutamente espellere dall'URSS per approdare negli USA, ove vivrà di scrittura e di umilissimi lavori, assieme al compagna dell'epoca, Elena Schapova, la quale diverrà presto una modella e oggi è moglie di un nobile italiano.
Fu autodidatta, sarto, attivista trotzkista, redattore di giornali, maggiordomo di un miliardario e, per un periodo, visse persino da senzatetto.
Visse a Parigi negli Anni '80, con la seconda moglie (la prima fu Anna Rubinstein, che sposò negli Anni '60), la cantante e scrittrice Natalya Medvedeva, e successivamente, negli Anni '90, partecipò alla guerra civile nell'ex Jugoslavia a sostegno della Repubblica Federale di Jugoslavia e alla guerra di Transnistria, a sostegno della Repubblica Socialista Sovietica Moldava di Pridnestrovie. Successivamente, tornato in Russia, prese parte alla resistenza popolare in difesa del Parlamento russo, fatto bombardare da Eltsin.
Nel 1992 collaborò con Vladimir Zirinovskij, leader del Partito LiberalDemocratico russo, ricevendo la nomina a «Ministro della Sicurezza» del governo ombra creato dallo stesso Zirinovskij. Presto ne prese le distanze, spiegandone le ragioni nel saggio «Limonov contro Zirinovskij».
L'anno successivo, invece, organizzò un gruppo di poveri, sbandati, emarginati, punk ed ex punk delusi dal crollo dell'Unione Sovietica e vittime dell'avvento dei liberalismo oligarchico.
Quel nucleo di «desperados», nel 1993, prenderà il nome di Fronte Nazionale Boscevico e, nel 1994, di Partito NazionalBolscevico (PNB), unendo i principi del nazionalbolscevismo di Ernst Niekisch (ex deputato socialdemocratico e primo oppositore, in Germania, del totalitarismo hitleriano), a quelli della controcultura punk e beatnik.
Limonov, il filosofo Aleksandr Dugin (prima di andarsene dal partito e prendere le distanze da Limonov), il cantante e chitarrista punk rock Egor Letov e il musicista e attore Sergey Kuryokhin (oltre che numerosi altri artisti, scrittori e musicisti), saranno dunque i maggiori animatori del PNB e del suo giornale controculturale «Limonka» («Granata») e riusciranno, via via, ad aggiudicarsi le simpatie di quei giovani delusi dall'avvento di Eltsin al potere e della conseguente distruzione economico-sociale della Russia, che si avviava a divenire un Paese liberal-capitalista.
Il Partito NazionalBoslcevico sarà bandito in Russia, nel 2007, con l'infondata accusa di «estremismo». Ma, nel settembre 2021, la Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), con sede a Strasburgo, ha dichiarato che lo scioglimento del Partito NazionalBolscevico (PNB) è da considerarsi una violazione dei diritti umani e ha condannato le autorità russe a pagare un risarcimento ai giovani figli adolescenti di Limonov e ai dirigenti del partito di allora.
La CEDU ha infatti stabilito che vietare il PNB fu un atto «sproporzionato e non necessario in una società democratica» e ha fatto cadere ogni accusa attribuita al partito dalla giustizia russa, ovvero le accuse infondate di «estremismo», «incitamento all'odio» e «appelli a disordini di massa».
Dopo una breve alleanza con i liberali di Kasparov e Kasyanov — oltre che con i comunisti di Viktor Anpilov — nella coalizione democratica «Altra Russia» (il nome è tratto da un saggio politico dello stesso Limonov, del 2003), Limonov e i suoi giovani militanti organizzeranno, nel 2010, il partito «L'Altra Russia» che, dopo la sua morte, ha assunto la denominazione «L'Altra Russia di Eduard Limonov». Collocato a sinistra e spesso alleato, in varie manifestazioni, a diversi partiti comunisti russi, non rappresentati in parlamento.
Ancora oggi partito di opposizione fra i più perseguitati in Russia (ed ai quali è impedito presentare liste elettorali), il partito di Limonov propone — fra le altre cose — una forma di socialismo popolare e democratico, fondato sull'anticapitalismo e sulla nazionalizzazione dei settori chiave dell'economia; il rispetto dell'articolo 31 della Costituzione che sancisce la libertà di riunione e manifestazione; la fine dell'autoritarismo imposto dal governo Putin.
La compianta giornalista Anna Politkovskaja sui nazionalbolscevichi di Limonov ebbe a scrivere:
«Mi sono ritrovata a pensare di essere completamente d'accordo con ciò che dicono i Nazbol. L'unica differenza è che a causa della mia età, della mia istruzione e della mia salute, non posso invadere i ministeri e lanciare sedie.
〈…〉 I Nazbol sono soprattutto giovani idealisti che vedono che gli oppositori storici non stanno facendo nulla di serio contro l'attuale regime. Questo è il motivo per cui si stanno radicalizzando.
〈…〉 I Nazbol sono probabilmente il gruppo di sinistra più attivo, ma il loro nucleo si è ridotto da quando molti sono stati arrestati e imprigionati.
〈…〉 I Nazbol sono giovani coraggiosi, puliti, gli unici o quasi che permettono di guardare con fiducia all'avvenire morale del Paese».
Eduard Limonov di Anna Politkovskaja scrisse:
«〈…〉 Cosa ha fatto Anna Politkovskaja per noi ? Ci ha fatti conoscere nella società. Ci ha spiegati alla gente, perché ci ha riconosciuti prigionieri politici. Ha ricreato nei suoi articoli l'atmosfera di un terribile processo contro i giovani della Russia. Questo processo di massa non avveniva sulla nostra terra dalla fine del XIX secolo. E così rinasceva nel XXI secolo».
〈…〉 Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaya fu uccisa all'ingresso della casa dove abitava. Sono andato al cimitero. C'erano già tutti i nazionalbolscevichi di Mosca. E quelli che sono riusciti a venire dalle zone limitrofe. I ragazzi mi hanno consegnato fiori di garofano bianco. Poi si è svolta la processione funebre. Il ritratto di Anna Politkovskaja è stato portato da una nostra compagna nazbol, che indossava occhiali in una cornice in metallo. Molto simili a quelli della Politkovskaja».
In Italia, in questi ultimi anni, opere di Limonov sono state editate da Sandro Teti, che continuerà, negli anni a venire, a pubblicare sue opere.
Fra queste ricordiamo il romanzo dai contorni noir e erotici «Il Boia» e «Zona Industriale», nel quale l'autore racconta il periodo trascorso dopo l'uscita dal carcere di Lefortovo e il ritorno nel suo malmesso e fatiscente appartamento, sito nella periferica zona industriale moscovita di Syri.
Limonov, infatti, non si è mai arricchito e non gli è mai interessato vivere negli agi, nonostante la sua ultima moglie sia stata l'affascinante attrice, cantautrice e modella Ekaterina Volkova, amante del jet set, e dalla quale ha avuto due figli, Aleksandra e Bogdan.
Sandro Teti ha curato anche la prefazione al mio saggio «L'Altra Russia di Eduard Limonov», edito da IlMioLibro e uscito lo scorso anno, che cerca di cogliere l'anima artistica e controculturale del Nostro.
L'ultima compagna di Limonov, alla quale è sempre stato sempre fedele, fu Fifì, alla quale dedicò una raccolta di poesie erotiche — «A Fifì» — appunto, con l'affascinante fanciulla in copertina, nuda, di spalle.
Limonov e Fifì saranno anche protagonisti del numero 100 della rivista «Rolling Stones», l'uno accanto all'altra, con lei, completamente nuda, di spalle.
Nel suo soggiorno statunitense, negli Anni '70, Limonov conobbe il poeta e editore della Beat Generation Lawrence Ferlinghetti (il quale gli consigliò un finale diverso per il suo romanzo «Sono io, Edika», tipo l'omicidio di una persona famosa, anziché la frase «Affanculo tutti!») e Andy Wharol.
Relativamente a Wharol, Limonov ebbe a dire:
«Andy Warhol era impossibile da non notare. I suoi capelli albini illuminati dalla luna e il suo viso caratteristico lo rendevano unico. Ha subìto un attentato da parte di una donna, Valerie Solanas, ma ha continuato a girare per New York da solo, senza guardie del corpo…
Qualche anno prima di incontrare Warhol su Madison Avenue, ho comprato il suo libro «The Philosophy of Andy Warhol». L'ho letto in inglese. Sdraiato sull'erba a Central Park. Questo è un libro utile e intelligente. Recentemente l'ho acquistato di nuovo in inglese. Quando l'ho letto a New York, ero sconosciuto a tutti e avevo appena iniziato nel luglio del 1976 a scrivere il mio primo romanzo. Un quarto di secolo dopo, ormai, non esco senza una guardia del corpo e alcuni passaggi del libro hanno acquisito per me un significato diverso…
Dopo un attentato contro di me nel 1996 e il bombardamento della sede di «Limonka» nel 1997, ho compreso più profondamente la saggezza della filosofia di Andy Warhol».
Nel suo «Diario di un fallito» ebbe a scrivere che «Ci sarà giustizia quando il sesso non dipenderà più dal denaro» e di sé stesso e del suo carattere difficile, ma costantemente alla dispetata ricerca d'amore ebbe a scrivere:
«Sono arrabbiato, sono nervoso, non sono buono, non sono interessante … Eppure sono orgoglioso di essere nervoso e sono orgoglioso di essere cattivo. E sono sicuro di essere bravo, molto meglio di tutti loro — sia professori domestici ristretti che poeti pseudo-ribelli domestici manuali. L'instabilità è buona, è un motore, è uno stato naturale di una persona, non c'è nulla di permanente nella vita.
L'armonia è lotta. Non ho mai vissuto una vita normale. Non ho sempre avuto un riparo, vagavo da un appartamento all'altro. La vita stessa è un processo privo di significato. Pertanto, ho sempre cercato un'occupazione elevata nella mia vita. Volevo amare disinteressatamente, ero sempre annoiato di me stesso. Ho amato, come osservo ora, in modo insolitamente forte e spaventoso, ma ho scoperto che volevo amore reciproco».
L'Eduard Limonov de «Grande Ospizio Occidentale» incarna, senza dubbio, lo spirito di Patrick McMurphy, protagonista del bellissimo romanzo di Ken Kesey, «Qualcuno volò sul nido del cuculo», interpretato sul grande schermo da Jack Nicholson, nel capolavoro di Milos Forman del 1975.
In «Qualcuno volò sul nido del cuculo» c'era la tirannica Grande Infermiera, sempre pronta a sedare gli Agitati del reparto. Sempre pronta a garantire ordine e lo svolgimento di una routine ammorbante impeccabile, in un ambiente apparentemente confortevole.
Ma sarà il delinquente Patrick McMurphy, già condannato per aggressione e gioco d'azzardo, a rompere le regole del gioco e la routine, sovvertendo gli equilibri del reparto dell'istituto psichiatrico, controllato dalla Grande Infermiera.
Il «Grande Ospizio Occidentale» denunciato da Limonov altro non è che il peggiore degli inferni possibili. Ovvero la nostra società Occidentale, liberal capitalista, che Limonov osserva e ha osservato sin dagli Anni '70, quando si fece espellere dall'URSS e approdò negli Stati Uniti d'America, per vivere inizialmente da senzatetto, poi da sarto, da maggiordomo di un milionario e, pian piano, iniziare le sue prime collaborazioni giornalistiche e letterarie.
E, successivamente, negli Anni '80, ormai scrittore famoso, approdò in quella Francia nella quale pubblicherà, per la prima volta e fra molte difficoltà, nel 1993 — per le edizioni «Belles Lettres» — questo suo agile saggio critico — scritto alla fine degli Anni '80 — ripubblicato prima da Bartillat (nel 2016) e, in questi ultimi mesi, da Bietti, a cura di Andrea Lombardi e con introduzione di Alain De Benoist.
L'Ospizio di Limonov, altro non è che una società sorvegliata dall'Amministrazione, che garantisce ai Malati (i cittadini) ogni tipo di piacere e comfort, utilizzando così quella violenza soft — attraverso l'esaltazione di un Popolo senza opinioni, amante del progresso e del piacere illimitato — che lo stesso Hitler uzilizzò contro i tedeschi della sua epoca, mascherando così tutto l'orrore autentico del Regime.
Un Ospizio nel quale tutto è permesso, ovvero niente è davvero permesso, come affermava Pasolini. In cui i media e i giornali permettono «libertà di parola», ma effettivo spazio lo trovano solo coloro i quali hanno i mezzi finanziari per poter raggiungere le masse. Oppure, venendo alla nostra epoca dei «social», tutti possono scrivere contro l'Amministrazione dell'Ospizio, ma questo non smuoverà la situazione di una virgola.
Come fa presente De Benoist nella sua introduzione, ricordando il dissidente russo Solzenicyn quando tenne una lezione agli studenti di Harvard:
«Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla»
(e ciò mi ricorda una frase del leader repubblicano mazziniano e ex Ministro della Difesa italiano Randolfo Pacciardi:
«Dicono abbiamo la libertà. Quale libertà? La libertà di una protesta inutile come faccio io oggi».
Nell'Ospizio denunciato da Limonov l'uomo è svirilizzato, addomesticato dalla pubblicità commerciale, dalla televisione, dalla musica pop, dai reality show (denunciati già nel 1988-89 da Limonov!).
Egli è coccolato in modo che non si ribelli mai e poi mai, se non a parole. In questo senso, coloro i quali Limonov definisce Agitati (ovvero l'opposto dei Malati), quali ad esempio il leader socialista libico Gheddafi (che Limonov paragona al nostro Giuseppe Garibaldi e all'eroe latinoamericano Simon Bolivar, altri Agitati da sedare e combattere, secondo le regole dell'Ospizio), vanno vilipesi e bollati come criminali, terroristi, selvaggi, barbari e chi più ne ha più ne metta.
E ciò attraverso un sistematico revisionismo che, infatti e non a caso, in particolare negli ultimi decenni — grazie a una pessima storiografia revisionista — vede trattato l'Eroe dei Due Mondi Giuseppe Garibaldi come un «mercenario», un «ladro» o un «terrorista».
Persino il sistema del voto elettorale, secondo Limonov, è inutile. Ovvero non è altro che una legittimazione dell'Amministrazione dell'Ospizio, la quale propone candidati incolore, de-ideologizzati, nessuno dei quali vuole davvero cambiare alla radice il sistema.
«La maggioranza dei cittadini non ha un'opinione, per mancanza di voglia e incapacità»
— scrive Limonov —
«Vota in funzione di opinioni prefabbricate, elaborate dall'Amministrazione e suggerite dai media».
E, spesso, ne consegue, che la gran parte dei Malati-elettori abbia persino rinunciato ad andare a votare (Limonov riporta, in merito, i dati elettorali di Francia e USA alla fine degli Anni '80, epoca in cui ha scritto il suo saggio, rilevando come in Francia votasse la metà degli aventi diritto al voto, mentre negli USA gli elettori effettivi fossero addirittura una minoranza).
«E' illogico»
— prosegue Limonov —
«far eleggere i dirigenti dell'Ospizio a un Popolo così influenzabile: non è lo stesso Popolo, d'altronde, che il 30 gennaio 1933 ha dato il potere, con elezioni «libere e democratiche», a un certo leader tedesco?».
Sottolineando, dunque, come l'elettoralismo possa addirittura portare al potere — con il voto «democratico» (si fa per dire) — i peggiori dittatori.
Eduard Limonov punta inoltre il dito contro l'uomo bianco, borghese, ricco e «civlizzato», il quale
«è convinto di poter capire qualsiasi conflitto sul pianeta dopo aver dato una rapida occhiata alla televisione o leggiucchiato un paio di trafiletti su qualche giornale. Non è cosciente delle conseguenze negative del proprio intervento nella vita dell'Africa, del fatto che la civiltà europea non è estranea alla moltiplicazione delle Vittime».
Quanta attualità!
E, con ciò, Limonov sottolinea come l'Amministrazione dell'Ospizio, attraverso i media, si ponga sempre dalla parte delle Vittime…ma solo se non provengono da Africa, America Latina e Asia, ovvero quelle realtà che non fanno parte dell'Ospizio.
Le realtà estranee all'Ospizio, infatti, secondo Limonov, hanno mantenuto il loro senso comunitario, aracico, ribelle, agitato, estraneo all'ammorbamento prodotto dal benessere materiale, dalla tecnologia, da un lavoro alienante che costringe le persone (i Malati dell'Ospizio) — dalla culla alla casa di riposo — a produrre sempre di più, distruggendo così sempre più risorse naturali e l'ambiente.
L'Ospizio, secondo Limonov, in nome dell'ideologia del progresso e della prosperità, ha veicolato un piacere effimero, che ha annientato — negli esseri umani che ne fanno parte — ogni senso di sofferenza e dolore. Condizioni necessarie, all'essere umano, per crescere, emanciparsi ed essere realmente felice, in quanto realmente artefice del proprio destino, attraverso il superamento degli ostacoli e delle difficoltà che la vita e la Natura che lo circonda gli offre.
La società dell'Ospizio è, invece, infantile e adolescenziale. E, nel suo imporre a tutti i Malati di essere eternamente giovani, belli, occupati e benestanti, si è dimenticata dell'ecosistema e della Natura che, se provocata, può fare davvero paura (e lo stiamo notando oggi, fra pandemie e eventi climatici estremi!).
Limonov, in conclusione, sostiene che
«bisognerebbe innanzitutto distruggere l'Ospizio e le sue leggi. Solo misure radicali, estreme, potranno fermare la distruzione del pianeta: l'arresto completo del progresso criminale, lo sradicamento del «modo di vivere industriale» e la sua sostituzione con un altro».
Altro che «sviluppo sostenibile»! Altro che «case green»! A questi palliativi inutili, Limonov contrappone l'uscita dal sistema tecnologico-industriale e un ritorno dell'essere umano a uno stato pre-industriale. Autenticamente libero e selvaggio. Padrone del proprio destino e non più allevato come un «animale in batteria» e trattato come una «risorsa umana» da spendere e macinare nell'ingranaggio del vivi-consuma-produci-crepa.
Il «Grande Ospizio Occidentale» di Eduard Limonov è saggio sociologico e psicologico affascinante, scritto da un personaggio affascinante.
Un dissidente, tanto ad Ovest quando nella sua Russia, ove fondò, assieme a giovani e artisti (fra i quali il cantante rock Egor Letov, che fu entusiasta di questo saggio) il Partito NazionalBolscevico, primo partito ad essere messo al bando in Russia — nel 2007 — che ricevette il plauso persino della giornalista Anna Politkovskaja e che, rinato nel 2010 con la denominazione «L'Altra Russia» (e, dal 2020, dopo la morte di Limonov, «L'Altra Russia di Eduard Limonov»), ancora oggi viene perseguitato.
Eduard Limonov, questo signore che avrebbe oggi 80 anni, ha profetizzato tutto. Tanto i conflitti ad Est attuali (nel 1992 denunciò i nazionalismi russofobi delle ex repubbliche sovietiche, ormai diventate capitaliste), che la situazione sociale e psicologica dell'Occidente-Ospizio.
Patrick McMurphy — l'Agitato de «Qualcuno volò sul nido del cuculo» — per essere definitivamente sedato, viene lobotomizzato per ordine della Grande Infermiera. Eduard Limonov morì, nel 2020, a 77 anni, dopo aver lottato per anni contro un tumore al cervello.
Il Grande Ospizio Occidentale (che, per ammissione di Limonov, ha ormai conquistato anche Russia e Cina), può sedare e tentare di annientare in ogni modo gli Agitati, ma questi continuaranno sempre e comunque ad esistere e le loro opere saranno ancora lette e conosciute, anche se, magari, da quei pochissimi che avranno la voglia e pazienza di approfondire.
«Amore e libertà» (amoreeliberta.blogspot.com), 18 agosto 2023
Torna il mito dello Stato interventista che piace tanto alla sinistra ma anche alla Destra sociale.
Tra le categorie politiche più suggestive e al tempo stesso difficilmente realizzabili quando dalla teoria si passa alla pratica c'è senza dubbio quella del rossobrunismo. Complesso dare una definizione precisa del concetto di rossobruni, di certo si tratta di una convergenza tra mondi all'apparenza distanti e antitetici come destra e sinistra che, teorizzato un superamento delle tradizionali categorie, si ritrovano su un terreno comune. La critica al capitalismo e alla globalizzazione rappresentano due elementi cardine dei rossobruni intesi come chi manifesta simpatie verso idee e personalità apparentemente distanti dalla propria radice ideologica. Tra le figure più note e considerate un riferimento dai rossobruni ci sono Eduard Limonov e Alain De Benoist che teorizza un superamento dei concetti di destra e sinistra con l'unione delle forze populiste contro le élite. Guillaume Faye ideò il Gruppo di Ricerca e Studio per la Civiltà Europea (G.R.E.C.E.) teorizzando un «gramscismo di destra» e la necessità di nuove categorie: «la nostra società non è più ispirata dal rinnovamento della sua ideologia. Questa ideologia è oggi al suo culmine e quindi all'inizio del tramonto, le idee morte sono diventate canoni morali, sistemi di abitudini, tabù ideologici, che non entusiasmano più». Proprio in Francia alle presidenziali del 2017 Marine Le Pen chiese ai sostenitori di Mélenchon di votarla per contrastare gli europeisti di Macron.
Se non tutti i tentativi di una visione comune tra destra e sinistra si possono ascrivere alla categoria di rossobrunismo che ha proprie specificità, va detto che la storia della destra italiana è costellata da «sfondamenti a sinistra», in particolare sui temi sociali ed economici.
Il caso più celebre rimane senza dubbio quello di Pino Rauti che teorizzò lo sfondamento a sinistra del Msi venendo eletto segretario del partito nel 1990 a capo della corrente Andare oltre e cancellando la dicitura «destra nazionale» cara ad Almirante. Si tratta di una convergenza non solo sui temi economici ma anche in politica estera dove l'antiamericanismo ha rappresentato un collante duro a morire.
La crisi della sinistra con l'abbandono di alcune sue istanze tradizionali, non significa che la destra debba appiattirsi su posizioni che escludono sensibilità liberali e conservatrici. Un ragionamento che vale in modo speculare anche per la sinistra come testimonia il libro dell'ex leader del partito tedesco Die Linke Sahra Wagenknecht intitolato Contro la sinistra neoliberale in cui l'autrice se la prende contro una «sinistra alla moda» ispirata «ai dogmi del cosmopolitismo, del globalismo, dell'europeismo, del multiculturalismo, dell'ambientalismo, dell'identitarismo e del politicamente corretto». Non è un caso che, secondo un recente sondaggio, in Germania un ipotetico nuovo partito guidato dalla Wagenknecht potrebbe superare il 10% intercettando numerosi voti non solo da Die Linke ma anche dall'Afd, partito considerato di estrema destra ma con una forte vocazione sociale sui temi economici.
Si tratterebbe dell'ennesima conferma di una tendenza che ha avuto un'accelerazione dopo la grande crisi del 2008 e in particolare dal 2011 con un progressivo avvicinamento tra istanze tradizionalmente di sinistra e altre più vicine alle destra. La critica alla globalizzazione, il fallimento delle delocalizzazioni, la crisi dell'industria in Occidente con la perdita di milioni di posti di lavoro, hanno portato a vedere nello Stato la panacea di tutti i mali favorendo un modello sempre più interventista del pubblico. Se ciò può andar bene nei settori strategici come le forze armate, la difesa dei confini, la salvaguardia dei settori strategici, diventa problematico quando lo Stato interviene colpendo le libertà individuali (periodo del Covid docet), limitando il libero mercato (cosa diversa da regolamentare) o introducendo nuove tasse.
La stagione sovranista ha rappresentato un esempio perfetto di superamento delle tradizionali categorie, non a caso si è parlato anche di un sovranismo di sinistra e la convergenza con forze populiste (come testimonia l'esperienza del governo giallo-verde) è stata resa possibile anche grazie a un terreno comune in vari ambiti di azione.
In verità, già nel 1994, Anthony Giddens nel suo libro Oltre la destra e la sinistra sosteneva la necessità di una politica che superi le tradizionali categorie ma, secondo il sociologo inglese, occorreva prendere dal conservatorismo filosofico alcuni principi di base (protezione, conservazione, solidarietà) mettendoli al servizio di obiettivi appartenenti al patrimonio tradizionale della sinistra: la liberazione, l'emancipazione, l'uguaglianza. Il dialogo tra destra e sinistra non è per forza qualcosa di negativo, ben venga anzi un confronto tra conservatori e progressisti, il punto è tra quale destra e quale sinistra e soprattutto a quali risultati porta.
La convergenza tra alcune misure economiche del governo spagnolo di Sanchez e quello italiano di centrodestra (per esempio la tassazione degli extraprofitti) testimoniano come oggi siamo entrati in una nuova fase di interventismo dello Stato e limitazione del mercato che accomuna le forze di sinistra con quelle di destra. Si tratta di punti di incontro che potrebbero emergere anche sul salario minimo e su misure che, in nome della giustizia sociale, si allontanano da un approccio più liberale e conservatore, lo stesso dicasi per gli investimenti pubblici in settori non strategici che stanno tornando sempre di più in auge. Il rischio di politiche economiche troppo sbilanciate verso la destra sociale è quello di discostarsi non solo da una visione liberale ma anche conservatrice di cui oggi invece c'è quanto mai bisogno.
Limonov, come Alain de Benoist scrive nell'introduzione di «Grande ospizio occidentale» (Ed. Bietti), è l'improbabile somma di Arthur Rimbaud e Jean Genet con un pizzico di Pasolini e un po' di Cèline.
Un poeta, un vagabondo, un maggiordomo, un soldato filo-serbo in Bosnia, un amante delle donne e delle risse, un agitato, per tanti una spina nel fianco del sistema per altri un grandissimo rompipalle con una visione geniale di tutta la scacchiera della società del suo tempo e di quello futuro.
Non è cosa facile inquadrare politicamente Limonov, ha praticamente trovato una buona parola per tutti, contro il «gendarme» a stelle e strisce prima e contro Gorbaciov dopo il crollo del sistema sovietico ed è proprio in questo contesto che nel 1993 mette al mondo, per la prima volta nelle terre di Francia, «Grande ospizio occidentale».
Grandi sistemi occidentali, secondo Limonov, hanno creato con il passare degli anni false illusioni attraverso un benessere di plastica, un grande ospizio gestito dalle autorità pubbliche dove i pazienti sono cittadini felici di vivere a testa bassa, bombardati quotidianamente da modelli sui cartelloni pubblicitari, dall'appiattimento mentale della TV, contenti di una instancabile violenza morbida e di una censura velata, dal retrogusto dolce ma pur sempre censura.
Applicandosi qualche minuto in più e collegando i fili culturali il russo Solženicyn (Nobel per la letteratura nel 1970) disse una frase attualissima «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla»; Aleksandr mi duole aggiornarti sulla situazione del 2023 nel versante occidentale: la musica è sempre la stessa, cambiano gli strumenti ma la sinfonia suona sempre stonata nonostante l'abuso dell'autotune.
Viviamo uno stato di violenza morbida e continua; il 5% della popolazione mondiale, quella definita da Limonov «agitata», quella che mentre il restante 95 si affaccia a vedere e giudicare la vita altrui, il mondo prova a cambiarlo davvero e non gode nemmeno più della violenza vera e propria, niente manganellate o torture, l'Ospizio opta per altri metodi: disoccupazione, crisi, benessere materiale, la vergogna di non essere mai all'altezza… la vergogna di essere poveri.
Il genietto nella sala dei bottoni dell'Ospizio sa bene quali tasti premere, rievocare drammi come quello avvenuto ad Aushwitz o riempire la TV di bambini africani con problemi legati alla carenza di cibo è un'ottima soluzione per addomesticare il cervello del paziente medio, per educarlo nel modo giusto… sei nella migliore società esistente, sorridi ingrato che non sei altro!
Trovare soluzione era cosa difficile ai tempi di Limonov figuriamoci ora, post Covid, tra paura, sottomissione e la maledetta noia di vivere, avere una soluzione più di duecento anni fa voleva dire combattere contro il male assoluto, contro l'Assolutismo oggi vorrebbe dire combattere contro il Popolo stesso… quel popolo che di sovrano non ha più davvero nulla.
Attori, fashion blogger, calciatori modelli, parrucchieri, stilisti, tutti padri di mode utili all'Ospizio, mode e apparenze nate dove il rischio di agitazione culturale è minimo, a tratti nullo ma d'altronde come lo stesso autore afferma il «look è la miserabile rivincita dell'uomo contemporaneo sulla storia».
Agitati veri la storia ne ha forniti all'umanità, negli ultimi tempi fiori nei paesi lontani dall'Ospizio, basti pensare all'ex presidente dello Zambia, Kenneth Kaunda capace di alzare voce e testa all'Europa rifiutandosi di far diventare la sua nazione un enorme discarica con un sano «Meglio poveri, ma vivi!»
Rimanendo nei paesi poco vicini a quello che dalle nostre parti chiamiamo progresso, un esempio di ribellione all'Ospizio è quello dello stato canaglia per eccellenza, l'Iran capace di instaurare la repubblica islamica, regime non congeniale a nessun tipo d'Ospizio occidentale o orientale che sia.
Oggi trovare agitati, o eroi è cosa ardua; nei tempi andati, il mito del superuomo veniva incarnato da un essere capace di oltrepassare i propri simili per forza fisica, intelligenza o coraggio quindi figlio di uno stato di disuguaglianza voluto per natura, cresciuto in società capaci di stimolare e premiare il disequilibrio umano e non appiattirlo con stereotipi.
Ma ad oggi, per l'Ospizio, chi è il vero eroe?
Astemio dall'aggressività, amante assoluto del triangolo formazione-lavoro-pensione e poiché le uniche qualità premiate dal sistema vigente sono quelle legate alla becera produzione l'eroe è uno stakanovista in continua ricerca di consenso dall'alto…nasci, produci, consuma, muori.
Eludere la morte è l'altro grande progetto dell'homo hospitius; relegata in cimiteri o crematori sempre più remoti, nascosta dietro i volti delle star ai funerali di qualche celebrità oppure schernita in TV dai finti cadaveri nei film per il semplice gusto di sollecitare le pupille… in tutti i casi elencati si è riusciti a svalutare anche la Vecchia Signora.
Sicuramente il libro di Limonov è stata un'opera gradita all'epoca ma, a quasi dieci anni di distanza, possiamo dire altrettanto profetica, di positivo c'era poco nel 1993 ancor meno nel 2023.
Tra i testi più irrequieti del Novecento, «Le Grand Hospice Occidental» è qualcosa di cui l'Ospizio non aveva bisogno ma opera di riflessione per le menti agitate, al 95% non si può che augurare buon riposo.
Come muore una civiltà? In quale momento cessa di produrre forme ed esce dalla Storia? Nel monumentale «Il tramonto dell'Occidente», citato da molti ma letto da pochissimi, Oswald Spengler ha le idee piuttosto chiare. Ogni cultura si articola infatti in due fasi: la prima è la «civiltà», cui segue la «civilizzazione». Una è organica, orientata verso l'alto, gerarchica e differenziata; l'altra è inorganica, livellatrice, nemica delle differenze, egualitaria e meccanica. È nel passaggio tra le due fasi che la «personalità» di una civiltà incontra una battuta d'arresto. Nei decenni successivi, il testo di Spengler ha fatto scuola, dando vita a riprese e variazioni sul tema. Impossibile quantificarle, ma un paio di esempi possiamo farli: a parte il libro di Huntington «Lo scontro delle civiltà e la nuova costruzione dell'ordine mondiale», del 1996, contrapposto alla sepolcrale «fine della storia» di Francis Fukuyama, un'interpretazione molto interessante risale a quindici anni prima. Esce dalla penna dell'«elettrone libero» Guillaume Faye ne «Il sistema per uccidere i popoli», di recente ripubblicato da «Aga», il cui senso è tutto racchiuso nel titolo: secondo il brillante teorico dell'archeofuturismo, la «civilizzazione» evocata da Spengler a modo suo è ancora «viva», pensata a partire da ciò che è organico, anche se ex negativo. L'Occidente attuale è qualcosa di ben diverso: un sistema tentacolare e meccanico, nemico dei popoli, della Storia e delle tradizioni. Se un tempo era possibile decapitare un sovrano e contemporaneamente uno Stato, il mondo del «sistema», idra dalle mille teste, è retto da burocrati intercambiabili, pedine impersonali di un meccanismo mortifero.
Ecco, è un'immagine del genere ad affacciarsi in una recente pubblicazione, firmata da un peso massimo del pensiero non-conformista degli ultimi tempi. Stiamo parlando di «Grande ospizio occidentale» di Eduard Limonov, appena uscito per «Bietti» nella curatela di Andrea Lombardi. È forse il testo più metapolitico dell'autore immortalato nel libro di Emmanuel Carrère (che, per la cronaca, il dissidente russo ha sempre detestato cordialmente), risalente al tempo del suo tormentato sodalizio con Aleksandr Dugin, conclusosi con una violenta rottura tutta implicita nelle premesse. Il punk contro il filosofo, il fanatico dei Sex Pistols contro lo studioso di alchimia… I loro geni, combinati, diedero vita al Movimento Nazional-Bolscevico, la cui storia attende ancora di essere raccontata nel nostro Paese, opera di due temperamenti affini ma irrimediabilmente diversi. Ebbene, quell'esperienza ha generato due libri altrettanto complementari, entrambi usciti anche in Italia: «I templari del proletariato» di Dugin («Aga», 2021) e, appunto, «Grande ospizio occidentale» dell'amico-nemico Limonov (testo che arruolò tra i «nazbol» il terzo moschettiere, Egor Letov, leader dei «Graždanskaja Oborona», insieme a centinaia di fan del suo gruppo).
Il libro esce alla fine degli anni Ottanta, mentre la storia disintegra il bipolarismo della Guerra Fredda, intercettando tutta una serie di tendenze allora presenti in forma aurorale e oggi del tutto dispiegate. È una delle ragioni per rileggere autori del genere, la cui penna, non ancora viziata dallo spirito dei tempi, riusciva a percepire l'estraneità di correnti analoghe, manifestando salutari contrappesi esistenziali e ideali impossibili anche solo da immaginare in momenti successivi. Certo è che, come scrive Alain de Benoist nella sua introduzione all'edizione italiana, «se allora avesse potuto vedere i deliri a cui hanno portato oggi la teoria del gender, la cancel culture e il wokismo, probabilmente avrebbe scritto che l'intero Occidente è diventato una sorta di ospedale psichiatrico».
Arriviamo così al cuore del libro. Può esserci qualcosa di peggio, si chiede Limonov, della violenza di Stato che nel XX secolo ha mietuto milioni e milioni di vittime? La risposta è affermativa. Più liberticida del cappio totalitario è l'oppressione soft esercitata dai regimi liberisti odierni. Questi non trattano i propri sottoposti come sudditi o schiavi, ma come pazienti bisognosi di cure, rieducabili a piacimento. Più che caserme sono ospedali — Ospizi, appunto — dove regna una mortale tranquillità, basata sulla sistematica repressione di ogni dissenso. Un gigantesco esperimento di ingegneria sociale, attuato su scala planetaria con il consenso dei «malati». Sono obitori dello spirito, buonisti e revisionisti: «Un regime morbido non sa che farsene di uniformi nere, manganelli e tortura. Ha un arsenale diverso: la falsa idea del benessere materiale, la minaccia della disoccupazione e della crisi, il timore e la vergogna di essere più poveri — e, quindi, meno buoni — dei propri vicini». Il modello non è una cella d'isolamento presidiata da sadici secondini, ma un ospedale pieno di amorevoli infermieri — quanto al tipo umano che vi si alleva, non è un prigioniero ma un malato docile, che va difeso anzitutto da sé stesso nel corso di quella che si rivela essere una vita a credito condita da sonniferi e tranquillanti. Uno scenario simile a quello del celeberrimo «Qualcuno volò sul nido del cuculo», del 1975.
La violenza proveniente dal passato o dai territori esterni all'Ospizio, mostrata di continuo, colpisce il paziente con un unico scopo: anestetizzarne la facoltà critica, persuaderlo che quello in cui vive è il migliore dei mondi possibili. Ah, quindi contestate l'Ospizio? Volete che ritornino i gulag? O i lager? E la fame in Africa? Le guerre civili? Guardate cosa accade quando i malati smettono di dirsi tali… Anestetizzate dai media, matematizzate dai talk-show e aggregate in percentuali, le masse inebetite partecipano volentieri alla propria stessa oppressione. Non sono più schiacciate da Regimi o Partiti Unici, scomparsi solo e soltanto perché ormai superflui. Se non c'è un poliziotto a controllarti, sembra suggerirci Limonov, è perché il poliziotto sei tu.
Il modello dell'Ospizio trascende l'opposizione Est-Ovest, manifestandosi come un nuovo stile, trasversale e onnipervasivo, imposto su scala planetaria. Inutile architettare piani di fuga: se da una prigione è possibile evadere, si esce da un ospizio solo per entrare in un altro. America o Russia, poco cambia. Impossibile non ricordare quanto disse Solgenitsin agli studenti di Harward: «Vengo da un Paese in cui non si poteva dire nulla, e scopro un mondo in cui si può dire tutto senza che ciò serva a nulla».
Il mondo dell'Ospizio ha inoltre il fastidioso vizio di irregimentare qualsiasi cosa: movimenti antagonisti, detti e contraddetti, tesi e antitesi… È molto probabile che se a una determinata corrente, per quanto bislacca e singolare, viene dato spazio, ciò derivi dal suo aderire e confermare i Diktat dell'Ospizio — magari ad insaputa dei suoi stessi sostenitori. E che quindi i «contestatori in prima serata» siano solo le truppe di rincalzo dell'Ospizio stesso, buoni a puntellarlo in caso di una crisi del consenso. E non è tutto: avendo un'Amministrazione incarnata non più da tetragoni dittatori, ma da creativi e sbarazzini manager, l'Ospizio ama piegare le minoranze e le «controculture» alla propria causa.
«La violenza non ricorre più a manganellate o uniformi nere, ma indossa i panni di un simpatico ometto con gli occhiali. Costui potrà anche unirsi al coro dei giovani che canticchiano «Revolution» o «I shot the sheriff» di Bob Marley».
Il problema, però, è che allo sceriffo poi nessuno spara. E se è vero che la Rivoluzione non è un pranzo di gala, non è nemmeno una jam session.
Gli spauracchi dei Malati e dell'Amministrazione sono gli Agitati, quelli che non vogliono saperne di allinearsi agli altri pazienti divorati dalle tasse, dalle rate della macchina o della casa, da mogli e amanti. Si alzano e girano per le corsie, immaginando un mondo diverso. Alcuni — i casi più gravi — sostengono di non essere nemmeno malati. Vogliono uscire. Ma per andare dove?
Un tempo repressi brutalmente, nell'Ospizio subiscono un trattamento un po' diverso. Vengono isolati, criminalizzati oppure esposti al pubblico ludibrio di fronte agli altri Malati. Spesso non fanno una bella fine: Che Guevara, Pasolini, Mishima, Gheddafi, Baader-Meinhof… L'obiettivo finale è spingerli all'autoisolamento, inquinare il loro stesso immaginario, spingerli a una vergognosa resa di fronte a loro stessi, fare del loro slancio un male incurabile. Non è escluso che «I parassiti della mente» di Colin Wilson, nonché il suo «Outsider», più che geniali romanzi siano anticipazioni della mortifera calma dell'Ospizio. Il punto, secondo Limonov, è che il Malato Agitato, accolto tra lo sdegno e la compassione, è l'ultimo avatar di ciò che un tempo fu chiamato «eroismo». «Da decenni gli eroi sono tanto rari quanto un lupo in una foresta dei Vosgi. Mentre viene imposto un concetto di vita «prospera» per il maggior numero possibile di esseri umani, i Malati e l'Amministrazione si mettono a eliminare sistematicamente i Malati Agitati, ossia gli eroi».
Non ancora rieducato ai vangeli democratico-progressisti, l'Agitato non riesce a tollerare cose come i «diritti dell'uomo», né un egualitarismo che nasconde una generale sottomissione, il mostruoso culto del Popolo, l'ipnosi collettiva esercitata dalla televisione (chissà cosa avrebbe detto vedendo smartphone e affini), il culto delle vittime, un continuo revisionismo storico, la venerazione dei vinti sui vincitori… Sarebbe sempre bene tenere in tasca libri del genere per difendersi dal Malato che è in noi. O dallo sceriffo, se preferite. Lo sceriffo che potremmo essere, nel peggiore degli inferni possibili. E, per la cronaca, «Grande ospizio occidentale» — insieme a tutti gli altri libri di Limonov — oggi è vietato sia in Russia sia in Ucraina.
Il panorama letterario nazionale, da decenni, registra il successo di autori e testi sintonici all' «intellettualmente corretto». Rari sono stati i casi di scrittori e pensatori che sono riusciti ad affermarsi con opere chiaramente dissidenti nei confronti della cultura mainstream. Questa volta, crediamo riuscirà nell'intento Eduard Limonov con un libro pubblicato da Bietti, «Grande ospizio occidentale», per la cura di Andrea Lombardi (pp. 233, euro 21,00). Si tratta di pagine che, tanto sotto il profilo letterario, quanto dal punto di vista dei contenuti, trasudano potenza. La prosa di Limonov è caustica, sferzante nei confronti degli idola del presente post-moderno, ma accattivante, atta a coinvolgere il lettore. Il volume si legge d'un fiato. Ma chi era Limonov, deceduto per cancro, nel 2020, nel bel mezzo delle restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19? Lo chiarisce, nell' introduzione, il filosofo Alain de Benoist:
«Poeta e teppista, vagabondo e maggiordomo, miliziano filo-serbo durante la guerra in Bosnia 〈…〉 oppositore nel cuore, pazzo della letteratura, amante delle donne e delle risse, oppositore e poi sostenitore di Putin» (p. 11).
Limonov, al crollo dell'URSS, fondò con Dugin (i destini dei due avrebbero in seguito preso strade diverse) il Partito Nazional-Bolscevico. Nato in Russia, ma vissuto a lungo in Ucraina, lo scrittore conosceva profondamente la realtà del mondo occidentale, avendo a lungo abitato a New York e, a partire dall'inizio degli anni Ottanta, a Parigi. La biografia romanzata a lui dedicata da Emmanuel Carrère, pubblicata in Italia da Adelphi, lo ha, qualche anno fa, portato alla ribalta della cronaca. L'edizione italiana di «Grande ospizio occidentale» è la traduzione dell'edizione francese del 2016. In realtà, il volume fu scritto da Limonov, tra il 1988 e il 1989. La tesi centrale è esemplificata dal titolo. Vivere nelle società occidentali (si badi, per Limonov al loro novero appartengono anche la Russia e la Cina), è come soggiornare in una RSA. L'Occidente è un ricovero per anziani «malati», ridotti in stato pre-comatoso dal capitalismo cognitivo (per lo scrittore, la Francia della fine degli anni Ottanta, ne è stata paradigma esemplare), che hanno perso da tempo lo slancio faustiano, l'energia vitale che permise loro di proporsi al mondo quali creatori di civiltà:
«Un ospizio gestito dalle autorità pubbliche (qui chiamate «amministratori») e popolato da pazienti che vivono sotto sedativi» (p. 13).
Tutto è senescente, deprivato di vera vita.
Limonov muove dalle pagine di «1984» di Orwell, opera letta non quale profezia politica, ma in termini di semplice registrazione e descrizione della violenza esplicita di cui si servirono i totalitarismi del Novecento per opprimere o eliminare le minoranze dissidenti. Al contrario, il potere che viene esercitato dagli «amministratori» nell' Ospizio ha tratto soft: muove dal controllo psicologico-immaginale delle masse, ed è ancor più pervasivo e pericoloso del potere totalitario del passato. Infatti:
«oggi 〈…〉 la tv controlla la popolazione. Ma lo fa attraverso ciò che mostra, non osservandola» (p. 23).
La violenza morbida si basa sullo sfruttamento delle debolezze degli asserviti che vengono spinti a considerare, quale unico orizzonte esistenziale possibile, il conseguimento del benessere materiale fine a se stesso. Le masse contemporanee sono indotte a pensare alla povertà come qualcosa di disdicevole, hanno il terrore della crisi economica, prospettata come incombente e della conseguente disoccupazione. L'abitante dell'Ospizio:
«Sbigottito dai giocolieri dei tassi, al rullo di tamburi della statistica, 〈…〉 immerso nel brusio di una musica pop sempre più volgare 〈…〉 l'abitante 〈…〉 delle prospere città industrializzate compie una corsa accelerata dalla nascita alla pensione» (p. 28).
Questa umanità dimidiata ha terrore della libertà, delle scelte individuali e divergenti, del pensiero critico. Del resto, il precetto principe vigente nell'Ospizio, individua nell'«Agitato», un soggetto estremamente pericoloso, da marginalizzare e isolare.
Per sedare le masse e costringerle all'abbraccio inestricabile alla mera realtà materiale del mondo, si ricorda loro, sovente, l'esito che ebbe è potrà avere, il pensiero degli «Agitati». In questo senso le immagini di Auschwitz o del Gulag svolgono un ruolo «educativo» e sedativo, oppure si utilizzano allo scopo quelle che provengono dagli «esterni» all'Ospizio, dal Terzo Mondo in cui si muore di fame. Il malato modello è colui che aderisce pienamente alla «vita assicurata» che l'Ospizio dispensa con generosità. Tra gli «Agitati», i più pericolosi sono da individuarsi in coloro che, in un mondo che ha di fatto obliato il senso della virilità e del rischio, del dispendio, tornano a guardare all'Eroe quale figura di riferimento per un futuro possibile. Le loro ambizioni sono stroncate sul nascere: a ciò provvede il revisionismo storico, che mette in atto, nei confronti di «Agitati» emergenti, la consueta reductio ad Hitlerum. Nuovo modello antropologico è, al contrario, da individuarsi nella Vittima. Nell'Ospizio vive a proprio agio l'«ultimo uomo» nietzschiano, la cui vita si sostanzia di «mezze passioni del giorno e di mezze passioni della notte». Un uomo che ha obliato il senso del destino.
Sue uniche preoccupazioni sono la ricerca del piacere, sempre più degradato, e della prosperità, per conseguire le quali si è dato luogo alla devastazione della natura. Egli vive un'eterna adolescenza ludica:
«Indossando colori puerili e sgargianti, come fosse un pagliaccio, l'homo hospitius trasforma la propria esistenza in un fotoromanzo» (p. 153).
Un fotoromanzo posto sotto tutela dalle percentuali, dalla società digitalizzata, da coloro che creano l'informazione propinata al Popolo, sorta di divinità solo a parole intoccabile, ma di fatto violata ogni giorno nella sua dignità. Un dogma vige su tutti:
«Mai e poi mai disturbare la pace del mondo televisivo, specchio dell'immacolata armonia dell'Ospizio» (p. 171).
La musica pop divenuta must concorre a distrarre i giovani:
«dal loro compito ancestrale, un istinto puramente biologico che li spinge a strappare il potere ai vecchi» (p. 179),
così come il sesso «libero» che:
«toglie energia a una pulsione 〈…〉 intrinsecamente più forte, l'istinto alla dominazione» (p. 188).
Limonov ritiene che, per uscire dalla stagnazione in cui versa l'Ospizio, sia necessario riaprire le porte alla vita, alle passioni, al dolore, alla natura. Recuperare senso e significato dello spendersi per se stessi e per la comunità. Felice, dunque, è solo il mondo capace di onorare gli Eroi!
Chi era Ėduard Limonov? Scrittore ribelle e attivista politico controverso. La conoscenza delle opinioni e della vita di questo poeta e romanziere russo può avere un'importanza non trascurabile nella comprensione di alcuni fenomeni della nostra epoca.
L'articolo propone un'analisi delle origini di Ėduard Limonov come scrittore ribelle e attivista politico controverso. La conoscenza delle opinioni e della vita di questo poeta e romanziere russo può avere un'importanza non trascurabile nella comprensione di alcuni fenomeni della nostra epoca.
«Vivere senza essere amati da nessuno», scriveva Elsa Morante (1912–1985) in «Aracoeli» (1982), è «la più nera infelicità terrestre».
Nello stesso romanzo, l'autrice meditava:
Nella fanciullezza, però, ogni esperienza, per quanto nera, si lascia credere transitoria. E nessuna fanciullezza darebbe fede a un oroscopo che le dicesse: la tua sorte costante e definitiva sarà di vivere senza l'amore. Forse non è l'amore un elemento naturale della sostanza vivente? Gratuito? Ovunque distribuito, e necessario? Non è, insieme alla morte, promesso dalla nascita a tutti gli animali, compresi quelli brutti?
Molti giovani, oggi, pensano l'esatto contrario, e si ritengono condannati a una solitudine eterna. La rivoluzione sessuale del '68, che si presentò come un sovvertimento volto a rendere i giovani del mondo «soggetti sociali», e si manifestò sotto le apparenze di una massa colorata e varia, unita solo dal comune principio di contestazione dell'autorità, nacque negli Stati Uniti a metà degli anni Sessanta e si diffuse in Europa raggiungendo il suo apice col Maggio francese. Da allora la rivoluzione dei costumi è stata continua e progressiva, una serie di moti ideologici i cui effetti sono emersi nel corso dei decenni.
Nei fatti, alcuni critici della modernità osservano che al sesso è stata data una rilevanza mai avuta prima: è avvenuta una sessualizzazione di ogni ambito della vita, ma ad essa non è corrisposto un aumento dei rapporti sessuali, con la conseguente crescita del senso di frustrazione e di rabbia che si riscontra in una preoccupate fascia di giovani maschi insoddisfatti.
Il cambiamento sociale che ha investito il blocco occidentale dalla fine della Seconda guerra mondiale è stato in massima parte l'esportazione del cosiddetto «sogno americano»: la promessa della realizzazione del singolo attraverso traguardi e glorie strabilianti, trionfi lavorativi, sportivi, ma anche sessuali che il cinema a stelle e strisce ha propinato come mete di una vita soddisfacente e degna di essere vissuta. La sessualizzazione delle masse è stata ed è ancora un'occasione eccezionale per il capitalismo che, sempre a giudizio dei critici della rivoluzione, è infine il vero agitatore e l'origine della rivoluzione sessuale.
L'esposizione a richiami sessuali continua ad aumentare, ma non soddisfa in tutti il bisogno che essa stessa crea. Le radici del sogno americano affondano anche nel calvinismo: il successo nella vita ruota attorno a una visione del mondo in cui gli esseri umani sono divisi in dannati e salvati, poiché i segni della salvezza o della dannazione si riconoscono nel successo degli uomini nelle loro vite.
Nel suo romanzo «Estensione del dominio della lotta» (1994), Houellebecq introduce questa osservazione:
Come il liberalismo economico incontrollato, e per ragioni analoghe, così il liberalismo sessuale produce fenomeni di depauperamento assoluto. Taluni fanno l'amore ogni giorno; altri lo fanno cinque o sei volte in tutta la vita, oppure mai. Taluni fanno l'amore con decine di donne; altri con nessuna. È ciò che viene chiamato «legge del mercato». In un sistema economico dove il licenziamento sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare un posto. In un sistema sessuale dove l'adulterio sia proibito, tutti riescono più o meno a trovare il proprio compagno di talamo. In situazione economica perfettamente liberale, c'è chi accumula fortune considerevoli; altri marciscono nella disoccupazione e nella miseria. In situazione sessuale perfettamente liberale, c'è chi ha una vita erotica varia ed eccitante; altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine. Il liberalismo economico è l'estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società. Altrettanto, il liberalismo sessuale è l'estensione del dominio della lotta, la sua estensione a tutte le età della vita e a tutte le classi della società.
Per comprendere Ėduard Veniaminovič Savenko (1943–2020), in arte Ėduard Limonov, come scrittore e poeta bisogna partire da questo genere di riflessioni.
Chi era Ėduard Limonov
Ėduard Limonov nacque nella città russa di Dzeržinsk nel 1943, poi la sua famiglia si trasferì a Charkiv. Nel 1967, diventato un ragazzaccio turbolento con aspirazioni letterarie, arrivò a Mosca, ma non la trovò congeniale ai suoi desideri: così nel 1974 andò a vivere a New York. Sin da giovanissimo Limonov aveva un pensiero fisso: il sogno della gloria come artista e l'appagamento del suo appetito sessuale, che in lui tendevano a fondersi in un ideale di bella vita.
Fuggì negli Stati Uniti perché il mito statunitense aveva attecchito in lui; la propaganda capitalista era già penetrata nell'Unione Sovietica, diffondendo l'immagine del socialismo come sistema antimeritocratico e socializzazione della miseria.
Forse anche Limonov da ragazzo credeva che lo stato sovietico «fingesse» di pagare decentemente i lavoratori e che quindi fosse giusto fingere di lavorare o darsi direttamente al teppismo, come fece lui.
In America Eduard si svegliò poi sudato dal sogno statunitense: nessun successo immediato, niente belle donne per chi non è ricco… e così meditò la sua vendetta trasformandosi in una tarma che rode le travi del cosiddetto Occidente liberale e progressista. Tra sé meditava:
I progressisti si pavoneggiano come difensori degli ultimi, ma in realtà gli piacciono i vincenti: per questo perderanno, travolti dalla rivolta dei falliti.
Da qui la sua decisione di mettersi alla testa dell'esercito dei falliti del mondo per arrivare alla sua personale realizzazione artistica e politica, un ruolo di agitatore da svolgere a fini opportunistici, ma connaturato alla sua concezione della vita come lotta per sopravvivere (lezione appresa soprattutto durante il suo soggiorno newyorkese).
Limonov non si distingue per le sue effettive capacità di scrittura, ma per la sua spregiudicatezza e le sue provocazioni; la traduttrice Marina Sorina scrive:
Eduard Limonov: questo nome appena un anno fa non avrebbe provocato in Italia alcuna reazione. In Russia, invece, chi ama la lettura lo conosce. Anche chi non ama leggere, ma segue la politica, ne ha sentito parlare.
In effetti dobbiamo costatare che se un autore che ha iniziato a scrivere negli anni Sessanta, attualmente, è più conosciuto rispetto a decenni fa è perché è stato un precursore in alcune analisi sociali e politiche.
L'attivismo politico di Ėduard Limonov
Dagli anni 2000 ci si interroga sulla comparsa di «mutanti ideologici» che sintetizzano e superano le ideologie novecentesche, ma già durante gli anni Ottanta Limonov desiderava amalgamare punk e intellettuali di varia estrazione (perlopiù provenienti da partitini senza speranza) per formare dei gruppi paramilitari con cui tentare dei colpi di stato. Il 1° maggio del 1993 Eduard costituì in Russia il Partito Nazional Bolscevico, messo fuorilegge nel 2007 e quindi confluito nel movimento politico d'opposizione L'Altra Russia.
Manifesto dell'«homo violentus» e documento autobiografico esemplare dello scrittore russo è il suo Diario di un fallito, redatto intorno al 1977 e pubblicato nel 1982. In questa raccolta di appunti è riassunto il vitalismo dell'autore, le sue ossessioni e i suoi obiettivi di vita. Allora si considerava uno «scrittore dilettante», un «cazzone di trentaquattro anni», un «giovane poeta provinciale» che piange leggendo l'epistolario di Che Guevara.
A differenza di questi, però, Limonov rifiutava risolutamente la lotta di classe come strategia per salvare il mondo: era infatti convinto che fosse sciocco credere che gli oppressi, solo perché tali, fossero capaci di porsi alla guida di una società migliore.
Alla solitudine e alla scarsa disponibilità di splendide modelle con cui intrecciare relazioni scandalose, lo scrittore russo rispondeva accettando la sessualità in tutte le forme che gli si presentavano: omosessualità, sadomasochismo, prostituzione, rapporti con individui che non giudicava neppure attraenti. Del resto Limonov non è mai stato né razzista, né un odiatore degli omosessuali.
Al di là di questa smania di corpi, però, l'ideale massimo di Limonov non è mai il sesso, né il successo letterario in sé, ma sempre il sovvertimento dell'ordine politico, come annotava:
Col cazzo che riuscirete a fare di me un signor scrittore. Se per caso guadagno un milione, mi comprerò le armi per organizzare un colpo di stato da qualche parte.
E ancora aggiungeva:
Questo sì che è un lavoro: rovesciare i governi. Raffinato, eccitante. E fai un sacco di quattrini.
Limonov si rivolse perciò a tutti i minuscoli e agguerriti gruppi di reduci che rifiutarono il riflusso nel privato proprio degli anni Ottanta, il poeta amava «l'odore dei piccoli giornali estremisti che incitano a distruggere e a non costruire nulla», i comizi semideserti:
Sì, mi schiero con il male, con i giornali stampati con il ciclostile, con i movimenti e i partiti senza speranza. Assolutamente senza. Mi piacciono i comizi frequentati da due-tre persone, la musica cacofonica di musicisti mancati, con le facce segnate dal fallimento permanente. Continuate a suonare, carissimi…
Così Limonov aspirava a scavalcare, o addirittura a cavalcare, l'atomizzazione della società da cui tuttora il progressismo spera di creare il vuoto necessario per estinguere ogni forma di resistenza.
Il rifiuto del progressismo e dello stile di vita statunitense si manifestò in Eduard col suo convinto avvicinamento al patriottismo russo e alla fede nella Terza Roma come potenza conquistatrice, destinata a espandersi anche oltre i territori dell'Unione Sovietica e dell'Impero Zarista, e quindi a far crollare il progetto dell'egemonia globale di Washington.
Considerato tra i maggiori scrittori russi contemporanei, in più occasioni Limonov ha dichiarato di non amare i grandi romanzieri russi; egli faceva parte di una nuova generazione di letterati che si ispiravano piuttosto al cinema e alla cultura pop del cosiddetto Occidente (tra tali artisti possiamo annoverare anche Aleksej Ivanov).
La fama di Limonov
Lo scrittore russo Nikolaj Gogol, in «Anime morte» (1842), descrive la senilità con queste parole:
È minacciosa, terribile la vecchiaia che vi aspetta, e non restituisce mai nulla! La tomba è più caritatevole di lei, sulla tomba si legge: «Qui è sepolto un uomo!» ma non si legge nulla sui freddi, insensibili tratti dell'inumana vecchiaia.
Ed era questo tipo di invecchiamento a spaventare Limonov. Nel «Diario di un fallito» si legge:
«Mai e poi mai pubblicheremo il tuo libro sovversivo, col cazzo, non ti solleverai mai dalla merda e dal fango. Creperai da operaio sottopagato, che ogni mattina si alza per andare a Long Island, berretto in testa, pensieroso…»
Tra le sue volontà il narratore esprimeva anche quella di morire da combattente:
«Datemi una fine violenta in dono alla mia vita. Fate scorrere il mio sangue, uccidetemi, torturatemi a morte, tagliatemi a pezzi! Non può esistere Limonov vecchio! Fatelo nei prossimi anni. Preferisco che sia fatto di aprile o di maggio!»
Fu forse ricercando tale destino che lo scrittore cercò di architettare un colpo di stato in Kazakistan, piano che gli costò l'arresto in Russia nell'aprile del 2001. Nel 2014, con i disordini in Ucraina, Limonov (come tutta l'opposizione politica russa di un qualche peso) si schierò a favore della linea di politica estera di Putin.
Il progressismo occidentale, accecato dall'antiputinismo, con logica machiavellica, arriva a cercare ovunque tra i nemici del governo della Federazione Russa dei presunti «eroi» da celebrare: lo ha fatto con i terroristi musulmani ceceni, lo ha fatto con i neonazisti ucraini, lo ha fatto con i neonazisti bielorussi, lo ha fatto con il nazionalista e razzista Aleksej Naval'nyj e ha provato a farlo anche con Limonov.
Tuttavia, i progressisti non si sono resi conto subito che Limonov era semplicemente un estremista propugnatore della rinascita della potenza russa e quando lo hanno scoperto hanno cercato di correggere il tiro bollandolo come «un Putin all'ennesima potenza» e «un ribelle di regime», ma ciò non ha fatto che contribuire alla crescita della fama del romanziere, il quale, se non è riuscito a morire in battaglia, si è trovato invece a raggiungere il massimo della notorietà poco prima di spegnersi.
Limonov e il Donbass
Già nel «Diario di un fallito» i nazionalisti ucraini sono canzonati in questi termini:
Ricordo le fattorie sommerse dal fiore dei ciliegi, circondate dai campi di grano saraceno. Vi è mai capitato di attraversare un campo di grano saraceno? E come ci si può intendere, se voi non avete mai attraversato un campo di grano saraceno seduti su un carro? Dalla vegetazione rigogliosa che circonda le fattorie uscivano i vecchi coi grandi cappelli di paglia, ci invitavano a entrare nelle loro case fresche e pulite, offrivano da mangiare del miele e del pane caldo. Ho vissuto tutto quel che fa impazzire gli ormai canuti nazionalisti ucraini qua, da questo lato dell'oceano, quel che li fa rigirare nel letto mille volte ogni notte. «L'Ucraina non è morta», e non morirà mai, finché persone come mister Savenko (il mio vero cognome) fanno casini su questa terra. E comunque non sono un nazionalista ucraino».
Nel 1977 il poeta punk non avrebbe nemmeno potuto immaginare lo smembramento dell'URSS, avvenimento che lo traumatizzò e lo spinse a prendere le armi.
Se non fosse scomparso il 17 marzo del 2020, Limonov sarebbe quasi sicuramente tornato nel Donbass coi «filorussi», forse al fianco di Steven Seagal in un'apoteosi dell'epica statunitense da film d'azione di serie B improvvisamente rivoltatasi contro la stessa «civiltà» che l'ha originata. O forse il romanziere russo avrebbe tenuto discorsi ai volontari come un nuovo D'Annunzio.
Nei territori delle repubbliche di Donetsk e Luhansk, Limonov ci era già stato più volte dal 2014, e durante il giro di presentazioni di libri che tenne in Italia nel 2019 ammise apertamente di aver «litigato» con entrambi i governi. Questa allusione fa riferimento, con tutta probabilità, all'allontanamento dei battaglioni nazionalbolscevichi voluto dai governi delle repubbliche popolari nel 2016.
Quella di Limonov è una biografia che aiuta più di quanto si possa credere a capire alcune forme di ribellione dei nostri tempi, di cui egli fu senza dubbio un precursore. Spesso liquidate come anarcoidi o condannate a restare imprigionate in cerchie ristrette, queste forme di rivolta antiatlantista sono il risultato di processi culturali su cui sarebbe necessario interrogarsi maggiormente e non sottovalutare: non è da escludere che delle guide carismatiche riescano a porsi a capo delle «rivolte dei falliti». Non sarebbe poi stupefacente se, a dispetto delle sue effettive capacità come narratore e verseggiatore, Limonov assumesse nei futuri studi sulla letteratura dei nostri anni un peso superiore a quanto molti oggi possano credere.
Gli aforismi di Ėduard Limonov
Per concludere proponiamo alcune frasi pronunciate da Limonov nel 2019, che chi scrive ha potuto ascoltare personalmente tramite la mediazione offerta ai presenti da un interprete.
Eccole radunate come degli inquietanti aforismi:
«Io ero una persona adulta quando sono entrato in carcere, ne sono uscito più intelligente. Ho avuto la possibilità di vivere insieme a persone semplici, amici del popolo russo, sono stato ben accolto da loro. Comunque lo raccomando anche ai giovani!»
«Sono stato di recente in Mongolia ed è stato molto interessante. Può succedere qualcosa lì, e in altri vasti paesi dell'Asia centrale.»
«Non ci sarà mai nessuno scontro tra i russi e i cinesi, siamo buoni amici. Molto vicini. Combatteremo fianco a fianco. I cinesi sono un grande esempio di saggezza di governo, gli europei lo impareranno presto.»
«La Russia in futuro dovrà combattere una guerra più grande di quella nel Donbass, sarà una guerra interna, guerra di sopravvivenza contro l'Islam.»
«La missione storica dei popoli russi è riconquistare Costantinopoli: il nostro progetto greco. Arriveremo dal Caucaso e dai Balcani insieme. Il tempo non ha importanza, la Turchia soccomberà.»
«A chi vuole organizzare una sommossa urbana consiglio di garantirsi subito il controllo dei centri commerciali, lì c'è tutto il necessario per portare avanti una rivolta: difese, cibo…»
Nel volume «Grande ospizio occidentale», l'autore Eduard Limonov (pseudonimo di Eduard Savenko, intellettuale russo scomparso nel 2020) equipara la società «evoluta» ad un ospizio, dove vi sono i «malati», cioè il popolo vittima dei propri agi, e gli «agitati», quella piccola parte di popolazione che non condivide affatto l'operato dell'amministrazione. L'amministrazione, nell'ospizio di Limonov, è rappresentata il «personale medico», che per fermare gli agitati e avere la situazione sotto controllo, si serve degli «infermieri», paragonati ai poliziotti o all'esercito.
I malati e gli agitati del «Grande ospizio occidentale»
Il malato «cittadino» ideale non dà noia ai «sorveglianti», in quanto svolge regolarmente la sua mansione e non eccede in nessun ambito: »non si muove né troppo veloce né troppo lento, non scoppia a ridere né si abbandona alla tristezza»; ecco il malato ideale che, ovviamente, non chiede di essere liberato. L'agitato, al contrario, è pericoloso: con gesti e discorsi sediziosi, vuole libertà ed eccezioni al regolamento, accusa di frode l'amministrazione, fino ad arrivare al livello di passare dalle parole ai fatti contro gli infermieri e l'amministrazione (insomma, come diceva il nostro caro Ezra Pound, idee che diventano azioni). Si può essere considerati agitati anche solo muovendo dubbi sulla condotta del personale.
L'ospizio
Ogni ospizio si proclama il migliore per i vantaggi che offre, ma il suo obiettivo principale è produrre e farlo in maniera sempre maggiore e sempre più efficace. L'ospizio giustifica se stesso utilizzando la storia, che, da momenti di miseria e sofferenza, raggiunge l'apice cioè la contemporaneità. La società di ieri è definita crudele, barbara, senza «istruzione pubblica, automobili, televisori, lavatrici», fino a far provare al malato commiserazione verso chi non ha avuto i cosiddetti «comfort»: ormai l'uomo dell'ospizio non desidera più nulla se non un nuovo sviluppo, perché continuamente insoddisfatto. Egli si trova in un clima di noia che è a metà tra estasi e disperazione.
I quattro aggettivi e la vera natura dell'uomo
Sofferenza, dolore, miseria e povertà sono i quattro aggettivi che sono usati molto spesso nell'ospizio per incutere paura. Variano a seconda dei decenni, ma sono sempre gli stessi. Già negli Anni '80 vengono utilizzati in Europa per indicare l'assenza dei comfort di cui gode la maggioranza della popolazione. In questo senso, per molti «malati» la povertà è rappresentata dall'impossibilità di andare al ristorante almeno una volta alla settimana. Il malato tende a eludere la sofferenza, il dolore, la miseria e la povertà, diventando così corrotto rispetto alla sua vera natura, che gli impone di affrontare gli ostacoli e superarli. Questa distorsione lo trasforma in un animale domestico, sia pure dotato di ragione. In sostanza, nell'ospizio si genera un benessere portato dalla quiete, dalla sazietà, dalla prosperità materiale. Alcune volte si ha uno strappo alla regola come per esempio i fatti nell'ex Jugoslavia, dove tra le rovine delle città vi sono giovani combattenti che esprimono fierezza nei visi e non disperazione. Il fatto che non abbandonino le loro città è dovuto alla natura combattiva dell'uomo. Esiste quindi una percentuale di uomini desiderosi di battersi. Questi sono gli agitati, avidi di lottare liberamente, di combattere. Questo desiderio di solito non si fa strada né tra i poveri né tra le vittime umiliate dalla disoccupazione, ma tra i cosiddetti agitati repressi: persone della classe media, come quelle che presero parte ai saccheggi dei grandi magazzini durante il blackout di New York del 1977. Possiamo quindi affermare che la morte di un ragazzo giovane è una tragedia solo se il fine ideale della vita umana è una casa di riposo piena di uomini in condizione terminale, circondati da minestre ed escrementi, in condizioni ripugnanti.
Una libertà apparente
Nell'ospizio si trova una incontestabile libertà di stampa: non è difficile avere l'autorizzazione per pubblicare un giornale o una rivista. Il vero scoglio è l'inaccessibilità alla grande distribuzione. Stiamo parlando di numeri alti, che servono per distribuire in modo omologato più copie possibili su un'intera area dell'ospizio per avere visibilità. Questa libertà di stampa, quindi, è una libertà vuota: senza supporto economico e la possibilità di distribuzione, numerosi giornali e riviste sono soffocati dai soliti colossi privati che hanno una visibilità tale da oscurare le nuove iniziative. Un esempio? Si può guardare al Nord America, dove la stampa ha uno spazio enorme, ma ciò non vuol dire che tutte le idee socio politiche siano sullo stesso piano in termini di libertà di circolazione: il partito trotskista non esercita alcuna influenza sulla opinione pubblica, mentre il conservatorismo sociale della maggioranza di americani si spiega proprio perché i giornali conservatori sono dei colossi finanziati da magnati che soffocano così le piccole pubblicazioni di idee diverse. Stessa cosa vale per la libertà di parola che è effettiva solo se si viene ascoltati. Senza uguaglianza nei finanziamenti, nella diffusione e nell'accesso alle onde radiofoniche o televisive, la libertà di parola è nulla.
Le elezioni libere e democratiche sono il fiore all'occhiello dell'ospizio. Il suffragio universale è basato sull'idea antiquata che l'istruzione pubblica obbligatoria faccia di ogni adulto un cittadino cosciente, consapevole dei propri interessi personali ma anche capace di metterli in secondo piano rispetto al bene generale. Il secondo assunto è che ognuno sia capace di farsi una propria opinione. A livello teorico, se il cittadino ideale fosse possibile e se tutti i cittadini fossero ideali, il sistema democratico sarebbe perfetto. Ma la realtà della vita in comune dimostra il contrario: la maggioranza della popolazione non ha una propria opinione, per mancanza di voglia e di capacità. Vota in funzione di opinioni prefabbricate, elaborate dall'amministrazione e suggerite dai media. Il sistema democratico, tuttavia, è indispensabile all'amministrazione e al popolo per santificare il potere.
Il libro «Limonov» dello scrittore francese Emmanuel Carrère, specializzato in biografie e sceneggiature, figlio di Hélène Carrère d'Encausse, esperta di Storia russa, deve proprio agli studi di sua madre, la sua passione per la Russia e, in questo caso, alla decisione di dedicare una biografia al discusso personaggio del libro in parola. Fu pubblicato in Francia nel 2011, e l'anno successivo in Italia nella traduzione di Francesco Bergamasco.
Eduard Limonov è lo pseudonimo di Eduard Veniaminovich Savenko, è nato nel '43 nella regione di Novgorod, ma cresciuto in Ucraina, a Char'kov, dove ha «debuttato» con i suoi primi crimini e anche scritto le sue prime poesie considerate d'avanguardia, durante il regime di Breznev. Carrère ne ha scritto la biografia, autorizzata dallo stesso Libonov, personaggio amato o odiato dal popolo russo a seconda delle idee politiche che hai.
La sua storia è ben condensata proprio nelle prime pagine del libro di Carrère che riporto:
«Limonov, 〈…〉, è stato teppista in Ucraina, idolo dell'underground sovietico, barbone e poi domestico di un miliardario a Manhattan, scrittore alla moda a Parigi, soldato sperduto nei Balcani; e adesso, nell'immenso bordello del dopo comunismo, vecchio capo carismatico di un partito di giovani desperados. Lui si vede come un eroe, ma lo si può considerare una carogna: io sospendo il giudizio. Comunque 〈…〉, ho pensato che la sua vita romanzesca e spericolata raccontasse qualcosa, non solamente di lui, Limonov, non solamente della Russia, ma della storia di noi tutti dopo la fine della seconda guerra mondiale»
Il libro si apre con l'arrivo di Carrère a Mosca per scrivere un articolo sulla morte di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa nel 2006, avversaria dichiarata della politica di Putin. In quella occasione lo scrittore conobbe Limonov e gli chiese il permesso per scriverne la biografia. Che in realtà diventerà poi la storia della Russia dal termine della seconda guerra mondiale al 2006, con tutti gli sconvolgimenti che ci sono stati in un Paese dalle forti contraddizioni e che ancora oggi sta vivendo: da una parte la povertà più nera che fa rimpiangere il vecchio regime di Lenin, se non addirittura di Stalin (e di cui Limonov si fa propugnatore), dall'altra la nascita dei nuovi ricchi che sopportano Putin il quale cerca di mantenere gli equilibri adottando una politica da molti ritenuta di menzogne. Del resto è lo stesso Putin che viene citato da Carrère quando riporta le sue parole
«Nessuno ha il diritto di dire a centocinquanta milioni di persone che settant'anni della loro vita, della vita dei loro genitori e dei loro nonni, che ciò che hanno creduto, per cui hanno lottato e si sono sacrificati, l'aria stessa che respiravano, nessuno ha il diritto di dire che tutto questo è stato una merda. Il comunismo ha fatto delle cose orribili, d'accordo, ma non era uguale al nazismo. L'equivalenza tra i due, che gli intellettuali occidentali danno ormai per scontata, è un'infamia. Il comunismo è stato qualcosa di grande, di eroico, di bello, qualcosa che gli dava fiducia. Il comunismo aveva in sé una parte di innocenza, e nel mondo spietato che è venuto dopo tutti lo associano confusamente alla propria infanzia, a ciò che commuove quando riaffiorano i ricordi dell'infanzia»
Eduard Limonov si definisce comunista ma in realtà identifica tale termine con un movimento da lui stesso creato e che si rivela essere in realtà molto vicino a quello dei naziskin. Personaggio «sopportato» dal regime di Putin perché continua ad avere degli estimatori, che però diventano sempre meno, tanto che i suoi libri oggi sono meno cercati nelle librerie e lui stesso scrive più volentieri sulle riviste gossippare, perché meglio remunerative. Ha fondato un movimento chiamato «Strategia 31» dal numero dell'articolo della Costituzione che garantisce il diritto di manifestare e ogni 31 del mese (per i mesi di 31 giorni) il suo gruppo si riunisce in una piazza di Mosca, circondata da poliziotti, per manifestare contro il regime.
Carrère segue molto affascinato le vicende del protagonista del suo libro, e questo si intravede fra le righe, malgrado lui ami dichiarare che non vuole esprimere giudizi. Il libro è diviso in due parti: quella in cui si narra di Eduard Limonov a New York e a Parigi, e l'altra che coincide con il suo ritorno in Russia.
A New York, dopo essere fuggito dall'allora Unione Sovietica, vive nella miseria, umili lavori in uno squallido hotel, esperienze sessuali sia etero che omo, risse e rapine. Carrère scrive che in quegli anni (1975–1990) in USA i dissidenti sovietici erano considerati con i risaputi luoghi comuni: barbuti, malvestiti, che vivevano in appartamenti poco più che fatiscenti, colmi di libri, e che passavano le notti intere a parlare della salvezza del mondo. Tuttavia Eduard riesce a vivere una vita più decorosa, diventa guardiano della villa e cameriere di un miliardario che si compiace di fare il democratico, e che vive per buona parte dell'anno lontano da casa, con il risultato che Eduard, può godersi magione e cameriera, comincia a scrivere delle sue esperienze e della sua vita in generale, su nulla tacendo. Così quando ha la fortuna di incontrare Evtuscenko, altro grande poeta dissidente russo, pur non stimandolo, riesce a fargli leggere il suo libro «Edicka» che viene poi passato all'editore californiano più famoso della beat generation, Ferlinghetti, che ne rimane colpito. Ma ancora più colpito ne rimarrà il collega-editore francese Jean-Jacques Pauvert, già famoso per romanzi come «Histoire d'O», che vorrà Eduard a Parigi e «Edicka» venne pubblicato con il titolo nuovo «Il poeta russo preferisce i grandi negri», dove, occorre dirlo?, la parte più succosa è rappresentata dall'uso che il protagonista faceva del suo deretano con negri occasionali. Dal 1980 Eduard rimane a Parigi fino al 1989, quando le cose in Russia sono cambiate e gli esuli ne potevano far ritorno. Tra nostalgia e voglia di fare cose nuove, il nostro ritorna a Crac'kov da cui era fuggito nel '75. Torna con la fama del grande scrittore e i suoi libri vengono tutti pubblicati mantenendo i titoli originali, ma siccome la Russia per estensione e numero di abitanti non è la Francia, le tirature sono altissime, ma non bastano mai, perché i nuovi russi sono conquistati da queste letture un po' punk, un po' fuori da ogni regola, insomma nuove. Siamo nel momenti in cui tutto sembra possibile, specialmente se circola il denaro, e questo comincia a circolare e c'è una gran fame di novità e di cose insolite.
Ma Eduard non è uno che sta con «le mani in mano», non dimentica la sua matrice poetico-politica, deve emergere di più, non può «campare di rendita». E così, mentre la gente cominciava a godersi la libertà, lui sputava sentenze contro Gorbaciov, considerato un pupazzo che si preoccupava di rappresentare la Russia all'Estero come un Paese in grande ripresa e soprattutto non si parlava più di gulag e comunismo sovietico. Provata pena per il tipo di morte da lui giudicata «eroica» di Ceacescu e consorte in Romania, la meta di Edouard sono poi i Balcani, stringe amicizia con Milosevic in Serbia e con Karadzic in Bosnia e lo troviamo a bombardare Sarajevo.
Passa a Parigi, vive la travagliata storia d'amore con Natascia, una ninfomane che sparisce per giorni e quando torna a casa è lercia negli abiti e nel corpo, ubriaca e con addosso l'odore di tutti gli uomini con cui è stata. La sua malattia si chiama ninfomania ma Eduard ne è innamorato e l'aiuterà sempre fino al momento in cui, anni dopo, a Mosca, lei sparisce del tutto con un altro uomo.
Molte sono le donne che si accompagnano a lui, più lui invecchia, più sono giovani le sue amanti, anche minorenni. Dopo altre puntate tra i Balcani, torna a Mosca definitivamente e fonda il partito nazional-bolscevico che assume come bandiera il simbolo nazista con la croce uncinata sostituita dalla falce e il martello. Nel frattempo Gorbaciov è stato sostituto da El'cin che viene eletto per due volte. E' famoso per il suo alcoolismo che lo mette in ridicolo specialmente all'estero. Non riesce a terminare il suo mandato a causa delle precarie condizioni di salute. Il suo posto viene preso da Putin che verrà eletto per due mandati di fila.
Eduard passa sempre di più all'estrema opposizione, fino ad agognare la formazione di un nuovo partito stalinista. Nel 2001 viene imprigionato a Lefortovo, uno delle carceri di massima sicurezza. Tutti i prigionieri sono completamente isolati gli uni dagli altri, vivono in una cella provvista di televisore, possono leggere e lui si guadagna il rispetto dei secondini perché non crea nessun problema e passa le giornate in letture impegnative. Quando dopo 14 mesi viene liberato, riprende la vita di prima. Anziano nel corpo ma non nello spirito, lo vediamo nel 2007 in compagnia di Carrère che ce lo descrive che sta ristrutturando una dacia russa, dove andrà a vivere con una moglie di trent'anni più giovane e un figlio di otto mesi. Alla domanda di Carrère se conosce l'Asia, risponde:
«No, non la conosco, non ci sono mai stato. Ma già da bambino ho visto delle fotografie: quelle scattate da mia madre nel lungo viaggio durante il quale mio padre si è occupato di me con affetto maldestro — all'epoca i padri non avevano l'abitudine di occuparsi dei figli piccoli. Erano foto che mi angosciavano e mi facevano sognare. Rappresentavano per me l'assoluta lontananza».
Di tutti i luoghi del mondo, continua Eduard,
l«'Asia centrale è quella in cui si trova meglio. In città come Samarcanda o Barnaul. Città schiantate dal sole, polverose, lente, violente. Laggiù, all'ombra delle moschee, sono le alte mura merlate, ci sono dei mendicanti. Un sacco di mendicanti. Sono vecchi emaciati, con i volti cotti dal sole, senza denti, spesso senza occhi. Portano una tunica e un turbante anneriti dalla sporcizia, ai loro piedi è steso un pezzo di velluto, su cui aspettano che qualcuno getti qualche monetina, e quando qualche monetina cade non ringraziano. Non si sa quale sia stata la loro vita, ma si sa che finiranno nella fossa comune. Sono senza età, senza beni, ammesso che ne abbiano mai avuti — è già tanto se hanno ancora un nome. Hanno mollato tutti gli ormeggi. Sono dei relitti. Sono dei re».
L'ultima volta in cui Carrère incontra Limonov è a Mosca nel 2009. La moglie lo ha lasciato dopo la nascita di un secondo figlio. Continua a organizzare una manifestazione di protesta l'ultimo giorno dei mesi di 31 giorni, durante le quali viene arrestato.
Aldilà di quelle che possono essere le idee politiche, il libro si fa apprezzare sia come saggio per le spiegazioni che uno scrittore occidentale offre sulla situazione social-politica di un paese contraddittorio come la Russia, sia come libro di narrativa per le varie vicende che narra in maniera pressoché romanzesca. Manca il processo di identificazione tra lettore e protagonista, che viene tratteggiato come figura non sempre positiva ma anzi contraddittoria, forse perché figlio genuino del suo paese d'origine. Ma questo può essere un bene perché spesso le identificazioni con i personaggi rischiano di affrontare l'opera non con occhio critico ma di parte.
«Non vi sembra velleitario questo Occidente in tuta militare che si prepara alla guerra e al riarmo quando è interiormente disarmato e demotivato?», se lo è chiesto su «La Verità» di oggi Marcello Veneziani. Una domanda che in parte presuppone già una risposta e che soprattutto sembra scivolare in un certo fatalismo, ma che apre anche a diversi interrogativi.
L'Europa e i venti di guerra secondo Veneziani
Il conflitto fra Russia e Ucraina ha risvegliato qualcosa di profondo nei popoli d'Europa, quell'orizzonte della guerra e della storia — che poi è lo stesso — forzatamente estirpato dallo spirito europeo. Bene fa Veneziani, però, a ricordare come la guerra sul suolo europeo non l'abbia riportata Putin, quanto piuttosto gli americani nel 1999 in Serbia. Anche se i due eventi ci interrogano in maniera differente: se l'intervento nell'ex Yugoslavia è la brutale intromissione del poliziotto mondiale statunitense in un mondo globalizzato, l'invasione russa è un segno dello spezzettarsi di quest'ultimo. Fatto che ci impone una responsabilità nuova, ovvero quella di essere nella storia e non più fuori da essa. O, per l'appunto, svegliarci da quello stato di torpore e decadenza di cui lo stesso Veneziani ci offre un quadro eccellente partendo da «Grande ospizio occidentale» di Eduard Limonov. Parafrasando lo scrittore russo, ci ricorda: «Vivere nelle società occidentali significa campare in un ospizio, gestito dagli amministratori pubblici e popolato non da cittadini ma da pazienti sotto sedativi, tranquillanti e antidepressivi». E ancora, «I bastioni di questo canone occidentale sono la teoria gender, la cancel culture e l'ideologia woke, che si riassumono in una sindrome diffusa: l'autodisprezzo, la vergogna di essere quel che siamo e che fummo nella storia».
Ma allora la risposta è arrendersi alla decadenza?
Fin qui nulla che non sia condivisibile, la situazione dell'Occidente è certamente sconfortante. Meno comprensibile è l'esito di questa valutazione, ovvero che i paesi occidentale — essendo a tal punto interiormente disarmati — non possano o addirittura non debbano armarsi: «Pensate che l'Ospizio occidentale possa ingaggiare con questi presupposti una guerra contro i mondi più vitali che premono ai suoi bordi, a Est, a Sud?». Qui è in atto quello stesso disprezzo di sé che prima veniva indicato fra i malanni occidentali. Se non si capisce bene quali siano i mondi più vitali a Sud, per quanto riguarda l'Est lo stesso Limonov aveva le idee chiare, tanto che proprio nel saggio citato da Veneziani affermava: «Che si lasci la Russia per gli Stati Uniti o gli Stati Uniti per la Russia, fa lo stesso». Insomma, l'ospizio è in realtà ovunque e non c'è luogo in cui si può scappare. Veneziani continua: «Non vi sembra velleitario questo Occidente in tuta militare che si prepara alla guerra e al riarmo quando è interiormente disarmato e demotivato?». Pur con tutte le sue contraddizioni, questa volontà di riarmo e di intervento — proprio in quanto contrasta con la nostra decadenza — non è invece un segnale positivo? Se pure Veneziani non cade nella trappola del pacifismo, di cui riconosce tutti i limiti: «Come ci insegna la storia, nessun pacifismo ha mai sconfitto e fermato una guerra; il massimo che produce è disarmare almeno psicologicamente una parte del campo, la propria». Aggiungeremmo noi, citando Enrico Corradini, «Quando si vuole la guerra interna, si è pacifisti». Dall'altra sembra comunque permanere un dato profondamente negativo, un'amarezza che si trasforma fatalismo se non addirittura disfattismo, quasi che l'Europa sia perduta per sempre e ogni gesto contrario a questo destino non sia altro che una truffa.
«La Russia si è assunta la grande responsabilità storica di aver riportato la guerra sul suolo europeo», ha detto Sergio Mattarella alle Nazioni Unite a New York. Per la verità, sul piano storico, la guerra in Europa fu portata dagli Stati Uniti venticinque anni fa, nella primavera del 1999, intervenendo in Serbia. E l'Italia fu coinvolta per la prima volta direttamente in un'operazione di guerra a due passi da casa: era presidente del consiglio Massimo D'Alema e vice-presidente del consiglio, con delega ai servizi segreti e poi ministro della Difesa Sergio Mattarella (omonimo?). Diciannove basi Nato sul suolo italiano furono utilizzate per due mesi per attacchi contro la Serbia, in un'operazione chiamata Allied Force, per farvi decollare gli aerei, per la logistica e la copertura radar: furono bombardate centrali elettriche e la sede della televisione serba a Belgrado. I bombardamenti e le operazioni militari, a cui partecipò il nostro Paese con nostri aerei e nostre portaerei, non ebbero l'autorizzazione dell'ONU anche se furono giustificati come un intervento umanitario. Le famose bombe umanitarie del progressista dem Clinton, con l'appoggio del governo progressista e umanitario nostrano… Fu quella la prima guerra europea dei nostri anni, ai confini di casa nostra, con diretta partecipazione italiana. Il precedente, ma lontano dall'Europa, era stato pochi anni prima in Iraq. Non ricordo grandi mobilitazioni pacifiste né discorsi istituzionali sul pericolo di una guerra alle porte dell'Europa, col diretto coinvolgimento dei paesi europei. Eppure quella fu una guerra molto più vicina al cuore dell'Europa e ai nostri confini, rispetto all'Ucraina.
Dall'altra parte, sull'onda dei massacri a Gaza, monta un aggressivo pacifismo nelle piazze, nelle università, tra le opposizioni. Come ci insegna la storia, nessun pacifismo ha mai sconfitto e fermato una guerra; il massimo che produce è disarmare almeno psicologicamente una parte in campo, la propria. Comprensibile che il Papa ripeta invano l'accorato appello alla pace, è la sua missione evangelica; meno comprensibile è il pacifismo come linea politica, ma solo quando si sta all'opposizione (al governo si è sempre inevitabilmente allineati alle decisioni della Nato, degli Stati Uniti e dell'Unione europea).
La risposta realista, invece, sarebbe allargare il gioco delle relazioni e delle pressioni, sganciare l'Europa dalla subalternità agli Usa e intraprendere un coraggioso piano negoziale per trasferire i conflitti sul piano delle trattative. Ma l'Europa e gli Stati Uniti, presi entrambi dalle loro scadenze elettorali, preferiscono mostrare i muscoli e manifestare, ora con Macron, ora con gli inglesi, la loro disponibilità a difendere con le armi l'Europa dalla Russia (che non ha mai pensato di attaccare l'Europa, semmai mira a riprendere il controllo di un'area che da secoli è nella sua orbita).
Ogni posizione che assume l'Occidente è ormai minoritaria sul piano mondiale, sia per quel che riguarda la guerra russo-ucraina sia per quel che riguarda la tragedia israelo-palestinese (salvo una parvenza di ravvedimento estremo). Ha senso in questa situazione e avendo davanti agli occhi gli sviluppi di quelle due catastrofi, insistere sulla linea filo-atlantista e interventista?
La riflessione a questo punto si sposta dall'attualità al piano più profondo della condizione occidentale. Che cos'è oggi l'Occidente sul piano mondiale? Temo che la definizione riassuntiva più efficace sia quella che ha dato qualche anno fa Eduard Limonov, scrittore russo-ucraino morto quattro anni fa: il grande ospizio occidentale. E' il titolo di un suo libro pubblicato in Italia da Bietti, con un'introduzione di Alain de Benoist. Secondo Limonov gli euroatlantici «non sentono più la vita», non hanno più energia, l'Europa è morta da un pezzo, ma il suo cadavere è mummificato nell'Unione europea. Vivere nelle società occidentali significa campare in un ospizio, gestito dagli amministratori pubblici e popolato non da cittadini ma da pazienti che vivono sotto sedativi, tranquillanti e antidepressivi. Ospizio anche per l'età media, ben rappresentato dal malandato Biden.
Il totalitarismo soft occidentale per Limonov si copre di moralismo, diritti umani e «impero del bene» che Cristopher Lasch definì Stato terapeutico, tra infantilizzazione programmata e opinioni prefabbricate. I bastioni di questo canone occidentale sono la teoria gender, la cancel culture e l'ideologia woke, che si riassumono in una sindrome diffusa: l'autodisprezzo, la vergogna di essere quel che siamo e che fummo nella storia. Spingendosi oltre Limonov, de Benoist nota che l'Ospizio Occidentale, alla luce di questa ideologia, è diventato una specie di ospedale psichiatrico. A un regime dispotico, nota Limonov è possibile ribellarsi, ma è difficile rivoltarsi contro le proprie debolezze. Impossibile l'agitazione dentro un ospizio, tutto viene sedato e ricondotto alle quiete, anzi al quieto non vivere, alla sua longeva e ricoverata sopravvivenza. L'amministrazione dell'ospizio non è nemica dei suoi pazienti, ma si presenta come loro complice e protettrice, e se limita la loro libertà e i loro orizzonti lo fa solo per il loro bene. Curiosamente, nota Limonov, la libertà è la parola-feticcio più inflazionata, con democrazia, negli ospizi occidentali. L'aggressività, nota lo scrittore russo, è scaricata in Occidente contro la natura, che è il secondo nemico, insieme alla storia. I suoi abitanti, poststorici e snaturati, sono «infantili oltre che effemminati», gli scarsi giovani sono «vecchietti in erba» che vivono digitando; la musica pop provvede ad abbrutirli. La rivoluzione sessuale e il femminismo, più che innalzare la donna abbassano l'uomo; la pornografia è l'erotismo per i poveri. Ma oggi, aggiungiamo noi, siamo entrati in una fase di desessualizzazione dell'occidente, come si conviene del resto a un ospizio.
In questo quadro, conclude Limonov, l'unico patriottismo ammesso è il patriottismo del nichilismo: non difendere la civiltà, le eredità, il mondo di valori, ma la loro assenza, smerciata per libertà e diritti umani. Pensate che l'Ospizio occidentale possa ingaggiare con questi presupposti una guerra contro i mondi vitali che premono ai suoi bordi, a est, a sud? Non vi sembra velleitario questo occidente in tuta militare che si prepara alla guerra e al riarmo quando è interiormente disarmato e demotivato?
La morte di Satnam Singh, il giovane bracciante indiano a cui erano stati vietati i soccorsi, è l'ennesimo tragedia che si consuma sul posto di lavoro. E anche la riprova che l'Italia non è più un porto del tutto sicuro e che Limonov quando parlava di popolo corrotto che non vuole ribellarsi aveva ragione.
Ma siamo ancora sicuri che l'Italia sia un porto sicuro? Dopo quello che è successo a Satnam Singh io lo dubito. Che cosa siamo diventati? Che cosa è diventato l'Occidente? È questa la globalizzazione? Allora non è meglio che ognuno se ne resti a casa sua a patire i suoi mali senza dover attraversare mari o deserti per subire i mali degli altri? La nostra civiltà sembra l'anteprima dell'inferno. Guardiamo e applaudiamo la serie «Fall out» per abituarci all' idea della guerra atomica. D'altronde il cinema prepara le masse al futuro. La finta etica possibilista ha l'uomo come oggetto di consumo. Sì può acquistare tutto anche un genere sessuale. E se il livello morale del nostro mondo fosse visibile ad occhio nudo i Caronti che scaricano i peccatori neri sulle nostre coste vedrebbero ad accoglierli cartelli con scritto: «Lasciate ogni speranza voi che entrate».
Viene da chiedersi in che girone siamo. Ma forse ognuno può scegliere il suo e accessoriarlo, basta pagare. Il bello del libero arbitrio è che l'inferno è così liberale che basterebbe votare per farlo chiudere. Ma a votare non ci si va, infatti, solo in Italia abbiamo avuto 23.500.000 astenuti. Più della somma di quelli che hanno espresso il loro voto validamente. Limonov sarà pure scomodo ma in una cosa aveva ragione: la colpa è del popolo corrotto che non si ribella perché vuole spartirsi i guadagni generati dalla decadenza. È così che quello che Limonov chiamava il «Grande ospizio occidentale» è diventato un Inferno. Dove nessuno si ribella alla tirannia della libertà. Nessuno si ribella ai padroni del nulla seduti sul trono dei loro templi digitali e attorniati dalla corte degli influencer. Re astratti, ciechi, impotenti e idioti come il «Dio Azathot» di Lovecraft. Che dormono in uno stato sub-umano sognando il benessere degli algoritmi.
Era il 19 maggio 2014 quando Eduard Limonov pubblicava su «Izvestija» questo appassionato resoconto della rivoluzione nel Donbass.
Una rivolta di libertà.
È così che tutto ha avuto inizio: i primi focolai rivoluzionari si sono accesi nell'est dell'Ucraina, nelle regioni confinanti con la Russia.
All'inizio le folle sollevatesi nelle città principali, Donetsk e Lugansk, hanno preso nel complesso qualche sede amministrativa dal valore fortemente simbolico.
Molti di noi se ne sono già dimenticati, ma a Lugansk è stata presa la sede dei servizi segreti ucraini, mentre a Doneck il palazzo dell'amministrazione regionale.
E così i focolai hanno cominciato a divampare anche nei centri più piccoli, a Slavjansk e Kromatorsk.
La fiamma inizia ad ardere.
Nella sua fase iniziale la rivolta serpeggia sul territorio ucraino con lentezza, le tempistiche hanno cominciato ad accelerare tutte d'un colpo in seguito al brutale eccidio degli attivisti filorussi in Odessa, dopo di che hanno preso piede molti altri focolai.
Una seconda spinta vi è stata in seguito all'assassinio di civili inermi avvenuta a Mariupol'.
Ed ora, dopo il referendum dell'11 maggio e la risultante istituzione delle Repubbliche Autonome di Doneck e Lugansk, il virus della rivoluzione inizia a lacerare il tessuto ucraino già in diversi centri abitati.
I focolai divampano su tutto il territorio delle due neonate repubbliche e si accendono di tanto in tanto ad Odessa e a Charkov. Anche se qui non vi sono ancora fiamme così potenti, il potere di Kiev convive sempre più difficilmente con il clima rivoluzionario delle masse.
La guerra tra le due parti continua: i territori in rivolta e quelli controrivoluzionari convivono nel caotico disordine e compiono atti di aggressione l'uno contro l'altro.
La guerra incalza. E in questo giovane conflitto l'esercito di miliziani del Donbass si sta comportando egregiamente.
Una linea del fronte comune ancora non c'è, ma presto vi sarà, disposta proprio lungo la linea dei confini occidentali delle nuove repubbliche.
Avendo ricevuto in dote dal referendum anche il diritto morale di lottare per la propria rivoluzione, le due nuove repubbliche con coraggio provano a riunire le proprie ardenti rivolte sotto un'ardente ed unica entità nazionale.
Vorrei che si ponesse l'attenzione sul carattere liberatore della sommossa in atto nelle Repubbliche di Doneck e Lugansk (e certamente anche sul carattere liberatore della rivoluzione in Crimea, la quale, per sua fortuna, è riuscita a sfuggire all'Ucraina sotto l'egida russa senza guerra alcuna).
L'impossibilità di continuare ad esistere in seno all'Ucraina è diventata evidente dopo che, il 22 di febbraio, a Kiev è salito al potere un regime di estrema destra, che ha fatto dell'Euromajdan il suo simbolo.
Fin qui l'appartenenza all'Ucraina delle regioni «russe» sud-orientali è stata sì umiliante e sgradevole, tuttavia ancora non considerabile mortalmente pericolosa. Ma con l'arrivo al potere di questo regime di estrema destra filo-occidentale, la cui guida è formata da originari dell'Ovest del Paese, nonché seguaci dei suoi ideali, questi ha cominciato a rappresentare un pericolo mortale. Già aveva assunto questa parvenza durante gli eventi del Majdan di inizio febbraio, per poi mostrare tutta la sua crudeltà nel folle massacro di Odessa.
Il regime di estrema destra, nel quale coloro che secondo gli standard mondiali sarebbero considerabili dei criminali di guerra patentati si ritengono santi, fronteggia direttamente quelli che sono i valori del Sud-Est.
Gli abitanti delle regioni Sud-orientali considerano l'esercito al servizio di tale regime come occupante, mentre il fatto che i soldati di tale esercito parlino una lingua comprensibile ai suddetti abitanti — ovvero il russo e l'ucraino — non fa altro che aggiungere una nota sinistra agli avvenimenti. Una nota di terrore.
La popolazione è in rivolta con lo scopo di liberarsi, è un fatto certo. Essendo rimasta nella prigionia ucraina per ben ventitré anni, avendo resistito ai vari premier bugiardi e truffatori, ai vari Timošenko, Juščenko, Janukovič, il Sud-Est non vuole più patire i sanguinari assassini al potere. Poiché i truffatori, in qualche modo, si possono sopportare, gli assassini no di certo.
Ed ecco spiegata le semplici ragioni dei territori in rivolta, ecco la loro banale motivazione: scacciare gli occupanti dalla loro terra.
Perché è tutto così semplice, la motivazione è semplice. La rivolta di libertà delle regioni Sud-orientali dell'Ucraina è destinata a trionfare.
Non vogliono vivere con degli assassini al potere. E non ci vivranno.
E si separeranno da questa Ucraina da loro governata. Ed insieme alle prime due repubbliche si separeranno dall'Ucraina anche la regione di Charkov, quella di Odessa, di Nikolaev, di Cherson e, io spero, anche lo Zaporože. Vi sarà una grande battaglia per quella di Dnipropetrovsk. Anche se la Russia si rifiuterà prenderle con sé, loro si separeranno.
Un nuovo Paese è comparso sulle cartine d'Europa.
Kiev Kaput!
«Il Nemico», 17 settembre 2024
Traduzione dal russo all'italiano di Giannicola Saldutti.